- Vittoria Colonna:
- il suo mondo, la sua poesia
(I Parte)
- di
Silvana
Andrenacci Maldini
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- Nel 1990 è
stato ricordato il quinto centenario della nascita di Vittoria
Colonna. La nobile poetessa, natia di Marino, discendeva dai
marchesi di Spoleto, già potentissimi nel XII secolo d.C. Nel
1419, i Colonna principi di Paliano, avevano aggiunto ai vari
domini del Lazio anche quello di Marino, dominio però molto
contrastato; Vittoria, di appena dieci anni, dovette soffrire
molto nel vedere il suo paese semidistrutto per opera del
Maresciallo d’Aubigny.
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Epoca tormentata quella dell’Italia del Rinascimento! La
scomparsa di Gian Galeazzo Visconti pose fine ai tentativi
egemonici della Penisola e scatenò tra i vari potenti una
violenta competizione di conquiste, che si prolungò oltre la metà
del secolo XV. Eppure l’economia italiana fu in quel periodo la
più evoluta d’Europa. Specie nell’Italia
centro-settentrionale, il potere politico, in mano a una attiva
classe borghese, impiegò la potenza dei vari stati ai propri fini
di espansione economica. L’Italia si illuminò della Civiltà
nuova del suo Rinascimento; gli artisti e i poeti trassero dal
passato l’energia per creare opere di bellezza immortale. I
Colonna erano ghibellini. Pertanto, volendo conservare i beni
ereditati dai loro parenti ed accrescere il loro potere politico,
erano in continua lotta con il Papato e la famiglia Orsini. Gli
ascendenti di Vittoria nel 1303 si servirono del monarca francese
Filippo il Bello, e lui di loro, per detronizzare il Papa
Bonifacio VIII, il quale aveva fatto radere al suolo, nel 1298,
Palestrina, feudo dei Colonna. Per il rifiuto di Papa Celestino V
e la cattura di lui a Viestre ad opera del successore Bonifacio
VIII, oltre che per la penosa prigionia nella Rocca di Fumone del
santo anacoreta e i rancori sempre vivi dei Colonna, venne a
maturarsi un piano di vendetta.
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Il motivo della vendetta pontificia risale al furto e
all’oltraggio di Pietro Sciarra Colonna che si era impadronito
di un carico di monete e di materiali preziosi destinati dal
Caetani agli Annibaldi per l’acquisto di alcune proprietà
feudali degli Annibaldi stessi.
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La tradizione vuole che Pietro Sciarra colpì il Papa al
viso con la mano inguantata di ferro e che insieme a Guglielmo di
Nogaret, inviato del Re di Francia, e con Stefano Colonna
catturarono, insieme ad altri congiurati, il Papa Bonifacio VIII e
i suoi familiari nella loro casa di Anagni, ma il popolo,
sollecitato dal Cardinale Fieschi, liberò Benedetto Caetani, il
quale, ritornato a Roma, poco tempo dopo morì.
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Nel 1417, il Principe Ottone Colonna fu eletto Pontefice
dal Concilio di Costanza, Concilio che chiuse egli stesso l’anno
seguente. Egli convocò anche quello di Basilea, ma morì prima
della sua apertura. I suoi quattordici anni di regno gli
consentirono però di prodigare onori e ricchezze ai suoi parenti,
che divennero potentissimi in Roma. Vittoria non visse abbastanza
per gioire della gloria di suo nipote Marcantonio, il quale, nel
1571, insieme a Sebastiano Veniero, Andrea Doria, Ettore Spinola,
nonché ai suoi fidi marinesi, distrusse la flotta turca comandata
da Mehamet Alì nelle acque di Lepanto, meritandosi il titolo di
Principe di Palestrina.
- Vittoria, la
marchesana, come fu chiamata dagli ischitani e dai romani del suo
tempo, sposò giovanissima, Ferrante di Avalos marchese di
Pescara, capitano al servizio di carlo V; gli Avalos erano dei
nobili spagnoli venuti nel 1422 in Italia al seguito di re Alfonso
di Aragona, pertanto Ferrante era un esponente della nobiltà
aragonese del Reame di Napoli. Le sue nozze con Vittoria furono
celebrate nel Castello d’Avalos nel 1509.
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In quell’epoca il castello ebbe il suo maggior spendore,
ma oggi è parzialmente in rovina, nonostante
i rimaneggiamenti. La sua costruzione risale forse al XII
secolo: sorge su di un piccolo isolotto trachitico a 300m.
dall’abitato di Ischia Ponte, collegato dal quattrocentesco
ponte aragonese. È composto dal mastio rafforzato da quattro
torrioni cilidrici, inoltre dai resti dell’antica Cattedrale
dell’assunta, dal convento delle Clarisse con l’annessa chiesa
dell’Immacolata e della chiesetta di San Pietro a Pantaniello.
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Ischia, Pitecusa per i Greci, rinomata in quell’epoca per
l’arte degli orciolai, si chiamò poi Enaria per aver dato
ospitalità al profugo Enea, e successivamente Anarime, poiché i
poeti classici immaginavano il gigante Tifeo dalle cinquanta
teste, che, fulminato nella sacrilega battaglia contro il cielo,
rimase sepolto nelle viscere dell’Epomeo. In seguito l’isola
si chiamò tutta Ischia, prendendo nome dal fortissimo Castello.
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La futura Beatrice di Dante onorò e fu onorata di vivere
nel castello che ricordava oltre alle virtù militari di Giovanni
Caracciolo, un fedelissimo dello svevo Federico II, che preferì
morire bruciato in una delle quattro torri, piuttosto che darsi
vinto all’Imperatore Ottone IV (XII-XIII sec.); anche il
coraggio di Costanza D’Avalos contro le armi francesi.
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Vittoria, che visse sedici anni a Ischia con suo marito,
non avrà potuto certamente dimenticare il buon vino marinese
immancabile alla tavola dei Colonna ma avrà gradito l’ “epomeo”,
un vino già rinomatissimo da allora, che prende il nome dal monte
stesso, sulle cui pendici acclivi i vigneti crescono ubertosi.
Fumarole e sorgenti minerarie, che sono le caratteristiche del
luogo, avranno destato interesse e curiosità nella nobildonna,
facendo palpitare in lei la poesia di Virgilio e di Omero, essendo
Ischia geneticamente vicina ai Campi Flegrei. I panorami, le
singolarità naturali di Roma, degli Imperatori romani,
conferiscono a questo luogo, circondato da un mare affascinante,
una suggestività creatrice che stimolò Vittoria alla conoscenza
della cultura classica. L’isola di Ischia, patria elettiva della
gentile poetessa, volle onorarla nel mese di luglio 1990 con un
importante convegno internazionale di studi, inoltre con un
premio, una mostra e una sfilata in costumi del Cinquecento. Gli
abiti di Vittoria tramandati a noi iconograficamente, ispirarono
l’estro di Rocco Barocco che offrì idealmente alla dama alcune
toilettes di stile rinascimentale. La famosa autrice delle
“Rime” tornò a regnare nelle cronache isolane, il suo nome
costituì anche l’insegna di un riconoscimento donato alla
signora Rita Levi Montalcini, simbolo di femminilità operosa
degna dell’illustre nobildonna. È nella settecentesca chiesa
dell’immacolata, alta sullo scoglio aragonese, chiusa al culto,
ma restaurata e adibita ad importanti convegni culturali, che si
svolge nel luglio 1990 il seminario Colonna. Riaffiorarono ipotesi
e desideri di nuove ricerche storiografiche intorno alla figura di
Vittoria, amica carissima di Michelangelo Buonarroti. Lo stile
della poesia di Vittoria è dolce, petrarchesco, quello di
Michelangelo, il caro amico che la nobildonna frequentò per ben
dodici anni, è malinconico, tragico. La principessa, di illustre
sangue romano, sposa di un grande capitano che sperò di essere
fatto “RE”, colui che lo stesso Imperatore Carlo V andava a
riverire nel suo palazzo, che era protetta dai Papi, lodata da
Ariosto, rispettata da Pietro Aretino, ebbene si dice che non
fosse bella, nonostante che i ritratti di Cristoforo
dell’Altissimo e di Girolamo Muziano ce la mostrino leggiadra.
Il ritratto di Sebastiano del Piombo di una Vittoria ancor giovane
in effetti è deludente, anche la medaglia che la rappresenta
all’incirca nel 1540 mostra un profilo poco amabile. Ma il suo
biografo Filonio Alicarnasso così esalta le sue qualità morali:
«…Fu donna di filosofica risoluzione e prontezza, inimica di
dissimulazioni, di bugie, di gran discorso e libera nella
riprensione degli amici…». Da una lettera del nobile Martinengo
di Bergamo del 1546: «…Ella ha tal forza ne’ ragionari che
par quasi che dalla sua bocca escan catene, con
le quali tragga i sensi degli ascoltanti». Vittoria coltivò
amicizie con uomini politici, d’arme e di scienze militari ;
protesse il teologo e letterato Valdes, un quasi protestante al
servizio di Carlo V, così pure
Ochino generale dei Cappuccini, primo Riformatore che lasciò
l’Italia perché diventò evangelico. Fu amica di Renata di
Francia, duchessa di Ferrara, la quale favorì il movimento della
Chiesa, passata al protestantesimo. Fu amica e ammiratrice
dell’inglese Reginaldo Pole, cardinale a Roma dal 1536, il quale
fece parte su incarico del Papa Paolo III della Commissione di
studi della Riforma. Vittoria, la cui fede era autentica,
auspicava una Chiesa più austera ma poté gioire nel 1545, della
realizzazione del 19° Concilio Ecumenico della Chiesa Cattolica,
avvenuto nella città di Trento, che si protrasse fino al 1562 in
cui la Chiesa disciplinò l’opera della Controriforma. Quando
Vittoria restò vedova, aveva circa 35 anni, ed eccola ritornare
nel Lazio, frequentando Viterbo, Roma, la sua Marino, alternando
ai viaggi ricchi di interessi culturali, periodi di ritiro in
convento.
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Un ricercatore ischitano, Nunzio Albanelli, sostiene che i
resti della poetessa, morta a Roma nel 1547, si trovano a Napoli
tra i muri di San Domenico Maggiore. Le tombe della famiglia
Colonna sono a Paliano nella cappella gentilizia dell’austero
palazzo, ma Vittoria aveva sposato un nobile aragonese,
sembrerebbe logica la supposizione dell’Albanelli. Ma fino ad
oggi i resti della marchesana, non indiduabili per l’assoluta
modestia di lei, sono a Roma nel camposanto attiguo al convento di
Sant’Anna. (Riguardo la salma del Michelangelo, sappiamo che, di
notte, suo nipote la trafugò e la trasportò a Firenze.)
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L’augusta poetessa e Michelangelo si erano conosciuti nel
1534; Giovanni Papini nella sua “Vita di Michelangelo” è
scettico riguardo la passione di lui per Vittoria, perché,
conclude: «Il Genio era un anziano malinconico, tutto preso dai
pensieri dell’arte e della penitenza; Vittoria era una vedova più
che appassita, che passava di convento in convento, facendo vita
ritirata e devota. Non si vede bene come potesse nascere fra
questi due esseri un vero amore nel senso che lo intendono i
pagani o i romantici: né platonico. Si dirà che il cuore non
invecchia e che non sono rare le passioni senili. Ma quella di
Michelangelo, stando ai documenti ed ai ricordi dei contemporanei,
non fu una di codeste passioni; da parte sua vi fu soprattutto una
intellettuale venerazione per le alte qualità spirituali della
Colonna; in lei vi fu una ammirazione viva per l’artista e una
amicizia fondata sulla comune ardente “Fede in Cristo”». E
così il Papini dà una importanza relativa ai sonetti deliranti
d’amore del Genio per la divina ispiratrice, gioia e tormento
della sua anima. La convinzione generale invece è che il
Buonarroti, almeno nei primi tempi, desiderò possedere la sua
Musa, ma non ricambiando lei uguale sentimento, pur ammirandolo
sopra ogni altro uomo, l’amicizia seguitò intensissima fino
alla morte della nobildonna. Pur restando autonomi, i due amici
seppero donarsi uno all’altra proficuamente; si dice siano le
sembianze di Vittoria quelle della Madonna del Giudizio, sulla
volta della Cappella Sistina; l’immenso affresco (m.13,
70x12,20) che interamente ricopre la parete di fondo della
Cappella, per cui Michelangelo lavorò cinque intensissimi lunghi
anni, fu motivo di incontri e di conforto per entrambi.
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Più tardi il genio dedicò a Vittoria una
“Crocifissione” dipinta nel 1545, così pure una “Pietà”
a rilievo, del ’46 è la “Samaritana”, opere che purtroppo
sono andate perdute (Nicolas Beatrizet, lorenese, morto nel 1545,
era disegnatore e bulinista; egli riprodusse i disegni del Genio
eseguiti per la Colonna, della “Samaritana” ed altro, che sono
però finiti all’estero.)
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Dalla biografia del Condivi si legge: «Egli in particolare
amò grandemente la marchesana di Pescara, del cui divino spirito
era innamorato, essendo all’incontro da lei amato
svisceratamente: della quale tiene ancora molte lettere,
d’onesto e dolcissimo amore ripiene, e quali di tal petto uscir
solevano; avendo altresì scritto a lei più e più sonetti pieni
di ingenuo e dolce desiderio. Ella più volte si mosse da Viterbo
e d’altri luoghi, dove fosse andata per diporto e per passar la
state, ed a Roma se ne venne, non mossa da altra cagione, se non
di veder Michelangelo: se egli all’incontro tanto amor le
portava, se non che quando l’andò a vedere nel passar di questa
vita, non così le baciò la fronte e la faccia come baciò la
mano. Per la costei morte più volte se ne stette sbigottito e
come insensato». Dalle “Rime” di Michelangelo ho scelto la n°
113, riportandone la parafrasi (Universale Laterza):
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«Non potrà mai essere che gli occhi santi di lei traggano
piacere dai miei, com’io ne traggo da loro, poiché in cambio
dei dolci sorrisi del suo volto divino, io non le rendo che amari
e tristi pianti. Oh! Ingannevole speranza degli innamorati! Perché
mai quell’infinita bellezza, quella soverchiante luce dei suoi
occhi sono così diverse da me che, mentre io ardo d’amore, non
risplendano anch’esse di ugual fiamma? Costretto a muoversi con
passo disuguale tra due volti così diversi e anzi contrari, Amore
s’adira, né può non sentire pietà di me quando entra nel mio
cuore portandovi fuoco e n’esce poi tutto bagnato delle mie
lacrime».
- Lo stile
poetico dell’epoca era piuttosto edulcorato, ma il contenuto di
questa e tante altre poesie che il Genio ha dedicato a Vittoria
dicono chiaramente i sentimenti dell’Artista per la donna amata.
Sempre di Papini, è la nota del carteggio fra i due personaggi:
«Il carteggio è assai scarso: quattro lettere di Vittoria al
genio e due di lui alla poetessa. Sono, a dir vero, lettere di
complimento, di cerimonia, e di spirituale sottigliezza ma non
certo di amore. Essa lo chiama cordialissimo magnifico in una
lettera che dev’esser del 1542 o ’43, e che ben rivela il
carattere tutto religioso delle loro relazioni: “…sapendo la
nostra stabile amicizia, - scrive la marchesa – et ligata in
cristiano nodo, sicurissima affectione “Prego” quel Signore
del quale con tanto ardente et humil core mi parlaste al mio
partir da Roma, che io vi trovi al mio ritorno con l’imagin sua
così rinnovata et per vera fede viva nell’anima come ben
l’avete dipinta nella mia Samaritana».
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Pare che fosse Vittoria
a ricondurre il Genio più vicino a Dio: sia l’uno che l’altra
desideravano una purificazione e una riforma della Chiesa ed erano
simpatizzanti del Savonarola, ma schietti cristiani desiderosi
della perfezione nella vita ecclesiastica di quei tempi. Vittoria
dedicò due sonetti a Michelangelo: “Perché la mente vostra
ornata e degna” e “Quando intender qui puote umano ingegno”
riferendosi a delle opere dipinte e scolpite dal maestro. Nei convegni di San
Silvestro a Roma, pochi erano gli eletti, Vittoria faceva scelte
oculate: Lattanzio Tolomei, ambasciatore di Siena presso la Corte
Pontificia, il Giannotti, scrittore politico, Priscianese, il
latinista, Claudio Tolomei, il letterato, il Buonarroti stesso, di
cui scrive il Papini: «Era un uomo di vaste curiosità
intellettuali, non praticava soltanto artisti ma volentieri
s’intratteneva con uomini di lettere e di scienza dai quali
poteva venir arricchito e illuminato il suo spirito». Il
Cardinale inglese Reginald Pol, così devotamente ammirato da
Vittoria, fu amico anche di Michelangelo attraverso lei. Il Pole,
inviato fuori d’Italia e a Trento, si ritrovò a Roma proprio
quando Vittoria fu assalita da quella malattia già cronica che
doveva condurla alla morte il 25
febbraio 1547, ospite di Giulia Colonna Cesarini; vicino a
lei, confortatore e guida della sua anima grande, il Cardinale
Pole, incontrandosi spesso con il genio, trepidante per la sorte
dell’amata inferma.