La lirica amorosa di Corrado Calabrò (Le ancore infeconde, Pagine, Roma 2000) 

La letteratura italiana ha molti conzonieri d’amore. Prima tra tutti quello di Petrarca, la “Vita nuova” di Dante, le rime dei petrarchisti e degli stilnovisti, alcune poesie di Umberto Saba o di Montale, ecc. ecc… Non c’è stato autore italiano che non abbia scritto poesie d’amore. Perfino Leopardi, che sembrava così avulso dal sentimento più comune tra i mortali, riesce a comporre una canzone come “A Silvia” che non è altro che un bellissimo e nostalgico canto d’amore. Eppure oggi pochi sono coloro che dedicano un intero canzoniere all’amore. Tra questi bisogna annoverare Corrado Calabrò, poeta di origine calabrese che vive da molti anni a Roma. La sua silloge di poesie infatti, “Le ancore infeconde”, hanno un unico filo conduttore: l’amore, nel senso mistico e sensuale, quale esaltazione della donna amata, ma pure come conquista di un’essenza che va oltre la materialità quotidiana. Dell’amore sono visti gli aspetti più personali, sfuggenti, mistici quasi. La donna è vista nel suo incanto e nella sua aureola di felicità e di pace, benché non sia divinizzata come negli stilnovisti, in Dante in particolare, né viene presentata come un intangibile ideale sull’esempio del Petrarca. La donna è vista nella sua realtà e nella sua quotidianità, ma soprattutto quale emblema di un sentimento universale, in uno stato di parità virtuale tra i due amanti. «L’amore non può essere profondo se non è puro» scrive il filosofo Auguste Comte.  «L’amore è la poesia dei sensi. O è sublime o non esiste. Quando esiste, esiste per sempre e va di giorno in giorno crescendo» ribatte invece lo scrittore francese H. de Balzac. In effetti l’amore espresso da Calabrò si pone tra spirito e materia, tra sentimento e senso, tra anima e corpo. «La donna è compagnia e traguardo, piacere e scioglimento. Ma è impossedibile come la poesia… Vince il tempo della vita, con gli stupori, i trasalimenti, i guizzi della memoria, i soprassalti dell’ansia. Perché amore è energia dell’universo, voce dell’arcano, premonizione e apprensione del nulla che sovrasta l’uomo e la natura» scrive nella stupenda prefazione Elio Pecora. E in effetti l’amore in Corrado Calabrò è quasi espressione di una fusione tra natura e la persona amata, tra amante e amata. In quest’ottica la donna viene quasi divinizzata, ma in senso negativo. «Non sei una dea; delle dee, di grazia, hai / l’atarassia, quest’incapacità / di uscire da te stessa e amare un altro».  I riferimenti al mondo classico sono continui e costanti, ma non ossessivi. L’uomo è in continuo viaggio verso l’amore, quasi fosse un Ulisse che vuole allontanarsi dalle tempeste della vita e gettare le ancore. L’uomo si mostra desideroso di conoscenze e d’avventura. «Vento di scoglio / isole improvvise / magliette appese ad un filo di rafia.». Il linguaggio è moderno e accattivante, e questo spinge a leggere con piacere la poesia di Corrado Calabrò.

                              Angelo Manitta