Elegiae
I, 17
- Et merito,
quoniam potui fugisse puellam,
-
nunc ego desertas alloquor alcyonas.
- Nec mihi
Cassiope salvam visura carinam
-
omniaque ingrato litore vota cadent.
- Quin etiam
absenti prosunt tibi, Cynthia, venti:
-
aspice, quam saevas increpat aura minas.
- Nullane
placatae veniet fortuna procellae?
-
Haecine parva meum funus harena teget?
- Tu tamen
in melius saevas converte querelas:
-
sat tibi sit poenae nox et iniqua vada.
- An poteris
siccis mea fata reponere ocellis,
-
ossaque nulla tuo nostra tenere sinu?
- A pereat,
quicumque rates et vela paravit
-
Primus et invito gurgite fecit iter.
- Nonne fuit
melius dominae pervincere mores
-
(quamvis dura, tamen rara puella fuit),
- quam sic
ignotis circumdata litora silvis
-
cernere et optatos quaerere Tyndaridas?
- Illic
siqua meum sepelissent fata dolorem,
-
ultimus et posito staret amore lapis,
- illa meo
caros donasset funere crines,
-
molliter et tenera poneret ossa rosa:
- illa meum
extremo clamasset pulvere nomen,
-
ut mihi non ullo pondere terra foret.
- At vos,
aequoreae formosa Doride natae,
-
candida felici solvite vela choro:
- si quando
vestras labens Amor attigit undas,
-
mansuetis socio parcite litoribus.
- Elegiae, I, 18, 1-22
- Haec certe
deserta loca et taciturna querenti,
-
et vacuum Zephiri possidet aura nemus:
- hic licet
occultos proferre inpune dolores,
-
si modo sola queant saxa tenere fidem.
- Unde tuos
primum repetam, mea Cynthia, fastus?
-
Quod mihi das flendi, Cynthia, principium?
- Qui modo
felices inter numerabar amantes,
-
nunc in amore tuo cogor habere notam.
- Quid
tantum merui? Quae te mihi crimina mutant?
-
An nova tistitiae causa puella tuae?
- Sic mihi
te referas levis, ut non altera nostro
-
limine formosos intulit ulla pedes.
- Quamvis
multa tibi dolor hic meus aspera debet,
-
non ita saeva tamen venerit ira mea,
- ut tibi
sim merito semper furor et tua flendo
-
lumina deiectis turpia sint lacrimis.
- An quia
parva damus mutato signa colore,
-
et non ulla meo clamat in ore fides?
- Vos eritis
testes, siquos habet arbor amores,
-
fagus et Arcadio pinus amica deo.
- A quotiens
teneras resonant mea verba sub umbras,
-
scribitur et vestris Cynthia corticibus!
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O Cinzia, guarda! (trad.
Angelo Manitta)
- E proprio
perché ebbi l’animo di abbandonare
-
la fanciulla, ora io parlo ai solitari alcioni.
- Né
Cassipea vedrà più la mia nave intatta
-
mentre ogni presagio si dissolve sul lido inospitale.
- Persino i
venti sono favorevoli a te, lontana, o Cinzia:
-
osserva come l’aria risuona di funeste minacce!
- Nessuna
buona sorte verrà a placare la tempesta?
-
Questa minuscola sabbia coprirà il mio cadavere?
- Tu
tuttavia addolcisci i severi lamenti:
-
ti basti una notte di tormento e un mare avverso.
- Avrai
forse il coraggio di seppellire il mio corpo con occhi
-
asciutti, senza stringere nel tuo seno alcun mio osso?
- Ah!
Perisca chi per primo ha inventato le navi
-
e le vele, ed ha attraversato l’infido mare!
- Non
sarebbe stato meglio domare le abitudini della signora
-
(benché crudele, tuttavia fu rara fanciulla)
- piuttosto
che scrutare i lidi accerchiati da boschi sconosciuti
-
e ricercare nel cielo i desiderati figli di Tindaro?
- Laggiù,
se il caso avverso avesse seppellito il mio dolore
-
e una pietra tombale stesse sull’amore sepolto,
- lei
avrebbe poggiato i suoi diletti capelli sul mio cenere
-
e avrebbe dolcemente coronato le ossa d’una tenera rosa:
- lei
avrebbe declamato il mio nome nell’estremo saluto
-
affinché la terra non mi fosse di alcun peso.
- Ma voi,
figlie del mare, nate dalla stupenda Doride,
-
sciogliete le candide vele in un felice coro di voci.
- Se mai
Amore ha toccato le vostre acque lambendole,
-
risparmiatemi, quale vostro amico, rendendo placidi i flutti.
-
-
- Il mio dolore (trad. Angelo Manitta)
- Questi
luoghi, per chi si lamenta, sono certo deserti
-
e silenti, e il soffio di Zefiro possiede la vacuità del
bosco.
- Qui è
possibile rivelare senza timore occulti dolori,
-
purché i sassi solitari sappiano tenere il segreto.
- Da dove
comincerò, o mia Cinzia, a rivelare il tuo
-
rancore? Perché, Cinzia, mi fai piangere tanto?
- Io, che
prima mi ritenevo tra gli amanti felici,
-
ora nel tuo amore sono costretto a sentire rimproveri.
- Perché
ho meritato questo? Quale mia colpa ha mutato il tuo
-
animo? Forse una nuova ragazza è causa della tua tristezza?
- Che
tu possa così ritornare con grazia nella mia casa
-
come nessun’altra vi ha messo i suoi delicatissimi piedi.
- Benché
questo mio dolore ti debba molta acredine,
-
tuttavia la mia rabbia non sarà mai così spietata
- da
essere perpetuamente irritato con te e deturpare
-
i tuoi occhi di lacrime versate piangendo.
- Forse
non do piccoli segni col colore mutato del mio viso?
-
Forse non manifesta la mia sincerità?
- Siatemi
testimoni, o alberi, se mai avete amato,
-
o fagio, o pino amico dell’arcade dio.
- Ah!
Quante volte risuonano le mie parole sotto tenere ombre,
-
e quante volte scrivo ‘Cinzia’ sulle vostre cortecce!
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