Catturare l'estasi
di Maria Pina Natale
 

Le Pleiadi a occidente indicavano l’ora tarda, ma la notte era troppo bella per rintanarsi a dormire. Davanti alla casa di lei la ghiaia del giardino smise di scricchiolare per qualche istante, poi i passi ripresero a scalpicciare pietruzze allontanandosi, rientrando sul più soffice percorso di terra battuta e, infine, sull’asfalto delle vie cittadine. Bisognava andare in cerca di un rifugio per la notte. L’ufficio forse?

            Vi si avviarono. Egli aprì il grande portone di legno massiccio che stridette girando sui cardini arcaici. Nell’androne, illuminato fiocamente da un globo polveroso che pendeva al centro del soffitto, trattennero per istinto il respiro. In punta di piedi salirono al primo piano e si avviarono nel vasto corridoio centrale fino alla porta sulla quale campeggiava la scritta: Direzione.

            Si accertarono che le persiane fossero chiuse e le tende tirate, poi lei affondò nella vasta poltrona di pelle accanto alla scrivania mentre lui passò nella stanzetta attigua, dove accese un fornello a spirito e mise del latte a riscaldare. Ma non portò a termine l’operazione: impaziente, ripassò nel salone dell’ufficio e la strinse in un abbraccio appassionato.

            Un discreto picchio all’uscio li fece sobbalzare. Si ricomposero e il picchio si ripeté.

            - Chi è? – chiese lui contrariato.

            La porta si schiuse e vi fece capolino la testa ricciuta del custode, mentre la sua voce chiedeva rispettosamente se il signor direttore avesse bisogno di lui. Il ‘signor direttore’ non aveva bisogno di lui e il custode si ritirò. Ma ormai l’incanto era rotto e i due non erano più tanto certi che lei, pur ben protetta dall’alto schienale della poltrona, non fosse stata scorta dallo zelante(?) ometto.

            Il direttore ripassò nella stanzetta attigua e spense il fornello. Lei spense la luce e si riadagiò sulla poltrona. Ora però il vasto ambiente era diventato brutto e inospitale. Come quasi per un accordo precedentemente stabilito, si avviarono simultaneamente a rientrare in strada.

            Bisognava pure che quella asfissia morale trovasse finalmente una qualsiasi evasione in grado di sostituire la mancanza di ossigeno e di impedire la fine. Cedere alla violenza esterna di una società fallimentare sarebbe stato intollerabile dalla liberalità di principi cui si ispirava la loro vita.

            Ormai fissare ogni notte le Orse o le Pleiadi o Sirio non bastava più al loro amore travolgente: doveva esserci un rimedio in qualche remota plaga della vita. Forse era soltanto questione di scovarlo, individuarlo, enuclearlo.

            La notte era fredda e limpida, una di quelle notti sornione che sembrano rifulgere per dispetto, lavate e civettuole, dopo una giornata uggiosa e bagnata.

            La panca del Lungomare, a ridosso della mimosa già fiorita, li accolse discreta sotto le sue ombre che lasciavano intravedere stelle inesplorate. Si strinsero l’una accanto all’altro come per un istintivo bisogno di reciproca protezione e intesa. Le teste si accostarono e le guance si sfiorarono dolcemente, mentre gli sguardi erranti si persero insieme per strade dorate di stelle e fiammeggianti di pensieri.

            Era una festa glissare attraverso serici “tapis roulants” che snodavano caleidoscopici colori, mai visti né immaginati prima di quella notte. Sembrava che i corpi avessero perso peso e consistenza e vivessero all’unisono con quei colori impalpabili. Ma la sensazione più dolce era che si sentivano felici. Quasi fossero stati denudati all’improvviso da tutte le scorie del mondo, non ne sentivano più i limiti e le miserie. Andavano liberi e senza meta, uniti in faccia a tutti. Chi fossero quei ‘tutti’ nemmeno lo sapevano. Né si curavano di saperlo. Era, sì, una grande moltitudine, ma non avrebbero saputo precisarne il carattere, sia perché più che ‘vederla’ la ‘sentivano’, sia perché né all’uno né all’altra importava indagare.

            Ma soprattutto perché erano felici. Forse era così anche per gli altri. Ed era per questo che non si curavano di vedersi a vicenda. Forse anche quegli estranei, che non si riusciva a scorgere, erano chiusi ciascuno nel proprio velo di felicità che li proteggeva dagli sguardi e dalle contaminazioni altrui. Forse era finalmente questo il segreto della felicità. E pensare che era così semplice! Tanto semplice che era stato impossibile scoprirlo in milioni di anni. Se l’incantesimo di quell’ora poteva bastare a compensare le miserie, le lacrime, il sangue di miriadi di vivi, passati e presenti, se bastava a catturare l’estasi dei corpi pietrificati nell’attesa, era senza dubbio il miracolo della redenzione che si compiva e perfezionava a misura d’uomo. E loro due ne erano il simbolo e la realtà, nel duplice aspetto della felicità e dell’amore.

            Scalare le vette di quel cielo stellato era soltanto l’idea pura: luminosa e marginale. Era toccare i vertici di un involucro astuto e cattivante, che aveva illuso i millenni dell’uomo consociato e aveva alimentato la rissa perenne. Senza speranza. Ora il patto era concluso: l’avventura cominciava qui, schiudendosi verso orizzonti sconfinati e imprevedibili.