CAP. II

AMMINISTRAZIONE, GOVERNO LOCALE, CULTURA E MEZZOGIORNO

 

 

2.1.

Istituzioni amministrative e governo locale nel Mezzogiorno

Condividiamo, in premessa, un assunto formulato dieci anni fa da M. Cammelli: "... dare rilievo ed espressione a quei diversi "mezzogiorni" che un forte processo di differenziazione allargato a tutta la gamma dei fattori socio-economici ha ormai posto in rilievo" (1). Va osservato che: "Il differenziale istituzionale-amministrativo del Mezzogiorno è, ormai, un'evidenza storica e rappresenta un problema di ricerca teorica e storiografica negli studi più avvertiti e autorevoli" (2).

Il processo di differenziazione amministrativa del Mezzogiorno risale alla fine dell'Ottocento. Con l'unificazione, lo Stato italiano, in forza di modelli culturali universalistici e di modelli antropologici ottimisti, risolve il problema della costituzione di un sistema amministrativo nelle zone a "sviluppo ritardato" del meridione, attraverso l'opzione di fondo dell'uniformità amministrativa, incardinata sui princìpi astratti di libertà e progresso che avevano permeato le culture e le prassi del Risorgimento (3). L'universalismo del modello culturale immediatamente commassava con un modulo di uniformità istituzionale e amministrativa. La "manovra dal centro" eliminava di autorità i dislivelli e i differenziali storico-sociali e istituzionali-amministrativi, mediante un'organizzazione uniforme e indifferenziata imperniata su un "gioco strategico" procedente per previsioni e interventi legislativi (4). Proprio il Mezzogiorno, con la stratificazione di problematiche e realtà specifiche, si incaricava di costituire il primo punto critico di questi modelli e procedimenti, mettendone impietosamente in crisi i princìpi cardine: unificazione=progresso, libertà=prosperità (5). L'emergere del differenziale storico-sociale e istituzionale-amministrativo induceva nella macchina statale, nel funzionamento istituzionale e nelle procedure criteri differenziati e procedimenti speciali, specificamente legittimati a risolvere e recuperare i dislivelli di arretratezza. La rottura del principio di uniformità si stabilizza nella fase 1885-1908 e si consolida e allarga in quella immediatamente successiva, sino al fascismo (6). L'istituzione della cassa per il Mezzogiorno, nel 1950, avviene su un terreno di interventi legislativi speciali e di procedimenti amministrativi straordinari che hanno già una storia equivalente a quasi tre quarti di secolo. È con la rottura del principio di uniformità, avvenuta nel 1885, che il sistema amministrativo meridionale comincia a scrivere la "sua" storia specifica all'interno della più generale parabola del sistema amministrativo italiano e delle tendenze dispiegate sul livello continentale. Di questa complessa architettura e dei suoi differenziali interni l'intervento straordinario, dal 1950 in avanti, è stato uno dei vettori principali: non solo e non tanto nella rideterminazione del rapporto centro/periferia, ma anche e soprattutto nel raccordo tipicamente meridionale tra il sistema politico e le istituzioni, tra la prassi politica e il sistema amministrativo, tra il quadro della legalità e gli atti normativi (da un lato) e la cittadinanza (dall'altro). Gli anelli e gli effetti di questa stratificazione differenziale, a loro volta, hanno retroagito rispetto all'amministrazione centrale e ai luoghi chiave della decisione politica, condizionandone le forme, le procedure, gli assetti e le opzioni. Può senz'altro dirsi che l'intervento straordinario nel Mezzogiorno ha cambiato la faccia non soltanto al Mezzogiorno; ma al sistema istituzionale-amministrativo nel suo complesso, non foss'altro per la retroazione di cui si argomentava prima. A ben riflettere, ci si accorge che gli incroci e gli innesti vanno al di là del puro effetto di feedback. Difatti, la procedimentalizzazione amministrativa scaturente dall'intervento straordinario ha reso normale e normato ciò che, in origine, era eccezionale e speciale, andando a costituire, del pari, un permanente riferimento normativo e storico-strategico per ogni tipo e ogni modello di intervento straordinario in ordine a qualunque area regionale e a qualunque tipologia di problematiche e tematiche.

Il rapporto centro/periferia, dall'ordine legislativo-amministrativo a quello economico-istituzionale, si è andato, così, sempre più complessificando e differenziando. Centro e periferia si compongono ora come terminali di uniformità in contesti caratterizzati da crescente complessità: denotano e significano le metamorfosi relazionali e di significato in atto, conservando il ritmo, il senso e la semantica di passaggi che andrebbero altrimenti smarriti nel caos delle differenze. L'uniformità che il "centro" deve pur conservare, in proporzioni e qualità più o meno rilevanti, si coniuga con una differenziazione capillare dei sistemi e dei sottosistemi cui il nesso centro/periferia dà corpo. Cassese è stato il primo a cogliere questa differenza semantica e normativa, per i problemi qui in discorso, tra l'amministrazione e il sistema amministrativo (7). L'amministrazione come struttura permane relativamente uniforme, pur a fronte di un consolidato e sviluppato decentramento; mentre, invece, l'amministrazione come sistema si va sempre più differenziando. Correttamente, Cammelli riconduce la differenza alla evidente circostanza che in ogni sottosistema prendono luogo peculiari "modalità di aggregazione" e "modalità di rappresentazione" della "domanda politica" che richiedono particolari "modalità di relazione" con le istituzioni politiche e amministrative (8). L'amministrazione italiana, come quella di tutti i paesi capitalistici sviluppati, è integrazione differenziatrice di sistemi amministrativi specifici diversi. Questa relazione di integrazione/differenza viene particolarmente alla luce, esaminando le basi, le prassi, le finalità e i riaggiustamenti progressivi dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno, dall'istituzione della Cassa alla L. 64/86 (9).

L'intervento straordinario si è sempre consumato ed estenuato intorno ad un dilemma interno: decentrare o centralizzare?; sul punto ereditando tutte le aporie del modello universalistico post-unitario e le inconclusioni delle aperture decentratrici inaugurate con le leggi speciali di inizio secolo su Napoli e la Basilicata. All'interno dello stesso pensiero meridionalista il dilemma ha dato luogo a posizioni tra di loro alternative. Le medesime prassi e posizioni inclinanti verso il decentramento e il primato delle autonomie perseguivano una strategia di recupero adattivo alle condizioni del Centro-nord. Tale strategia giustificava e motivava il funzionamento degli apparati speciali e dei meccanismi straordinari: la straordinarietà era qui riferita al recupero all'uniforme storicamente e ideologicamente modellato; non già alla particolarità storica e alla particolare autonomia funzionale richiamate dal Mezzogiorno. L'intervento straordinario nel Mezzogiorno, perfino nelle posizioni più aperturistche, era minato da questo grave limite interno, configurandosi come un movimento, su più punti, autocontradittorio. Pare, ormai, unanimemente accreditato - perfino nella polemica politica - che il rapporto centro/periferia, il processo di unificazione reale del paese, l'attivazione funzionale delle tendenze all'industrializzazione e allo sviluppo richiedessero in avvio il varo di politiche di intervento straordinario. Il limite non è individuabile nell'intervento straordinario in sé e per sé; bensì nei modelli, nelle prassi, nelle procedure, nelle culture e nelle strategie che l'hanno plasmato, orientato e gestito. L'eccesso di centralismo ha convissuto con pratiche di autonomia sconfinanti nel particolarismo e nel trasformismo; modelli rigidi di implementazione industriale e territoriali su scala macro hanno coabitato con approcci su scala locale particolarmente angusti e riduttivi; culture del gigantismo industriale e urbanistico hanno fatto massa con culture bucolico-regionalistiche. Per quello che ci riguarda più da vicino, a tale processo perverso non sfugge - e non poteva sfuggire - la legislazione a favore delle aree terremotate, a partire dalla L. 219/81 e comprendendo tutte le sue successive integrazioni e modificazioni. Al contrario, essa nasce proprio come tentativo di venire a capo del dilemma irrisolto tra centralizzazione e decentramento. È stato acutamente fatto rilevare che la L. 219/81 si pone dichiaratamente il compito di integrare i due poli del dilemma, prevedendo il largo coinvolgimento dell'azione ordinaria degli enti locali e, insieme, un sistema di competenze straordinarie e di deroghe straordinarie (10). Si tratta di un'integrazione mal riuscita, riproduttiva dell'eccedenza pervasiva degli istituti, delle prassi e dei soggetti titolari dei poteri straordinari. Più interessante, allora, è fornire una lettura della legislazione antisismica, inaugurata della L. 219/81, come (i) causa di una profonda trasformazione delle istituzioni meridionali e come (ii) tramite possibile di effetti diffusivi per tutto intero il territorio nazionale. Ciò ci riconduce al cuore di alcuni fenomeni storici e atti normativi che regolano e fissano il passaggio dall'emergenza all'ordinarietà, in cui la seconda conserva e "normalizza" molte delle ascendenze logiche e delle strutturazioni della prima. Tale processo è stato colto per tempo da Cassese, il quale ha fatto osservare che la legislazione sul terremoto "sta cambiando la faccia delle istituzioni meridionali"; ma non solo: "in pochi anni saranno tratti esempi per altre parti del territorio nazionale. Anche questa è una delle strade della riforma amministrativa: leggi e istituti eccezionali che vengono poi, per stanchezza o per altri motivi, stabilizzati e generalizzati" (11).

Accanto al sisma, dunque, occorre indagare quel vero e proprio terremoto istituzionale antecedente e coevo; in particolare, quello che appare specificamente intenzionato dall'"arresto dello sviluppo" in concomitanza del primo shock petrolifero (1973-1974). La crisi dei modelli macroindustriali ha importato un corrispondente declino dei modelli macroistituzionali. Secondo Marongiu, la novità maggiormente in ri-lievo è costituita dalla progressiva delineazione di una "dimensione locale relativamente autonoma" che privilegia la "valorizzazione della dimensione "minore"", tanto nelle strategie di impresa che nelle politiche pubbliche in funzione di sviluppo (12). Da qui:

a) una possibilità strategica: la "prospettiva di un diritto speciale delle regioni" (13);

b) una tendenza in atto: le "istituzioni della diversità" e/o i "diversi Mezzogiorni" (14).

In tutti e due i casi, l'ambito politico-istituzionale non viene separato o scisso secondo opposizioni binarie; bensì problematizzato e internamente differenziato. L'applicazione del codice binario all'analisi del sistema amministrativo e allo studio delle istituzioni meridionali, in particolare, ha prodotto esiti assai insoddisfacenti e distorcenti. La nozione stessa di Stato moderno amministrativo e l'ispezione del problema rappresentato dal Mezzogiorno per l'amministrazione centrale ne sono, in genere, risultate assai depotenziate. Ancora più preziosi, pertanto, appaiono quei contributi tesi a scandagliare questi campi problematici oltre il pregiudizio e il vincolo del codice binario.

La legislazione speciale sul Mezzogiorno, già nell'epoca crispina, ha avuto un carattere marcatamente conservatore; fino al punto che il prolungamento amministrativo del 'politico' si è rappresentato come macchina politica costruttrice di consenso e di economie scalari per il consenso. È la legge per Napoli nel 1885 che apre in grande stile quella tendenza che Ruffilli ha acutamente definito "decentramento conservatore" (15). L'iniziativa speciale dello Stato nel Mezzogiorno si è rivelata, sin dal principio, una strategia che "proprio sulla iniziativa extra regolare del potere pubblico fa leva per aggregare nella società meridionale nuovi, meglio assestati equilibri" (16). Nella fase dell'unità nazionale il Mezzogiorno si è originariamente caratterizzato come area ad eccesso di presenza statuale. Il problema qui è dato dalla necessità di ricondurre a schemi interpretativi e classificatori perspicui e razionali questa ipertrofia statuale-istituzionale e la contestuale rete di surroghe che l'inrtervento pubblico ha veicolato verso altri soggetti; a partire dal potere di surroga prescrittiva e ordinamentale che lo Stato post-unitario ha delegato alla mafia (17). Detto in termini più direttamente politici: il problema che qui reclama una più adeguata interpretazione è il processo di funzionalizzazione della tradizione culturale e della cd. "passività politica" meridionali al centralismo statuale, lungo il reticolo Stato/potere/interessi. Reticolo ulteriormente consolidato e dislocato dall'intervento straordinario partorito dalla democrazia pluralista repubblicana. Il Mezzogiorno d'Italia ha prima "costretto" lo Stato alle leggi speciali (1885-1942) e dopo all'intervento straordinario (1950-1985). Ciò ha enormemente pesato nella struttura, nella for-malizzazione e nell'evoluzione della forma di Stato e delle istituzioni amministrative centrali (18).

La crisi e la trasformazione dello "Stato di diritto" segnano, su questo punto, l'antecedente storico-teorico a noi più vicino e da cui occorre necessariamente partire (19). A fronte di questa crisi e della contestuale perdita di rilevanza del Parlamento rispetto all'amministrazione, il diritto amministrativo si è andato sempre più sottraendo ai vincoli della legislazione e del concetto stesso di legge. Bachof, su questa base, sostiene che la struttura tradizionale del diritto amministrativo non può essere compresa e compressa nei termini della "amministrazione che esegue la legge" (20). Siamo qui al cospetto del passaggio dallo "Stato legislativo" allo "Stato amministrativo" (21). Nel quale passaggio si delinea, secondo la sistematica concettualizzata da Wiener, la subordinazione della legge all'amministrazione (22). Il deperimento del legislativo e della sua sede espressiva classica - il Parlamento - si accompagna a un processo di amministrativizzazione della vita sociale, imperniato su una dinamica di autolegittimazione dell'amministrazione. Il "caso italiano", come ha avuto modo di osservare criticamente Guarino, costituisce una delle traduzioni più distorcenti di queste tendenze (23). Il punto terminale più significativo di questa rilevante trasformazione è la partecipazione dell'amministrazione al processo di formazione delle decisioni, con particolare riguardo ai temi e ai problemi che rappresentano e presentano il carattere dell'urgenza e della necessità. Si modellano, in questo modo, quei "poteri di urgenza" che hanno radicalmente mutato il quadro normativo dato, subordinandolo alle procedure amministrative urgenti e speciali. L'esercizio del potere e l'enuclearsi della democrazia rappresentativa si procedimentalizzano: esercizio di legalità diviene il farsi procedimentale dell'atto amministrativo, sottratto ai vincoli prescritti dalla legge. Per questa via, la procedimentalizzazione della democrazia inserisce un sistema di deroghe infinite dal diritto ordinario e installa l'economia scalare dei "poteri straordinari". Ci imbattiamo, a questo ulteriore livello di specificazione e complessificazione, nel tema che nel capitolo precedente avevamo isolato come problema di rapporto e di comunicazione tra ordinamento statuale e democrazia diffusa. Appare sin troppo evidente come la procedimentalizzazione della democrazia abbassi ulteriormente il, già carente, tasso di partecipazione politica.

Il declino del legislativo sotto le forme della procedimentalizzazione si affianca a un sostanziale processo di delegificazione: nel senso, già precedentemente alluso, che, anziché il Parlamento, l'esecutivo diventa il centro di imputazione e determinazione della produzione normativa. Tale fenomeno è particolarmente operante e visibile in Italia nella prassi distorta e consolidata della decretazione d'urgenza e nell'attribuzione di "poteri straordinari" a Commissari di governo (dal terremoto alla lotta contro la mafia e la camorra). Col che l'esecutivo non solo viene investito delle funzioni normative attribuite classicamente al Parlamento, ma anche fatto detentore di uno smisurato potere di nomina, attraverso cui accentra e decentra poteri straordinari. Del resto, è tutto il sistema istituzionale-amministrativo italiano che, dalla sua costituzione, ruota attorno a questi princìpi di modellizzazione, a partire dalla strutturazione delle "amministrazioni parallele" e dalla dislocazione del "potere per Enti". Più ancora nel merito, il sistematico ricorso alla catena dei decreti legge ha caratterizzato, fin dal principio, l'attività del legislatore costituzionale con responsabilità di esecutivo (24). Ne è scaturita una produzione normativa sotto for-ma di inflazione legislativa, avente un andamento tumultuoso e una incoerente razionalità (25). Il carattere torrenziale della produzione normativa, infine, è peculiarità degli ordinamenti contemporanei, in cui vige un alto grado di complessità: proprio la complessità dei campi problematici funge quale fattore moltiplicatore di regole (nuove). Lo stretto legame tra complessità e inflazione normativa richiama gli ordinamenti contemporanei alla necessità della procedimentalizzazione: "la connotazione dominante dell'attività amministrativa autoritativa ordinaria è negli ordinamenti contemporanei quella d'essere procedimentalizzata" (26). Il rapporto tra sovranità e rappresentanza democratica (ad un polo) e amministrazione (all'altro) fluisce attraverso la procedimentalizzazione della democrazia che, a sua volta, installa e consolida, di volta in volta, i "poteri straordinari" richiamati dal caso. La procedimentalizzazione dei "poteri straordinari" insedia, conseguentemente, "apparati speciali", macchine amministrative speciali che, col tempo, si stabilizzano, divenendo strutture istituzionali ordinarie. Nel nostro caso specifico, le vicende istituzionali e amministrative della legislazione sul terremoto non sfuggono a questa stratificazione storico-normativa; inverandone, anzi, punti di trasformazione non irrilevanti, con particolare riguardo alla tipologia e topologia del sistema istituzionale e amministrativo italiano e meridionale.

La distinzione concettuale tra "amministrazione" e "sistema amministrativo", con una scelta investigativa a favore del secondo, come ha avuto modo di osservare con acume M. Cammelli, ci consente di porre al centro dell'analisi proprio il sistema delle autonomie locali del Mezzogiorno, tenendo conto della sua specificità, ma non estrapolandolo arbitrariamente dal contesto nazionale (27). Cerchiamo di spingere più avanti il ragionamento.

Secondo Cammelli, la differenza specifica del sistema amministrativo meridionale, a confronto di quello del Centro-nord, è la seguente:

a) nel Centro-nord: "l'amministrazione dello Stato tende a finire là dove comincia il complesso regione: enti locali";

b) nel Mezzogiorno d'Italia non è così: "Almeno per gli apparati di spesa e per tutto l'arco di erogazione dei servizi, infatti in queste aree il sistema amministrativo è rappresentato e coincide con quello del governo locale o perché quest'ultimo gestisce in proprio poteri e risorse o perché in ogni caso, anche quando si tratta di funzioni riservate ai poteri centrali, è con questo che vanno fatti i conti sia in termini di intermediazione che, talvolta, di codecisione" (28).

Due logiche confliggenti hanno regolato e disciplinato il sistema amministrativo meridionale:

a) la logica del decentramento: quella imperniata sulle autonomie locali;

b) la logica della centralizzazione: quella che ha ispirato l'intervento straordinario.

La legislazione post-sismica, inaugurata dalla 219/81, ha tentato di venire a capo di tale dicotomia, calando i criteri regolativi e le prassi dell'intervento straordinario nel tessuto e nelle competenze delle autonomie locali, senza peraltro riuscirvi (29). Un tale obiettivo è stato perseguito dalla stessa L. 64/1986, con risultati egualmente poco apprezzabili (30). Il fatto è che: "... la L. 219/81 e la L. 64/86, così come "decentrano" attribuzioni di potere, conservano una rigida "macchina centrale", la quale funziona come la vera fonte autoritativa e il vero snodo di legittimazione formale dell'intervento. Il pregiudizio centralistico, conservatosi nelle culture e nelle logiche, si prolunga e stratifica macchine organizzative pienamente operanti" (31).

Il problema è risolvibile solo se si fanno saltare le basi culturali, storiche e politiche su cui queste logiche dicotomiche si sono impiantate. Ciò richiede una operazione di "grande trasformazione" sia al livello dei "poteri centrali" che a quello dei "poteri locali" del Mezzogiorno. Insomma, si reclamano:

a) processi codecisionali politico-culturali tra centro e periferia meridionale, quali ambiti integrati e, allo stesso tempo, autonomi;

b) decisioni e azioni politico-culturali autonome da parte dei "poteri locali" meridionali, per un loro recupero di efficienza e trasparenza, in relazione alle questioni dell'amministrazione, del "governo della complessità", dei diritti e della democrazia (32).

Di nuovo - e ancora - rimbalzano in primo piano problemi di natura culturale e politica, a conferma dell'insostituibile ruolo di emancipazione che, anche in questo caso, la cultura può svolgere, se liberamente e differenzialmente giocata.

2.2.

Risorse per il governo locale e risposte del governo locale

Stabilita la scala delle differenziazioni politico-culturali, possiamo porci in maniera congrua alcune domande cruciali, essendo messi nelle condizioni di ricercarne le risposte congruenti.

Alla base del processo di formazione e selezione della domanda civico-politica locale vi è un complesso processo di natura culturale, politica e simbolica, entro cui hanno rilievo non solo temi di carattere strettamente locale e/o particolaristico.

La domanda civico-politica locale è un luogo di passaggio, di biforcazione e di mutazione di tutte le dimensioni culturali, simboliche e politiche del globale. Non solo rappresenta il punto di più stretto e intimo contatto tra amministrazione e cittadini, con il relativo carico dei loro bisogni e delle loro aspettative; ma anche e soprattutto il bacino di formazione di processi di decisione politica e selezione delle élites che non trovano riscontro alcuno a livello globale. Il governo locale non è assimilabile ad una ben determinata "forma di governo", regolata da una assiologia, da una tipologia e da una simbologia ben distinte. Delle "forme di governo" non possiede la proprietà specifica e caratterizzante: distribuire, organizzare e finalizzare le funzioni dello Stato (33) Il governo locale non articola lo Stato sul territorio; piuttosto, riconduce nei circuiti politici centrali la massa dei problemi e degli attori locali, modificando, per questa via, la selezione degli inputs/outputs del sistema politico. In questo senso, il governo locale è tanto fattore di turbativa quanto agente di stabilizzazione dell'ordine politico del sistema. In virtù del flusso di turbativa/stabilizzazione di cui il livello locale è soggetto/oggetto, i processi di formazione della classe politica centrale e di selezione delle decisioni strategiche debbono inesorabilmente misurarsi con i circuiti locali e la rete delle loro domande simboliche, politiche e culturali. Ciò sia perché il circuito locale può essere sede di tendenze suscettibili di generalizzazione, sia perché può costituire il laboratorio per la sperimentazione di una sovraimposizione, di una ricombinazione e di una rielaborazione delle strategie globali, in funzione della crescita del potere della classe politica di governo.

Alla classica domanda formulata da R. Dahl: "Chi governa?", se ne deve affiancare un'altra, non meno rilevante: "Come governa?". Ad entrambe, ancora, ne vanno abbinate altre due: (i) "Con quali risultati?"; (ii) "A quale livello di intermediazione e fluidificazione tra globale e locale?".

Solitamente, la scienza politica si interroga intorno alla prima e alla terza domanda, omettendo di formulare o sottovalutando le altre due. Sicché il rendimento delle istituzioni, in specie quelle locali, è stato posto come un mero problema di adeguatezza dell'amministrazione pubblica; meglio, come questione dello sviluppo politico (34) dell'amministrazione pubblica e amministrativizzazione dello sviluppo politico. L'inconveniente maggiore di queste posizioni, per quanto concerne il nostro oggetto di analisi, è che esse si approcciano alle problematiche del governo locale in termini di possibilità e capacità dello Stato di dare risoluzione alle domande locali. Il governo locale, in quanto tale, o si smarrisce in una dissolvenza politico-concettuale, oppure viene erroneamente analizzato come una forma di Stato a livello micro. La questione delle prestazioni del governo locale tende, così, a sciogliersi in quella del "rendimento" dello Stato; e viceversa.

Ora, il punto di discrimine decisivo del "caso italiano", con particolare riferimento al Mezzogiorno, è che lo Stato nazionale non si è formato dal basso come sintesi storico-politica delle comunità locali; al contrario, il processo di formazione dello Stato nazionale ha proceduto dall'alto, annettendosi le comunità locali, di cui ha tenuto scarsamente in considerazione l'ethos e l'ethnos. Nel rapporto tra centro e periferia questa frattura ha avuto ed ha tuttora un peso rilevante, sia in termini di lontananza tra apparati dello Stato e cittadini, sia in termini di non linearità della rispondenza decisionale tra centro e periferia. Una nuova cultura del governo locale deve partire proprio dalla tematizzazione dell'asimmetria decisionale tra centro e periferia, selezionando ed interpretando il bacino delle problematiche e delle attese civico-politiche locali. Tutto questo non in funzione della crescita del potere della classe politica di governo, ma della mutazione positiva dell'habitat locale, incardinando qui una interazione trasformativa con i processi e le decisioni che investono il livello globale.

La risorsa cultura si presta qui ad un impiego atto a discoprire e ripercorrere in filigrana lo specifico dell'aggregato locale, all'interno di un universo di senso e geo-politico globale. La risorsa della cultura politica può efficacemente fungere quale mezzo di organizzazione e connessione politica dell'identità locale nell'ambito dell'identità nazionale, in un processo di salvaguardia e potenziamento delle autonomie reciproche e dei contesti identificativi globali mobili che ne risultano. Le culture locali e le politiche locali possono interagire per dare conto puntualmente ai bisogni particolaristici e universalizzanti che promanano dai networks della domanda civico-politico locale, procedendo ad una contestuale messa in comunicazione con i networks degli altri sistemi locali e con i networks nazionali. In questo modo, il "chi" e "come" governa non appaiono più rescissi dai risultati dell'azione di governo, dalle interazioni e dai conflitti che si intessono e insorgono tra centro e periferia.

3.3.

Autonomia e integrazione: cultura, politica ed economia

L'affermazione dell'autonomia del governo locale è coessenziale alla sua integrazione flessibile nel circuito nazionale. Così come, all'inverso, è essenziale, per la formazione di un circuito nazionale emancipato ed emancipante, l'autonomia comunicativa dei sistemi locali. Questa rete di senso costituisce il testo primario e, insieme, il contesto delle configurazioni giuridiche, legislative, amministrative e politiche che disegnano la mappa delle relazioni tra governo centrale e governi locali. Diversamente da quanto è invalso nella scienza politica e dell'amministrazione, il contrassegno che più immediatisticamente qualifica un sistema politico non è dato dal grado di autonomia da esso assicurato al governo locale; bensì dalla modalità di relazione esistente tra governo centrale e governo locale. Solo facendo perno su questa relazione, difatti, si tengono nel debito conto l'azione autonoma e gli interscambi tra tutti e due gli elementi in gioco, senza stabilire tra di loro gerarchie di esclusione o sovrapposizione.

Traducendo in termini più esplicitamente politici, ciò vuole dire che come le politiche locali non debbono colonizzare o degradare il "loro" ambiente (locale), così le politiche centrali debbono sintonizzarsi con il "loro" ambiente (globale) e non interferire con/o depauperare l'ambiente locale.

Autonomia e integrazione dei governi locali si misurano concretamente sulla qualità e quantità delle materie su cui essi sono chiamati a decidere e intorno cui dispiegano la loro sovranità e le loro competenze funzionali. Lo spettro di queste materie deve essere ridefinito e ampliato, rispetto a quanto previsto dal dettato costituzionale; ma della Costituzione mantenendo fermo il principio del "decentramento organico".

Ineliminabilmente avvinto alle questioni dei poteri e delle autonomie del governo locale è il problema delle risorse finanziarie ed economiche. Il discorso qui si prolunga dalla risorsa cultura alla risorsa politica, per completarsi con la risorsa monetaria. Si tratta sia di accrescere le capacità di entrata dei governi locali, sia di razionalizzare i trasferimenti finanziari dello Stato.

È da tempo stato fatto notare che l'incertezza e le carenze delle risorse finanziarie degli enti locali hanno assunto la caratteristica di una costante sia nei sistemi di governo locale basati sull'autonomia dell'imposizione tributaria che in quelli che dipendono dai trasferimenti dello Stato. Il che sottolinea la necessità di procedere ad una rielaborazione complessiva dei "sistemi formali di pianificazione" che regolano l'efficacia e la congruenza delle funzioni e delle prestazioni del governo locale.

La questione dei "costi dei servizi" e delle "determinanti di spesa" rimanda a più generali problemi di natura socio-economica ed istituzionale, concernenti il funzionamento del sistema amministrativo locale, con particolare riferimento al Mezzogiorno (35). Il punto è di cruciale importanza proprio per il Mezzogiorno d'Italia: il carattere (giustamente definito) derivato della finanza locale non ha impedito che si consolidassero differenziali di spesa pro-capite a tutto danno degli enti locali meridionali. Il dato perverso è che, a fronte di una spesa relativamente maggiore, si è in presenza di una qualità di servizi e prestazioni peggiore. Questa tendenza storica non è stata invertita o attenuata dai cicli istituzionali amministrativi che, negli anni '80, hanno potenziato l'autonomia impositiva locale. Ora, è ben vero:

a) che eguaglianze formali di spesa possono, sovente, nascondere diseguaglianze nel tasso di complessità e difficoltà delle problematiche sociali e culturali esistenti;

b) che i problemi sociali, ambientali, culturali e storici del Mezzogiorno presentano un grado di complicazione assai più rilevante.

Purtuttavia, resta la questione dell'onerosità/inefficienza degli enti locali meridionali che è cagionata:

a) in parte, dall'ipertrofia dell'intervento sociale, culturale e politico esterno (leggi, Stato, istituzioni, partiti, gruppi industriali, ecc.);

b) in parte, dalla inadeguatezza della classe politica locale (di governo e di opposizione) nei confronti dei problemi locali;

c) in parte, dalla mancata fluidificazione delle culture locali entro i processi di modernizzazione politica, sociale e culturale, per limiti e responsabilità, diversamente orientate, imputabili tanto all'attore locale che all'attore globale.

In generale, il discorso sul sistema amministrativo locale, soprattutto per quel che concerne le regioni meridionali, si risolve riduttivamente nel tema dell'innovazione e dell'imprenditorialità. Abbiamo già sottoposto a critica questi approcci nelle sintetiche note articolate nell’introduzione. Qui avanziamo alcune considerazioni esplicative ulteriori.

Se è vero che il concetto di imprenditorialità non si può circoscrivere alla "gestione dell'impresa", ma investe l'attività economica nel suo complesso, altrettanto vero è che quella del sistema amministrativo (locale e centrale) non può, in ogni caso, essere omologata come "attività economica", non essendo i suoi fini, le sue funzioni e le sue prestazioni di natura economica. Pertanto, la pur giusta esigenza di elevare il livello di rendimento del sistema amministrativo non può risolversi nell'introiettarvi dentro dosi di cultura e management imprenditoriali. Il sistema amministrativo non funge quale catalizzatore dei processi economici che avvengono negli enti pubblici; piuttosto, combina e media, al suo interno, funzioni e competenze di natura politica, economica, istituzionale e sociale; logiche e filosofie complesse, ben oltre l'univocità della razionalità imprenditoriale, debbono presiedere al suo funzionamento.

Un "riorientamento strategico" della decisione e della pianificazione del sistema del governo locale, accogliendo la "sfida della complessità", è quanto si reclama a livello formale, politico-operativo e interistituzionale (36). Il riorientamento è necessario anche in ragione dell'esigenza indifferibile di ridisegnare puntualmente le aree di intervento e le relative "soglie critiche", allo scopo di:

a) scongiurare accavallamenti e duplicazioni tra poteri centrali e poteri locali;

b) classificare e selezionare i bisogni dell'utenza;

c) apprestare servizi diversificati;

d) razionalizzare l'impiego delle risorse umane, tecniche e finanziarie a disposizione del sistema amministrativo.

Il sistema amministrativo, in linea generale:

a) produce e consuma risorse in proprio;

b) produce risorse e servizi destinati al consumo della cittadinanza.

Ora, le risorse prodotte dal sistema amministrativo e consumate dalla cittadinanza fungono da pilastro dei sistemi di:

a) istruzione, formazione ed educazione;

b) trasporto e comunicazione;

c) infrastrutturazione e innovazione tecnologica;

d) assistenza sociale e sicurezza socio-ambientale in generale;

e) tempo libero.

La qualità delle prestazioni del sistema amministrativo incide, pertanto, con effetto immediato:

a) sulla qualità della vita dei singoli e della collettività, con particolare riguardo a quelle fasce di cittadinanza meno protette e garantite;

b) sulla qualità sociale, ambientale e relazionale del sistema locale.

Questa schematizzazione esclude, di per sé, che il governo locale possa essere assimilato ad una articolazione territoriale del Welfare. Al contrario, lungi dall'essere una mera compensazione equitativa da parte dello Stato decentrato delle ingiustizie allocative e distributive del mercato, esso è un sistema autonomo e attivo. Come il Welfare non poteva - e non ha potuto - sostituirsi al governo locale, così la crisi dello Stato sociale non tematizza il problema del governo locale nei termini semplificatori del welfarismo localistico.

4.4.

Culture per la politica e politiche culturali: progetto e governo nei sistemi locali

La risorsa cultura, per il sistema amministrativo (in specie, per quello meridionale), rappresenta un onere di spesa non adeguatamente interiorizzato e, per questo, di scarso rilievo nell'economia generale della spesa pubblica (locale e nazionale). Secondo stime riferentisi al 1986, l'incidenza complessiva della "spesa pubblica per la cultura" sul prodotto nazionale lordo è nell'ordine dell'0,5%; questo valore percentuale è, così, ripartito:

a) il 64,7% di competenza dell'amministrazione statale;

b) il 21% di competenza delle amministrazioni regionali;

c) l'11% di competenza delle amministrazioni comunali;

d) il 3,3% di competenza delle amministrazioni provinciali (37).

Come è noto, la teoria normativa della finanza pubblica si occupa delle "giustificazioni razionali" dell'intervento pubblico, secondo i princìpi dell'efficienza e dell'efficacia, i quali presiedono alla "valutazione economica" dei progetti e delle convenienze. Esaminando questo modello secondo il paradigma buchaniano "costo e scelta (38), possiamo meglio metterne in luce le incongruenze. Difatti, come ha acutamente argomentato Buchanan:

a) non soltanto il costo è una scelta;

b) ma la stessa scelta è un costo.

Se il costo dà luogo a delle scelte, queste, a loro volta, danno luogo a dei costi. Ora, le conseguenze (in termini di costo) delle scelte e le conseguenze (in termini di scelta) dei costi non sempre corrispondono alle attese; più esattamente, sono delle variabili impredicibili che entrano a pieno titolo nei meccanismi di formazione, variazione e attuazione delle decisioni pubbliche.

L'attivazione della risorsa cultura nelle progettazioni e nelle procedure del governo locale ha dei "costi" e delle conseguenze non monetizzabili. Intanto, perché la cultura è un mezzo polifunzionale, il cui impiego non solo eleva la qualità del "progetto" e del "governo". In secondo luogo, perché la mancata attivazione ed elaborazione di modelli culturali ad hoc, lascia "progetto" e "governo" in preda a stereotipi culturali inadeguati e/o obsoleti che, in maniera involontaria quanto occulta e pervasiva, li condizionano negativamente e li espongono allo scacco. Il "costo" più elevato pagato (anche in termini strettamente economici) è, certamente, quello relativo alla "scelta" che rinuncia alla adeguata mobilitazione e valorizzazione del potenziale culturale, quale fattore di organizzazione e risoluzione delle problematiche su cui sono chiamate a progettare, intervenire e governare le decisioni pubbliche. Le distorsioni e i fallimenti decisionali dipendono, in gran parte, da una trascuranza, oppure da un difetto nell'impiego della risorsa cultura nei processi che concorrono alla formazione del progetto, della prassi e della procedura del governo. Le politiche, soprattutto a livello locale, richiedono in misura esponenzialmente crescente l'uso attivo e creativo delle culture. Le politiche locali reclamano (forse, soprattutto a lato delle funzioni del "progetto" e del "governo" e soprattutto nel Mezzogiorno) il contestuale, se non preliminare, processo di recupero, valorizzazione e rinnovamento delle culture locali.

Quest'approccio si scontra con la struttura formale, funzionale ed operativa dell'amministrazione pubblica e del sistema amministrativo.

Come è stato, da tempo, fatto rilevare dalla letteratura più avvertita, il principio guida che regola e modella le amministrazioni pubbliche italiane è quello della ripartizione per competenza. Ora, la redistribuzione delle competenze non risponde solo a criteri di logica formale, ma anche a princìpi di spartizione politica di funzioni e decisioni pubbliche. La ripartizione delle competenze, in altri termini, consente alle forze politiche facenti parte della coalizione governativa l'appropriazione e l'allocazione di risorse, non secondo gli imperativi dell'"ottimo" istituzionale, bensì in esecuzione di interessi particolaristici e/o partitici. In queste condizioni, la partecipazione al governo dell'ente locale (e, a maggior ragione, al governo nazionale) si traduce nell'uso improprio della politica e del potere. La logica della rappresentanza politica si converte e distorce in monopolio del potere, per l'appropriazione particolaristica e l'allocazione partitica delle risorse pubbliche. Ciò è reso particolarmente evidente dalle strutture di comando che la prassi di governo articola:

a) il polo decisionale degli assessorati, a livello periferico;

b) il polo decisionale dei ministeri, a livello centrale (39).

L'azione di governo diviene una macchina decisionale, fatta di apparati e soggetti che subordinano le istituzioni ai fini particolari:

a) della coalizione di governo;

b) delle singole forze componenti della coalizione di governo.

La specializzazione e la settorializzazione degli apparati e dei soggetti che presiedono all'azione di governo non solo inseminano i batteri dell'incomunicabilità interistituzionale, ma nidificano interessi e logiche strumentali. Ne consegue che:

a) dal lato del processo delle decisioni pubbliche: l'azione di governo non è risultante di coesione e di unità di progetto; bensì effetto di giustapposizioni particolaristiche;

b) dal lato degli attori di governo: i partiti coalizionali, a misura in cui competono per la realizzazione degli interessi particolaristici che direttamente esprimono, sono i principali motivi di causazione dell'ingovernabilità; o meglio: del governo secondo inefficienza e interesse.

Tocchiamo, anche qui, una specificità del "caso italiano" che riverbera effetti particolarmente negativi sui sistemi di governo locale del Mezzogiorno. Diversamente da quanto empiricamente e teoreticamente assunto dall'"implementation research" (40), il piano relazionale/decisionale che fa da contesto alle politiche pubbliche mette rilevantemente in mora il carattere interattivo e interorganizzativo che regge "progetto" e "azione" di governo. Anzi - come abbiamo visto -, la qualità formale e organizzativa del sistema amministrativo si esplicita esattamente come carenza di flussi interazionali e interorganizzazionali. E ciò non alla luce dei criteri rilevati e suggeriti dall'"implementation research", bensì in considerazione della rete di "funzioni complesse" che mette in comunicazione e in conflitto, volenti o nolenti, tutti i sistemi e i sottosistemi sociali.

Se così stanno le cose, occorre riconsiderare criticamente un fenomeno che, in questi ultimi decenni, si è andato affermando a livello di politiche comunitarie. La "regionalizzazione delle politiche culturali" ha veicolato un processo di appropriazione politica della cultura (41): in sostanza, per l'implementazione di perfomances politiche si fa sempre più uso di codici culturali ad alto carico simbolico e comunicativo. Come è agevolmente rilevabile, il fenomeno costituisce una variante e, insieme, un aggiornamento del carattere ancillare che la cultura è venuta assumendo verso la politica. La "decentralizzazione culturale", per questa via affermatasi, ha teso a diffondere nuove figure/mito culturali con cui difendere, comunicare e legittimare la separatezza della decisione politica. Nell'apprestare nuove "politiche culturali" per il "progetto" e l'"azione" di governo, rimane vacante lo stadio preliminare: quali culture per le politiche? In virtù di questo salto logico-comunicativo, la decentralizzazione culturale finisce con l'appropriare ai soggetti titolari dell'iniziativa politica più potere, accumulato a detrimento della risoluzione congrua dei problemi oggetto di decisione e in posizione di progressivo distanziamento dai bisogni espressi dalla domanda della cittadinanza e dell'ambiente. Non appare, dunque, un caso, se la decentralizzazione culturale abbia attivato e consolidato, sul finire degli anni '80 a livello europeo, un processo di ri-centralizzazione delle politiche culturali (42), con un'espansione rilevante dei poteri e dei controlli dei ministeri e degli assessorati sui livelli inferiori.

Emerge, ancora una volta, l'esigenza di invertire le tendenze in atto, ricostituendo la complessità del rapporto cultura/politica, assegnando ad entrambi i termini una spiccata autonomia comunicativa, con l'occhio particolarmente rivolto alla qualità della vita dei cittadini (più deboli) e alla qualità sociale-ambientale del sistema (locale). Invertire le tendenze significa, allora, cambiare "gioco", "modo di giocare" e "attori". Si potranno, così, elaborare "nuove regole".

 

 

Note

(1) M. Cammelli, Governo locale e sistema amministrativo nel Mezzogiorno, "Il Mulino", n. 3, 1990, p. 428. Sui "diversi Mezzogiorni", dello stesso A., cfr.: Le istituzioni del Mezzogiorno, "Stato e mercato", n. 20, 1987; Mezzogiorno e sistema amministrativo: le istituzioni della diversità, "Meridiana", n. 4, 1988.

(2) Associazione culturale Relazioni, Dall'emergenza allo sviluppo? Stato e sistemi locali nell'industrializzazione post-sismica della provincia di Avellino , Avellino, 1990, p. 6. Il rimando, oltre ai lavori di Cammelli appena segnalati, è alle seguenti opere: M. S. Giannini, Problemi dell'amministrazione delle regioni insufficientemente sviluppate, "Rivista Trimestrale di Diritto Pub-blico", n. 3, 1962; G. Marongiu, Il coordinamento come principio politico di organizzazione della complessità, in G. Amato-G. Marongiu (a cura di), L'amministrazione in una società complessa, Bologna, 1982; S. Cassese, Il sistema amministrativo italiano, cit.; M. Fedele (a cura di), Il sistema politico locale, cit.; G. Marongiu, Le istituzioni e le società locali, "Il nuovo osservatore", n. 6, 1986.

(3) Cfr. M. S. Giannini, op. cit., p. 554.

(4) Ibidem, p. 556.

(5) Ibidem, p. 561.

(6) Ibidem, pp. 561-567.

(7) Cfr. S. Cassese, Il sistema amministrativo italiano, cit. Successivamente, anche M. Cammelli ha messo in risalto la differenza specifica, in termini di concetto e materialità storica, tra "amministrazione" e "sistema amministrativo": cfr. Mezzogiorno e sistema amministrativo..., cit., p. 103 ss.; Governo locale e sistema amministrativo..., cit., pp. 429-430.

(8) M. Cammelli, Mezzogiorno ..., cit., p. 103.

(9) Per un'approfondita analisi di insieme dell'intervento straordinario fino a tutti gli anni '70, cfr. A. Del Monte-A. Giannola, Il Mezzogiorno nell'economia italiana, Bologna, 1978; Gabriella Gribaudi, Mediatori, Torino, 1980; Laura Ammanati, Cassa per il Mezzogiorno e intervento straordinario, Napoli, 1981. Per un inquadramento dei profili istituzionali e giuridici della L.64/86 nell'alveo dell'intervento straordinario, cfr. C. Riviello, Dalla Cassa per il Mezzogiorno al nuovo intervento straordinario, Bologna, 1988.

(10) Cfr. M. Cammelli, Mezzogiorno e sistema amministrativo..., cit., pp. 113-114.

(11) S. Cassese, Amministrazione pubblica e riforme istituzionali, "Democrazia e diritto", n. 2, 1983, p. 50.

(12) G. Marongiu, Le istituzioni e le società locali, cit., p. 18.

(13) G. Pastori, Il terreno istituzionale, "Il Progetto", n. 23, 1984, p. 26.

(14) M. Cammelli, Mezzogiorno e sistema amministrativo..., cit., pp. 126-129.

(15) R. Ruffilli, La questione regionale dall'unificazione alla dittatura (1882-1942), Milano, 1971.

(16) G. Melis, Società senza Stato? ..., cit. p. 92.

(17) Il problema è stato affrontato in Associazione culturale Relazioni, Il degrado urbano in rapporto all'aumento della criminalità organizzata nel Mezzogiorno d'Italia, Avellino, 1991.

(18) Cfr. S. Cassese, Questione amministrativa e questione meridionale. Dimensioni e reclutamento della burocrazia dall'unità ad oggi, Milano, 1977; G. Melis, op. ult. cit.

(19) Il rinvio d'obbligo è a E. Forstohff , Stato di diritto in trasformazione, Milano, 1973.

(20) Cfr. S. Amorosino, Il coordinamento amministrativo della ricostruzione e sviluppo delle regioni terremotate, Padova, 1984, p. 26.

(21) R. Ruffilli, Crisi dello Stato e storiografia contemporanea, Bologna, 1979.

(22) S. Amorosino, op. cit., pp. 26-28.

(23) G. Guarino, Quale costituzione?, Milano, 1980.

(24) Cfr. A. Bocchini, Premessa a commento sui Provvedimenti a favore delle popolazioni terremotate, in Le nuove leggi civili commentate, Milano, 1981.

(25) Cfr. V. Crisafulli, La legislazione del cinquantennio, Relazione al Convegno "Cinquanta anni di esperienza giuridica in Italia", Taormina, 3-8 novembre 1981, Atti, Milano, 1982.

(26) C. Lavagna, Considerazioni sui caratteri degli ordinamenti democratici, "Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico", n. 2, 1956, p. 392 ss.

(27) Cfr. M. Cammelli, Governo locale e sistema amministrativo nel Mezzogiorno, cit., pp., 427-430, 439-440.

(28) Ibidem, p. 439.

(29) Cfr. Associazione culturale Relazioni, Dall'emergenza allo sviluppo?..., cit., pp. 14-23.

(30) Ibidem. Cfr. anche C. Riviello, op. cit., pp. 65-102.

(31) Associazione culturale Relazioni, op. ult. cit., p. 19.

(32) In una direzione simile già M. Cammelli, op. ult. cit., p. 440 ss.

(33) Per un'analisi del "concetto" e dei "tipi" delle "forme di governo", si rinvia al classico, ma sempre valido, C. Mortati, Lezioni sulle forme di governo, Padova, 1973.

(34) Come è noto, le teorie dello "sviluppo politico" proliferano negli anni '60 e '70: cfr. S. P. Huntington-J. I. Dominguez, Political Development, in F. I. Greenstein-N. Polsby (eds.), Handbook of Political Sciences, cit.; M. Weiner-S. P. Huntington (eds.), Understanding Political Development, Boston, 1987.

(35) Come è sin troppo evidente, la questione dei "costi" e delle "determinanti di spesa" del governo locale è cosa diversa dalla "spesa regionale" dello Stato. Su quest'ultimo argomento, cfr. Formez, La spesa dello Stato nelle regioni italiane, Napoli, 1991; Id., La distribuzione regionale della spesa dello Stato, Napoli, 1992.

(36) In una direzione simile, già M. Meneguzzo, Crisi della pianificazione e scelte strategiche negli Enti Locali, "Il nuovo governo locale", n. 3, 1985. Sulla relazione amministrazione/complessità, cfr. G. Amato-G. Marongiu (a cura di), L'amministrazione in una società complessa, cit.; per i temi relativi alla "sfida della complessità", oltre ai lavori citati alla nota n. 3, si rimanda a G. Bocchi-M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Milano, 1985.

(37) Cfr. G. Brosio, La spesa per l'arte e la cultura, in G. Brosio (a cura di), La spesa pubblica, Milano, 1987. Ma, sul tema, cfr. anche: G. Campa-B. Bises, La spesa dello Stato per attività culturali in Italia, Milano, 1980; C. Bodo, Rapporto sulla politica culturale delle regioni, Milano, 1982; C. Marchetti, Le muse e l'assessore. Le spese culturali di quattro comuni metropolitani dal 1974 al 1983, "Ikon", n. 11, 1985; AA. VV., Le mura e gli archi. Valorizzazione del patrimonio storico-artistico e modello di sviluppo, Roma, 1986; L. Bobbio, Decisioni pubbliche sui beni culturali. Un'indagine empirica, "Biblioteca della libertà", n. 100, 1988; Formez, Economia dei beni culturali. Programmazione e valutazione dell'intervento pubblico per progetti, Napoli, 1992.

(38) Cfr. J. M. Buchanan, Cost and Choice, Chicago-Londra, 1969: trad. italiana Milano, Angeli/"Quaderrni di Biblioteca della libertà", 1993. L'Introduzione all'edizione italiana: F. Forte, Costo e scelta: la teoria di Buchanan, è stata anticipata in "Biblioteca della libertà", n. 116, 1992.

(39) Così già S. Zoppi, La pubblica amministrazione come risorsa, Napoli, 1986, p. 13 ss.

(40) Per un esame critico dell'"implementation research", si rinvia alle "note introduttive". Sull'argomento, cfr. J. L. Pressman-A. Wildavsky, Implementation, Berkeley, 1973; D. S. Van Meter-C. E. Van Horn, The Policy Implementation Process: A Conceptual Framework, "Administration and Society", n. 6, 1975; E. Bardach, The Implementation Game: What Hap-pens After a Bill Becomes a Law, Cambridge, 1977; K. Hanf-F. Scharp (eds.), Interorganizational Policy Making. Limits to Coordination and Central Control, Londra, 1978; G. Maione-A. Wildavsky, Implementation as evolution, "Public Policy", 1978; S. Zan, L'analisi interorganizzativa per lo studio delle politiche pubbliche, "Rivista trimestrale di scienza dell'amministrazione", n. 4, 1984; B. Dente, L'analisi dell'efficacia delle politiche pubbliche, Napoli, 1984.

(41) Sul punto, cfr. E. Friedberg-P. Urfalino, La décentralisation culturelle: l'émergence de nouveaux acteurs, "Politic et Management Public", n. 2, 1985.

(42) Cfr. A. Colasio, Accentramento e decentramento nelle politiche culturali: Italia, Francia e Spagna, "Polis", n. 3, 1989, p. 515.