Sesto Properzio (I sec a. C.)
Poeta di origine umbra vissuto nel I sec. a.C., mostra una profonda liricità e una grande passionalità. Dei poeti latini è certo, insieme a Tibullo e Catullo, il più vicino alla sensibilità dei moderni.  
   
 
Elegiae I, 17
Et merito, quoniam potui fugisse puellam,
   nunc ego desertas alloquor alcyonas.
Nec mihi Cassiope salvam visura carinam
   omniaque ingrato litore vota cadent.
Quin etiam absenti prosunt tibi, Cynthia, venti:
   aspice, quam saevas increpat aura minas.
Nullane placatae veniet fortuna procellae?
   Haecine parva meum funus harena teget?
Tu tamen in melius saevas converte querelas:
   sat tibi sit poenae nox et iniqua vada.
An poteris siccis mea fata reponere ocellis,
   ossaque nulla tuo nostra tenere sinu?
A pereat, quicumque rates et vela paravit
   Primus et invito gurgite fecit iter.
Nonne fuit melius dominae pervincere mores
   (quamvis dura, tamen rara puella fuit),
quam sic ignotis circumdata litora silvis
   cernere et optatos quaerere Tyndaridas?
Illic siqua meum sepelissent fata dolorem,
   ultimus et posito staret amore lapis,
illa meo caros donasset funere crines,
   molliter et tenera poneret ossa rosa:
illa meum extremo clamasset pulvere nomen,
   ut mihi non ullo pondere terra foret.
At vos, aequoreae formosa Doride natae,
   candida felici solvite vela choro:
si quando vestras labens Amor attigit undas,
   mansuetis socio parcite litoribus.
Elegiae, I, 18, 1-22
Haec certe deserta loca et taciturna querenti,
   et vacuum Zephiri possidet aura nemus:
hic licet occultos proferre inpune dolores,
   si modo sola queant saxa tenere fidem.
Unde tuos primum repetam, mea Cynthia, fastus?
   Quod mihi das flendi, Cynthia, principium?
Qui modo felices inter numerabar amantes,
   nunc in amore tuo cogor habere notam.
Quid tantum merui? Quae te mihi crimina mutant?
   An nova tistitiae causa puella tuae?
Sic mihi te referas levis, ut non altera nostro
   limine formosos intulit ulla pedes.
Quamvis multa tibi dolor hic meus aspera debet,
   non ita saeva tamen venerit ira mea,
ut tibi sim merito semper furor et tua flendo
   lumina deiectis turpia sint lacrimis.
An quia parva damus mutato signa colore,
   et non ulla meo clamat in ore fides?
Vos eritis testes, siquos habet arbor amores,
   fagus et Arcadio pinus amica deo.
A quotiens teneras resonant mea verba sub umbras,
   scribitur et vestris Cynthia corticibus!

O Cinzia, guarda!  (trad. Angelo Manitta)

E proprio perché ebbi l’animo di abbandonare
   la fanciulla, ora io parlo ai solitari alcioni.
Né Cassipea vedrà più la mia nave intatta
   mentre ogni presagio si dissolve sul lido inospitale.
Persino i venti sono favorevoli a te, lontana, o Cinzia:
   osserva come l’aria risuona di funeste minacce!
Nessuna buona sorte verrà a placare la tempesta?
   Questa minuscola sabbia coprirà il mio cadavere?
Tu tuttavia addolcisci i severi lamenti:
   ti basti una notte di tormento e un mare avverso.
Avrai forse il coraggio di seppellire il mio corpo con occhi
   asciutti, senza stringere nel tuo seno alcun mio osso?
Ah! Perisca chi per primo ha inventato le navi
   e le vele, ed ha attraversato l’infido mare!
Non sarebbe stato meglio domare le abitudini della signora
   (benché crudele, tuttavia fu rara fanciulla)
piuttosto che scrutare i lidi accerchiati da boschi sconosciuti
   e ricercare nel cielo i desiderati figli di Tindaro?
Laggiù, se il caso avverso avesse seppellito il mio dolore
   e una pietra tombale stesse sull’amore sepolto,
lei avrebbe poggiato i suoi diletti capelli sul mio cenere
   e avrebbe dolcemente coronato le ossa d’una tenera rosa:
lei avrebbe declamato il mio nome nell’estremo saluto
   affinché la terra non mi fosse di alcun peso.
Ma voi, figlie del mare, nate dalla stupenda Doride,
   sciogliete le candide vele in un felice coro di voci.
Se mai Amore ha toccato le vostre acque lambendole,
   risparmiatemi, quale vostro amico, rendendo placidi i flutti.
 
 
Il mio dolore (trad. Angelo Manitta)
Questi luoghi, per chi si lamenta, sono certo deserti
   e silenti, e il soffio di Zefiro possiede la vacuità del bosco.
Qui è possibile rivelare senza timore occulti dolori,
   purché i sassi solitari sappiano tenere il segreto.
Da dove comincerò, o mia Cinzia, a rivelare il tuo
   rancore? Perché, Cinzia, mi fai piangere tanto?
Io, che prima mi ritenevo tra gli amanti felici,
   ora nel tuo amore sono costretto a sentire rimproveri.
Perché ho meritato questo? Quale mia colpa ha mutato il tuo
   animo? Forse una nuova ragazza è causa della tua tristezza?
Che tu possa così ritornare con grazia nella mia casa
   come nessun’altra vi ha messo i suoi delicatissimi piedi.
Benché questo mio dolore ti debba molta acredine,
   tuttavia la mia rabbia non sarà mai così spietata
da essere perpetuamente irritato con te e deturpare
   i tuoi occhi di lacrime versate piangendo.
Forse non do piccoli segni col colore mutato del mio viso?
   Forse non manifesta la mia sincerità?
Siatemi testimoni, o alberi, se mai avete amato,
   o fagio, o pino amico dell’arcade dio.
Ah! Quante volte risuonano le mie parole sotto tenere ombre,
   e quante volte scrivo ‘Cinzia’ sulle vostre cortecce!