La poesia ricca di antinomie e liricità di Rosa Spera: note su una  poetessa classica ed originale. 

Rosa Spera nasce al verso poetico nella maturità, quando – tramontate le urgenze giovanili e superate le contingenze e gli eventi accidentali dell’esistenza – l’anima si introflette, si guarda, si giudica, si avvolge su se stessa; poi avverte, sempre più nitida e netta, la necessità di uscire da sé e, infine, incanala il moto vitale del comunicare in quel miracolo di parole, toni, colori e musiche interiori che è la Poesia. Una poesia già ricca, già stratificata e perfino scarnificata dal potere brutale della vita, eppure verginale, in quello stupore primigenio della poetessa che plasma i vocaboli – le sue creature, – li piega con dolce severità alle cose da dire e li fa rinascere vestiti di luce nuova, propria. Ormai ineludibilmente suoi, e subito dopo nostri, di noi che scorriamo i suoi versi come percorrendo le rapide con una canoa, con la stessa leggerezza e la stessa ebbrezza. Non è poesia facile, quella di Rosa Spera. Non concede nulla e non indulge a nulla, nemmeno al ricordo, nemmeno alla nostalgia, che pure costituiscono una fonte della sua ispirazione. Perché se «come ritagli affiorano i ricordi / dolci essenze di un tempo andato», che farebbero pensare a toni crepuscolari, «squarcia con la lama della speranza / il muro di sofferenza / e sconfina come una rondine in volo / nell’alba di una nuova esistenza irradiata dal sole» innerva prepotentemente di nuova linfa di energia il ciclo dell’eterno ritorno, che comprende la vita e la morte, al di là delle singole sofferenze e dei singoli aneliti di una singola esistenza.

               Poesia ricca di antinomie, di soggetti, di linguaggio, di contesto culturale, sociale, letterario. La natura, le sue manifestazioni e le sensazioni che trasmettono: «Si fa sera, / un brivido gelido percorre / il profilo dei monti…», e ancora: «Albe saranno spente, inutile luna… graffiti di nascente aurora / incidono strati di velluto»: si misura con pari forza e ricchezza d’immagini con i temi sociali anche scottanti come l’emigrazione: «E crescerà la sete di tornare / mentre sequenze inquiete di ricordi / costellarono la terra delle nebbie», la prostituzione: «Aleggerà come eterea presenza / una lucciola spenta / nella tristezza acuta della notte», la condizione femminile cantata nella pluripremiata “Donna del Sud”: «che hai solcato sentieri di ramaglie».

               Gli affetti – raccontati con un’ombra di pudore e la vena mesta di chi è consapevole della loro fragile forza caduca – le dolorose esperienze di un padre perso troppo presto: «Era settembre / ricordo padre le gemme del tuo sorriso / naufragato nel baratro dell’ultimo anelito», e di una madre chiusa nel grembo nero del lutto: «Ti racconto, madre / a sera di un inverno inoltrato… / E tra le mani martiri di rughe / stringi residui di affetti sfumati», coesistono con i «tuoi verdi pensieri ribelli / ghermiti dal ghigno di oasi nefaste» e con «ambigue metamorfosi / dipingono geometrie contrastanti».

               In un insieme di passaggi linguistici aulici, talvolta ricercati fin quasi all’ostentazione della preziosità del suono e del colore, fin quasi alla voluta barocca, e tuttavia modernissimi per immagini azzardate, nuove e tormentate nella loro intrinseca frammentazione, come tormentato è stato il secolo appena concluso, il ‘900, quel ‘secolo breve’ del quale siamo a nostra volta tormentati ed antinomici figli. E qui il cerchio si chiude. La ragion d’essere della poesia di Rosa Spera sta nell’interpretazione del nostro tempo, con il plusvalore di una cifra poetica e stilistica, originale e insieme ‘classica’ perché avvertibile, assimilabile e condivisibile.

                              Carmen Palmiotta