Rivedere il concetto di colpa professionale

Dr. Luigi Mastroroberto

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È noto che, pur trovando la responsabilità del prestatore d'opera intellettuale origini antiche, che risalgono addirittura a millenni, fino ad alcuni decenni fa la casistica riguardante azioni penali o civili per responsabilità professionale era, in senso quantitativo, decisamente contenuta, per non dire sporadica, emergendo chiara, dalla lettura delle leggi e della conseguente giurisprudenza, l'esigenza della difesa del mito della supremazia dell'autorità culturale dell'uomo e della scienza.
Tipici esempi di ciò sono il codice civile napoleonico e quello italiano del 1865, che includevano sì il rapporto professionale nello schema del "mandato", con tutti gli obblighi conseguenti, ma di contro non contenevano alcuna specifica disciplina relativa alla responsabilità del professionista, nell'intento, nemmeno troppo nascosto, di garantire alle professioni intellettuali la loro tipica origine liberale, preservandone la piena indipendenza e l'ampia discrezionalità.

Il nostro codice civile del 1942, avvertendo chiara la necessità di meglio disciplinare il contratto d'opera intellettuale e, più in particolare, il problema della responsabilità del professionista, regolò la materia, specie attraverso l'art. 2236, con il chiaro intento, come detto nella nota di commento dell'allora Ministro Guardasigilli, di “... trovare un punto di equilibrio fra due opposte esigenze: quella di non mortificare l'iniziativa del professionista, col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso, e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista”.

A ben guardare, tanto più nella consapevolezza di quanto oggi sta accadendo, è questa una annotazione “illuminata”, che ben identifica qual è (o, meglio, quale dovrebbe essere) il modo di intendere la colpa professionale e, più di ogni altra, quella in campo medico, tracciando il confine che delimita da un lato il diritto del paziente ad agire nei confronti di chi lo ha curato male e, al tempo stesso, quello del medico di agire professionalmente con serenità in un campo, quale appunto quello della pratica medica, che è di per sé pericoloso e che spesso richiede iniziative decise e precise, anche se potenzialmente rischiose per il paziente.

Nonostante comunque questa illuminata ispirazione, tale norma, nei confronti dell'obiettivo per cui era stata scritta, ha stentato per molti anni ad affermarsi, continuando a prevalere, per diversi decenni, una interpretazione che limitava la responsabilità del professionista alla sola ipotesi della colpa grave e mantenendo ristretto e sporadico il numero di casi di azioni giudiziarie nei confronti dei medici. È difficile collocare cronologicamente con esattezza il momento di inversione di questa concezione giuridica della colpa professionale, fatto sta che, un po’ in tutto il mondo industrializzato, contemporaneamente al tumultuoso modificarsi nei decenni scorsi del più generale concetto di vita civile e sociale, il criterio di attribuzione della colpa professionale si è progressivamente modificato, col conseguente determinarsi di una rilevante espansione della casistica. Ed è nozione comune che la responsabilità professionale del medico o comunque delle strutture che erogano prestazioni sanitarie, in alcuni paesi fra quelli maggiormente industrializzati rappresenta già da qualche decennio un fenomeno di ampie dimensioni e di importante impatto sociale, tale addirittura da condizionare l'operato dei medici e delle stesse strutture e, come avvenuto in alcuni paesi, addirittura le scelte di politica sanitaria nazionale.

In Italia, un'indagine effettuata alla fine degli anni '80, che monitorizzò il fenomeno in una città del nord nella quale era stato possibile registrare i dati riguardanti tutte le strutture del SSN operanti su quel territorio, (Martelli-Mastroroberto, “Implicazioni assicurative della responsabilità professionale del medico nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale”, in La Responsabilità Medica in ambito civile, CEDAM, 1989, 193-225) documentando forse proprio il punto di "viraggio" di cui sopra si diceva, dimostrò che se nell'anno '85 rispetto all'84 l'aumento delle denunce e/o delle richieste danni per presunti errori professionali si mantenne nell'ordine di alcuni procenti, nell'86 si registrò, rispetto all'85, un aumento del 50% e nell'87 si giunse ad un incremento di addirittura il 90% rispetto all'anno precedente.

È attualmente in corso un analogo studio che, sulla stessa fonte di dati, sta analizzando l’ulteriore andamento nei 10 anni successivi. L’elaborazione non è ancora giunta a termine ed oggi è possibile fornire unicamente il dato base, rappresentato dal numero di denunce pervenute, dato questo che comunque appare di assoluto interesse.

Nel grafico che segue è riportato l’andamento del numero di denunce in funzione di un numero fisso di prestazioni sanitarie ed in relazione all’anno in cui è stata effettuata la prestazione sanitaria “incriminata”:



Come si può rilevare, emerge evidentemente come vi sia stato un costante incremento dal 1983 al 1995. Da questo grafico sembrerebbe di rilevare che a partire dal 1995 vi sia stata un’inversione di tendenza con un costante calo delle denunce negli anni a seguire. 
In realtà questa solo apparente tendenza alla riduzione dei casi nasconde in sé un fenomeno del
tutto atipico e che contribuisce a rendere maggiormente rilevante quanto sta accadendo oggi in Italia nel campo della responsabilità professionale medica.
Se, infatti, invece che rapportare il numero delle denunce all’anno in cui è stata effettuata la prestazione sanitaria incriminata, lo rapportiamo all’anno in cui la denuncia è stata sporta, lo stesso grafico si modifica nel modo seguente:


Il fenomeno che emerge dal confronto fra questi due grafici è quello che va sotto il nome di “denunce tardive”. Esso trova la sua motivazione nel fatto che, grazie anche all’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, che pone la responsabilità professionale medica delle strutture del S.S.N. nel campo della responsabilità contrattuale, per la quale è previsto un termine di 10 anni per la prescrizione, un gran numero di casi viene denunciato molto tempo dopo il verificarsi del fatto ritenuto come colposamente errato. Questo secondo grafico dunque non solo documenta che non vi è affatto alcuna inversione nell’incremento delle denunce, ma dimostra anche come il numero di queste continui a crescere in maniera costante.
Questo andamento della casistica e questo fenomeno delle denunce tardive ha determinato diverse ed importanti criticità.
Anzitutto per le Compagnie di assicurazione che, avendo fino ad oggi gestito in prima persona la quasi totalità di questo fenomeno (sempre sul piano civilistico, ma spesso anche in sede penale), hanno registrato negli ultimi anni un andamento economico del settore pesantemente negativo, nonostante l’esponenziale crescita dei premi richiesti alle Aziende Sanitarie ad ogni rinnovo del contratto. E, a motivo di ciò, sta non solo l’espandersi della casistica, ma anche l’incremento che ha avuto, soprattutto in questi ultimi anni, il valore economico del risarcimento del danno alla persona in Responsabilità Civile.

Importanti sono però le ripercussioni che tutto ciò ha determinato anche sui bilanci delle AziendeSanitarie, che non solo hanno corrisposto in questi anni premi assicurativi sempre più elevati, ma si imbattono oggi sempre più spesso anche nella difficoltà di trovare imprese di assicurazione disposte ad assumere questo rischio. Peraltro, ulteriore evoluzione del fenomeno è data anche dalla diversa copertura assicurativa che oggi viene proposta (ed in diversi casi già attuata), copertura che, a differenza di quanto avveniva in precedenza, prevede in molti casi delle franchigie, cosa che evidentemente incrementa ulteriormente l’aggravio economico che complessivamente, per le Aziende sanitarie, ricade sotto la voce tutela della responsabilità civile verso terzi.

Altra differenza che caratterizza le nuove proposte di assicurazione rispetto alle forme di contratto precedentemente stipulate, è che in molti casi le attuali pattuizioni non prevedono più la rinuncia, da parte delle Imprese di assicurazione, all’azione di rivalsa nei confronti del singolo medico che dovesse essere ritenuto responsabile di un errore per colpa grave. Ciò evidentemente comporta una ulteriore criticità che, in questo caso, ricade direttamente sul personale dipendente, il quale ha quanto meno l’inevitabile necessità, che prima poteva anche non avere, di acquisire una sua tutela assicurativa individuale, sostenendo quindi una nuova spesa.

Essendo questa l’evoluzione negli ultimi anni del fenomeno “responsabilità professionale”, essendo ormai evidenti le criticità che su più versanti il fenomeno ha determinato in misura al pari crescente, ed essendo altresì evidente anche che, almeno fino ad oggi, nulla lascia presupporre che il trend che si è registrato negli ultimi 15 anni sia destinato a invertirsi spontaneamente nel breve periodo, emerge evidente la necessità di individuare le motivazioni che ne stanno alla base, unico modo per poter poi iniziare una riflessione su quali potrebbero essere le misure per porvi riparo, ovvero per ricondurlo ad una dimensione che consenta l’acquisizione di quell’equilibrio del sistema auspicato già 60 anni fa, e che oggi risulta così tumultuosamente alterato.
Un osservatore del tutto superficiale (ed è comunque questa probabilmente la sensazione che sembra prevalere nell’opinione pubblica) sarebbe portato a credere che le denunce aumentano perché peggiora la Sanità (quella pubblica in particolare). 
In realtà questo non è in alcun modo vero, essendovi addirittura numerosi indicatori che non solo dimostrano che lo standard medio della qualità dei servizi erogati dalle strutture sanitarie è un po’ dappertutto in crescita, ma anche che il fenomeno di cui stiamo discutendo, quelle cioè dell’esplosione delle denunce per presunti errori medici, risulta essere nato prima ed essersi sviluppato con maggiore vigore proprio in quelle città o regioni dove gli stessi indicatori documentano, negli ultimi anni, standard medi di qualità dell’assistenza sanitaria fra i più elevati nel nostro Paese.

Altri, soprattutto la classe medica, sostengono che buona parte di quanto sta accadendo sia dovuto all’enfasi data dagli organi di informazione, che quasi quotidianamente pongono alla ribalta della cronaca, addirittura nelle prime pagine dei giornali, eventi che vengono etichettati con quel termine, “malasanità”, che è ormai entrato a far parte del comune parlare.
È probabile che questa enfasi giornalistica abbia in qualche modo contribuito, ma è altrettanto vero
che gli organi di informazione cavalcano l’onda di un fenomeno, la amplificano, ma quasi mai la generano.
L’origine di questo fenomeno va dunque ricercata in motivazioni diverse e più profonde e fra queste
le due principali che sono state individuate sono:

• una diversa percezione del cittadino del concetto di diritto alla salute e crescenti aspettative di risultati dalla Medicina, 
• il mutare, nel corso di questi ultimi anni, del modo di intendere giuridico del concetto di colpa professionale medica.

Per quanto riguarda il primo di questi due punti, rileva anzitutto il fatto che, nell’ambito di una più generale maggiore consapevolezza dei propri diritti, il cittadino pone senza dubbio al primo posto quello alla salute.
Rileva poi in particolare quel fenomeno sociologico emerso negli ultimi anni che registra una sempre minore accettazione della malattia e della menomazione come evento “naturalistico”, sensazione questa che è alimentata dalla convinzione di una Scienza Medica ormai in grado di risolvere la maggior parte delle malattie, fino ad ingenerare l’aspettativa di un risultato sempre positivo delle cure mediche.

Ed in questo la stessa classe medica non può certo ritenersi esente da responsabilità, soprattutto quando enfatizza e propaganda le nuove acquisizioni scientifiche, la messa a punto di tecniche chirurgiche d’avanguardia, di nuove metodiche diagnostiche... e via elencando, dimenticando che proprio per questo va sempre più allargandosi la forbice fra quanto si potrebbe (in teoria) ottenere mettendo in atto ciò che ancora si trova alle frontiere delle ricerca scientifica e quanto invece caratterizza nelle singole realtà, comprese quelle periferiche, le reali possibilità della pratica medica. 

L’altro dato che caratterizza l’evoluzione del fenomeno responsabilità professionale medica è dato, come si è detto, dal mutare, negli ultimi anni, del concetto giuridico di “colpa” nell’esercizio della pratica medica. In ambito civilistico sono ormai lontani i tempi in cui di fatto era ritenuto censurabile solo l’errore commesso per gravi ed evidenti inadempienze ed è nota la posizione assunta dalla Corte di Cassazione, soprattutto a partire dal 1994 (Cassazione Civile, III Sez. n. 8470, 1994), nell’estendere il concetto di danno risarcibile da trattamento sanitario, fino a ritenere “presunta” la colpa in quei casi in cui, a fronte di una prestazione sanitaria che non rivesta il carattere della speciale difficoltà (casi che di fatto rappresentano la stragrande maggioranza), si verifichi un evento avverso che determini un “...peggioramento delle condizioni del paziente”.
Ed è questa una constatazione che va evidentemente analizzata in maniera del tutto congiunta con quanto si diceva al punto precedente, essendo evidente che in un sistema giuridico come il nostro, in cui un danno da trattamento sanitario può essere risarcibile solo se alla sua origine vi è una “colpa censurabile”, per raggiungere l’obiettivo di garantire una crescente tutela del cittadino, per garantirgli cioè la possibilità di ottenere un risarcimento nel caso egli riporti un danno da trattamento sanitario, l’unico modo che ha la magistratura per farlo è evidentemente solo quello di inasprire il concetto di errore medico, fino, ripeto, al punto da presumerlo, almeno fino a quando il medico stesso non sia in grado di “dimostrare” di aver fatto tutto quanto nelle sue facoltà affinché quel danno non si realizzasse (cosa concettualmente giusta e del tutto legittima in base alla interpretazione delle - comunque assai scarse ed “aspecifiche” - norme del Codice che regolano questa materia, ma che evidentemente non tiene conto che in una grande quantità di casi il danno da trattamento sanitario è legato ai limiti stessi della Medicina, al realizzarsi cioè di complicanze accidentali che, in una certa percentuale che non sarà mai ulteriormente abbattibile, si realizzano in maniera inevitabile).

Tutto ciò ha peraltro generato un ulteriore fenomeno, che in questi ultimi anni ha assunto un’allarmante dimensione, ossia il crescente ricorso al giudizio penale che, diversamente dalle sue finalità proprie, ha troppo spesso la sola motivazione di “forzare” l’accesso all’azione risarcitoria, ma che pure contribuisce a gravare (e non solo in termini di risorse economiche) sull’intero sistema e sull’intera collettività. Ed in tutto ciò assume importanza un ulteriore dato che pure si correla a questo già complesso fenomeno e che contribuisce ad ingenerare intorno ad esso incertezze e difficoltà di gestione delle singole fattispecie, il fatto cioè che ad oggi, proprio per il così rapido mutare del fenomeno, si registra, nella pratica peritale quotidiana, una assoluta disparità di interpretazione, da parte dei Consulenti Tecnici d’Ufficio (e questo sia nei giudizi civili, sia anche in quelli penali), del concetto stesso di errore medico, giungendosi alla paradossale constatazione che fattispecie analoghe da alcuni periti sono considerate frutto di comportamenti professionali censurabili, da altri invece eventi del tutto accidentali ed inevitabili. Nonostante infatti vi sia oggi una voluminosa dottrina giuridica e medico-legale che ha cercato di definire il concetto di colpa medica, è constatazione frequente, al momento della sua applicazione nella casistica pratica, l’inadeguatezza dei principi da essa sanciti a risolvere fattispecie che risultano quasi sempre “particolari” e che non sono mai state affrontate nello specifico. Peraltro, anche in quelli che dovrebbero essere i capisaldi di questa dottrina (i concetti cioè di imperizia, imprudenza, negligenza, colpa lieve e colpa grave) si registra oggi un’assoluta mancanza di omogeneità da perito a perito, da giudice a giudice, nello stesso modo di intendere e di applicare nella pratica questi termini. Troppo spesso inoltre i giudizi vengono espressi in violazione di un altro principio cardine di questa attività peritale, ossia quello di valutare il comportamento dei medici con criterio rigidamente ex ante, calandosi cioè nella realtà delle circostanze in cui i fatti si sono svolti, senza minimamente lasciarsi influenzare da quanto poi verificatosi, la cui conoscenza è evidentemente successiva e non poteva essere nota al momento della prestazione sanitaria messa in discussione. Ma, al di là di ciò ed al di là dell’immagine della responsabilità professionale che viene data dai casi che hanno risonanza sugli organi di informazione, il dato che prevale su tutto è l’oggettiva impossibilità, nella grande maggioranza dei casi, di riuscire realmente a capire, non solo in una verifica peritale a posteriori, ma anche più in generale nel ragionamento clinico, se davvero, alla origine di un evento avverso verificatosi in concomitanza di una prestazione sanitaria, vi sia un errore censurabile, in questo sottolineando sia la difficoltà di verificare l’esistenza di un errore, sia quella di correlare determinati comportamenti “discutibili” al danno in concreto realizzatosi. È estremamente difficile, anche per la citata mancanza di uniformità dei giudizi peritali, dare un’esatta dimensione statistica a questo dato. Si può però dire, in base all’esperienza personale (che se non altro ha il vantaggio di fare riferimento ad un unico punto di osservazione), che il numero dei casi in cui è possibile dare una risposta, se non di certezza, quantomeno di alta verosimiglianza, è certamente minoritario rispetto al numero complessivo di casi. Spingendo oltre questa convinzione (che peraltro trovo condivisa dalla maggioranza dei medici legali che operano quotidianamente in questo settore) fino a dare di essa una sorta di dimensione numerica, direi che, su cento casi esaminati, in non più del 20% è possibile accertare una chiara colpa professionale ed in non più di un altro 20% è possibile escluderla con certezza o alta verosimiglianza. In più della metà dei casi, quindi, si entra in quella cosiddetta “zona grigia” in cui, anche a fronte di un approccio metodologico peritale ineccepibile, gli elementi disponibili per il giudizio o non sono sufficienti per esprimere un parere fondato o si prestano a diverse interpretazioni che possono, nel contempo, indirizzare verso l’affermazione o l’esclusione della colpa, ovvero del nesso causale fra il comportamento tenuto dagli operatori sanitari ed il realizzarsi dell’evento avverso.

Risultando dunque questa, in sintesi, l’analisi quantitativa del fenomeno “responsabilità professionale medica” e quella qualitativa delle principali motivazioni che ne stanno alla base, risultando altresì che i vari indicatori lasciano presupporre che tutto ciò sia destinato, almeno nel medio-breve periodo, ad acuirsi
ulteriormente, si impone evidentemente una riflessione su cosa sia possibile fare per riportare il tutto verso un equilibrio che consenta, come, ripeto, era stato auspicato quasi 60 anni fa, di proseguire certamente nell’opera della maggior tutela del cittadino nei rispetti del suo diritto alla salute (cosa che però evidentemente non può e non deve significare soltanto garantirgli l’accesso ad un ristoro risarcitorio ogni volta che si registra un “fallimento” di un’attività medica), ma di consentire anche alla classe medica di operare con serenità e mettendo in campo ogni volta tutte le sue risorse, senza il timore (quando non addirittura il freno) che eventuali insuccessi si trasformino automaticamente in un’azione civile, o addirittura penale, nei suoi confronti. Data la complessità del fenomeno, è di tutta evidenza che una tale riflessione debba essere avviata da tutte le figure che in qualche modo sono coinvolte, e non è da escludere l’ipotesi che l’intero sistema, proprio per la rilevanza, non solo economica, che ha assunto e che, soprattutto, assumerà verosimilmente nel prossimo futuro, venga in qualche modo regolamentato da provvedimenti legislativi, che in altri paesi sono già stati adottati (come ad esempio in Svezia) o sono in fase avanzata di studio. E ciò è tanto più indispensabile ed urgente se si tiene conto del rischio che, evolvendo ulteriormente il fenomeno, si finisca per far prevalere la conflittualità (e, dunque, la reciproca diffidenza) in un rapporto, quale quello fra medico e paziente o, meglio, fra cittadino-utente e strutture deputate ad erogare i servizi sanitari, che tutto dovrebbe avere tranne che, appunto, diffidenza e conflittualità.


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