Quante
volte mi sono trovato a scrivere, tante volte sono stato preso dal
dubbio se ne valesse la pena. Scrivevo per me o per gli altri?
Scrivevo per una sorta di autoesaltazione o perché ne scaturisse un
monito rigeneratore? Ad un attento esame di coscienza capii che ero
sollecitato da impellenti problemi sociali ed esistenziali, da un
desiderio di affermazione di valori che vedevo lesi anche da parte
di note personalità della cultura. Non si trattava dunque di me; il
mio “io” veniva cancellato da una forte esigenza spirituale –
quasi “incarnata” e perciò più avvertita -,
da una pietà per la condizione umana che mi spronava a
scrivere, convincendomi che l’artista fosse strumento di
un’ignota volontà di perfezione. Sì,
ne è valsa proprio la pena. La
Poesia come “rabbia” contro chi ti scanna la giustizia; la
Poesia come “denuncia” contro chi ipocritamente ti dice di
amarla, ma esibisce ‘maschere’ sociali a ‘Premi’ e a
‘Prime’ camuffato da autorità civile e culturale (e non), corpo
inerte senza slanci né ideali, senz’anima (“Non ha ceti la
poesia”): la Poesia come “pane” per chi soffre la fame e ha
bisogno di chi glielo porga come spada di riscatto; la Poesia come
“Amore” se, per caso, l’Arte vincerà la sua battaglia. Il
mio vuole essere un messaggio di pace, d’amore per una società
che si fondi sulla giustizia, pur essendo consapevole della
difficoltà, per la natura stessa dell’uomo, di realizzare una
tale aspirazione. I miei versi vogliono pertanto scuotere e
sollecitare ad un’azione concreta chi a questi valori crede, ma in
realtà coltiva teoricamente solo nel proprio intimo, appagandosene.
Ma vorrei anche scagliare i miei versi a chi, responsabile degli
immediati destini umani, possa non restarne indifferente. Ma ai
giovani penso principalmente affinché capiscano il vero scopo della
poesia. Sebbene le strutture educative siano piuttosto carenti, e
sperando che il futuro vi ponga rimedio, affido ai mezzi di
comunicazione, casuali e non, il compito di diffondere le mie
“idee poetiche” che potrei anche definire la mia “politica
poetica”. È
compito dello Stato educare alla Poesia: senza di essa non c’è
verità e amore; resta solo la violenza e l’odio. Ma suppongo che
gli uomini che fanno lo Stato – nelle sue varie espressioni di
potere; il quarto, il quinto al giorno d’oggi particolarmente
importanti (per favore, escludete noi semplici cittadini, non come
vorrebbe un semplicistico luogo comune che favorisce soltanto chi
veramente detiene il potere) – abbiano a cuore ben altro che non
sia il bene dell’“anima” da cui deriva il bene sociale. Ah
se i politici amassero la Poesia come l’amano i Poeti! Ah
se governassero i Poeti! Non i presuntuosi, però: ne siamo sommersi
purtroppo, anche in Arte! Oh
Utopia U-t-o-p-i-aaaaaaaa! Proposta:
Educare alla Poesia, all’Arte non come mezzo di affermazione, ma
come bisogno quasi di spirituale sensualità che esalti la mente e
soddisfi i sensi. Riscontro:
Mi chiedo fino a che punto ciò possa interessare chi del successo e
della ricchezza ha fatto lo scopo della vita. Epilogo: Che cosa augurargli di terribile per farlo rinsavire e dargli la possibilità di giudicare che il vero valore della vita è la vita stessa, senza altri affanni che quelli derivanti dalla sua povera carne destinata alla distruzione? In quei momenti di sofferenza non credo che si curerebbe d’altro se non della propria salvezza. Ed è per questo che mi rivolgo a voi fautori di successi e di ricchezze, di profitti e di tangenti, d’ingiustizia e di ipocrisie, di crimini e di bestiali violenze, augurandovi che almeno un malanno (catartico) possa salvarvi l’anima e la Poesia possa salvarvi anche la vita. |