INTRODUZIONE.

Critica dell’analisi politica dei sistemi locali

 

 

Data l'economia generale della ricerca, non potremo occuparci, come pure sarebbe necessario, delle problematiche afferenti ai complessi territori del "locale", che hanno conosciuto, in quest'ultimo trentennio, una rinascita di interesse e una proliferazione di studi a dir poco impressionante.

Non c'è stata disciplina o sottobranca disciplinare ad essere stata risparmiata dall'"investigazione localistica": a partire dai modelli epistemologici dei nuovi saperi, per arrivare ai moduli ermeneutici della riflessione storico-antropologica e politico-sociale.

La ricaduta più evidente del "revival localistico" la si registra proprio nel campo della ricerca culturale in senso lato e in quello della "scienza del territorio" in modo particolare.

Anche discipline apparentemente più asettiche e neutre, come la "scienza dell'amministrazione" e la "teoria dell'organizzazione", p. es., hanno dovuto subire l'irruzione di modelli ermeneutici ed epistemologici locali.

Si è trattato, in generale, di una risposta alla "complessità": di fronte alla estinzione dell'"universo organico della precisione", non è rimasto che elaborare nuovi modelli di interpretazione del reale, a partire dalla decostruzione puntuale delle sue soglie di complessità e differenziazione.

La condizione contemporanea, per molti versi, si può qualificare come l'epoca dell'esplosione della complessità e della differenziazione. Al punto che perfino (o, forse, proprio) le evidenze e i dati più elementari risultano di difficile decodificazione. Ciò sia nella vita quotidiana, sia nella vicenda storica e politica, sia nell'impresa scientifica, sia nello spazio culturale. Lo stesso "revival localistico" è di complicata decifrazione, polisemico come è tanto sul piano culturale quanto su quello politico. Inveniamo il localismo sia nello scomodo ruolo di viatico per filosofie comunitarie regressive che in quello di piattaforma per archeologie di rivolgimento del reale. Il che testimonia, una volta di più, il carattere sfuggente, se non ambiguo, che il "revival localistico" è andato assumendo.

Dobbiamo rinviare ad altra occasione l'approfondimento della rilevanza di queste tematiche. Qui diamo, in gran parte, per risolta la discussione intorno alle "scienze" e alle "culture" del "locale". Ci riferiremo, fondamentalmente, agli esiti articolati di tale discussione, correlandoli al rapporto triadico politica/cultura/istituzioni locali. Per la piena messa in luce di tale correlazione, esamineremo le funzioni esercitate dalle "politiche locali", quali medium di decisione e di organizzazione. A coronamento del tutto, approssimeremo lineamenti orientativi in vista dell'elaborazione e messa in pratica di una nuova cultura del governo locale.

La presente ricerca intende essere soltanto una ricognizione circoscritta al rapporto che si dipana tra cultura, politica e istituzioni locali. Scandagli successivi - più approfonditi e larghi - si reclamano, sia sul versante epistemologico-analitico che su quello della proposizione politico-culturale.

L'affinamento della riflessione sui modelli epistemologico-culturali del "locale" è la base irrinunciabile dell'indagine intorno ai modelli operativi della macchina istituzionale periferica. Siffatto affinamento, inoltre, consente una proficua analisi relazionale di quel nesso tra "modelli di cultura" e "modelli di azione politica" che, in un certo senso, regola il funzionamento delle istituzioni locali, tanto in termini di prestazioni e servizi quanto in funzione del rapporto con la cittadinanza. Tutto ciò, a sua volta, fa da premessa per lo scandaglio delle condizioni particolari in cui versa la macchina istituzionale locale, al fine di elaborare proposte operative modulate ad hoc.

In questo lavoro non eludiamo totalmente la complessità e la vastità di questi temi; ma ad essi dobbiamo, evidentemente, attribuire un taglio analitico generale e un campo di insistenza limitato. La ricerca ha, per così dire, un carattere propedeutico e, nel contempo, tenta di stabilire primi parziali "punti forti" su cui poter ancorare in maniera sufficientemente congrua futuri sviluppi di analisi e di proposta operativa.

Ciò che, a quest'ultimo riguardo, rileva in particolar modo è lo studio funzionale del decentramento dei poteri locali, con particolare riferimento alle recenti leggi di riordino delle autonomie locali e al dibattito sul federalismo che, in un certo senso, ha accompagnato la lunga agonia del sistema politico italiano nei primi e secondi anni ‘90.

La questione del decentramento dei poteri è, da sempre, uno dei rompicapo più ardui da risolvere per il corretto funzionamento della macchina della pubblica amministrazione e per un soddisfacente rendimento dell'azione di governo in periferia. Particolarmente oggi, di fronte ai nuovi e più complessi impegni nazionali e internazionali e alle più evolute e pressanti richieste della cittadinanza, essa diviene una delle "questioni delle questioni".

La cultura, in questa nuova costellazione di eventi e di responsabilità, può (per non dire: deve) divenire una delle risorse principali, per una più rispondente adeguazione dell'azione politica e delle procedure di governo alla complessità delle problematiche dei sistemi sociali e alla eterogeneità delle questioni ambientali.

Questa esigenza pare ancora più urgente a livello locale, dove le risorse di tipo economico-materiale si attestano ai livelli più bassi; dove più intimo e diretto si fa il contatto delle istituzioni pubbliche e della classe politica con le aspettative e i diritti dei cittadini; dove con maggior forza vengono al pettine gli infiniti nodi dell'organizzazione dello spazio, dell'erogazione dei servizi, della tutela dell'ambiente e dello sviluppo equilibrato dell'economia, ecc.

Soprattutto a livello locale, la critica del funzionamento delle istituzioni e delle politiche pubbliche ha, per lo più, fatto perno sulla chiave interpretativa incardinata sulla coppia costi/benefici. Un criterio, se non un'ideologia, dell'efficienza si è, così, elevato ad unico ed assorbente metro di misura delle decisioni e delle azioni delle istituzioni locali. La razionalità che ispira il giudizio derivante da simile impostazione è di tipo strumentale-calcolistico: essa misura la qualità e la quantità delle prestazioni fornite dai sistemi istituzionali locali esclusivamente in termini di mezzi/fini e spese/rendimenti. Le "scuole" maggiormente rappresentative di questo indirizzo generalizzato sono l'"evaluation research" e l'"implementation research", affermatesi negli Usa nel corso degli anni '70, e la "policy analisis" che dagli anni '80 in avanti, a partire dal mondo anglosassone, si è estesa a tutto il mondo occidentalizzato.

Certamente, il criterio dell'efficienza e dell'efficacia deve essere rispettato; come pure quello della razionalizzazione delle spese in uno con il miglioramento qualiquantitativo delle prestazioni e dei servizi. Ma non si possono vagliare i comportamenti dell'attore pubblico, in particolare a livello periferico, unicamente in base al calcolo dell'efficienza strumentale. Così operando, l'attore pubblico viene impropriamente omologato ad un attore economico; l'amministrazione pubblica, ad un'impresa; i cittadini, unicamente a fruitori/consumatori di merci. Che l'amministrazione pubblica debba rispondere anche a princìpi di imprenditorialità e specializzazione redditiva appare fuori di dubbio; ma le sue prestazioni e funzioni rimangono inassimilabili a quelle delle imprese vere e proprie. Allo stesso modo con cui, gli amministratori e, più in genere, il ceto burocratico-istituzionale e la classe politica non possono essere assimilati a degli imprenditori in senso stretto. Altro è amministrare un'impresa, altro è amministrare la macchina pubblica; altra è la funzione del sistema economico-produttivo, altra è la funzione del sistema politico-istituzionale.

Nonostante gli illustri natali schumpeteriani, i teoremi del "ciclo politico" e il corollario dell'"amministrazione-impresa", finendo con l'assimilare troppo indebitamente la politica al mercato e i politici agli imprenditori, rivelano una bassa soglia di scientificità. Quello che più conta è che essi, proponendo soluzioni di taglio economicista in un settore la cui natura economica non è, non sembrano in grado di incidere in profondità nel "male oscuro" della macchina istituzionale.

Una critica puntuale del sistema politico istituzionale non può limitarsi a fare propri i requisiti della razionalità economica; né la razionalità economica può da sola bastare ad ispirare proposte di riadeguamento e di rifunzionalizzazione dei poteri locali. Occorre individuare i modelli culturali che presiedono al funzionamento del sistema politico-istituzionale centrale e periferico. Occorre impiegare la risorsa cultura nell'analisi critica dei modelli dei poteri locali e nella proposta costruttiva di un loro nuovo modo d'essere complessivo (non soltanto "imprenditivo"). A pieno titolo, la risorsa cultura deve rientrare tra i criteri dell'analisi dell'efficacia delle politiche pubbliche locali. Meglio ancora: senza l'impiego della risorsa cultura, non è possibile addivenire ad una congrua analisi critica delle politiche pubbliche locali; tantomeno è possibile formulare ipotesi calzanti per una loro riconfigurazione generale. L'aver rimosso o pesantemente sottovalutato i potenziali critico-costruttivi collegati ad un impiego "programmatico" e "sistematico" della cultura costituisce uno dei motivi rilevanti del "fallimento" tanto delle politiche pubbliche quanto delle analisi critiche della loro efficacia; concesso pure, in linea meramente ipotetica, che il tipo ideale di amministrazione sia il "perfetto" weberiano o l'"ottimo" paretiano. Un'analisi realistica e puntuale e, allo stesso tempo, culturalmente provveduta dell'amministrazione pubblica deve prendere atto che qualunque "programma" di politica pubblica è congenitamente condannato a mancare i suoi "obiettivi": tra "risultati" e "obiettivi" del "programma" si dà una frattura incolmabile.

Epistemologicamente ed empiricamente argomentando, il "programma" non ha né un valore predittivo, né prescrittivo: quanto più è vincolato e vincolante, tanto più effetti controintenzionali ed eventi imprevedibili allargheranno a dismisura la forbice tra i suoi "obiettivi" e i suoi "risultati". La verifica del "programma" non può essere niente altro che la sua costante rimodulazione, per il tramite del contenimento progresssivo della sfasatura ineliminabile tra "obiettivi" e "risultati". Non è sempre vero che gli obiettivi teleologici del programma siano più vincolanti dei risultati raggiunti; si dà anche il caso della necessità del ripianamento e della "rifondazione" degli obiettivi attraverso i risultati. Uno dei numerosi elementi di labilità degli indirizzi a cui si è fatto criticamente cenno è proprio quello di incardinare la "ricerca di valutazione" e la "ricerca di implementazione" sul primato assoluto degli obiettivi a confronto dei risultati, in adesione ad un astratto modello di "economicità perfetta". Tanto più la presa euristica di tali approcci si va esaurendo, quanto più la crisi delle politiche pubbliche si va configurando in tutta l'area dei paesi avanzati (ma non solo) come "crisi di risorse" (monetarie, in primo luogo). Proprio al livello di "crisi delle risorse", gli approcci economicisti di valutazione delle politiche pubbliche sono osservabili nelle loro interne e insuperabili contraddizioni. Il vicolo cieco entro cui rimangono rinserrati tali approcci è così schematizzabile: richiedere alle politiche pubbliche di migliorare i loro rendimenti, impiegando un volume inferiore di risorse (monetarie, umane e tecniche)! La cesura tra obiettivi e risultati dovrebbe, invece, spingere ad una ridefinizione della razionalità e dei modelli culturali che ispirano i programmi, allargando il campo delle risorse, attingendo a potenziali non adeguatamente attivizzati e producendo nuovi modelli basali di interazione cultura/politica, cultura/istituzioni. Non appare altrimenti "governabile", in termini di allargamento della sfera di azione e comunicazione della razionalità democratica, la sproporzione permanente tra obiettivi e risultati delle politiche pubbliche.

Lo scarto cultura/amministrazione pubblica e cultura/politica rimonta da lontano. In questo secolo risale, perlomeno, al New Deal che, tra i molti pregi, ha pure l'indubbio demerito di aver incardinato l'azione di governo interamente sul ceto politico-amministrativo, espellendo la risorsa cultura dai suoi potenziali attivi. Negli anni '60 e '70, su queste basi, ha preso vigore una vera e propria "crisi intellettuale" all'interno dell'amministrazione pubblica americana. Tale crisi è stata occasione di un acceso dibattito sui "sostrati concettuali" e sui profili "dell'amministrazione democratica", i quali, a loro volta, hanno costituito un importante oggetto di indagine della scuola della "public choice".

Non che, con questo, venga improvvisamente meno il ruolo degli intellettuali nella società e nella politica; al contrario, il ruolo e le funzioni degli intellettuali si accrescono. "Solo" che essi ora sono quasi per intero subordinati agli inputs del sistema politico-amministrativo ed economico-produttivo. Si consuma qui un ennesimo "tradimento dei chierici" che tanto inchiostro ha fatto versare e tante polemiche ha bruciato sterilmente. In sostanza, siamo spettatori, spesso passivi, di un processo di progressiva perdita di autonomia della cultura che, oltre a sacralizzare i poteri (centrali e periferici), rende oltremodo difficile la valorizzazione e il rinnovamento delle "culture locali", con tutto il conseguente carico negativo che si riverbera nel rapporto tra politica e sistema locale, tra politica e cittadinanza.

Tra le conseguenze più deleterie della caduta di tensione della "risorsa cultura" nella dinamica di funzionamento dei poteri locali va segnalato il corrispettivo ingigantirsi della "logica del comportamento burocratico", che appesantisce e sclerotizza in maniera veramente impressionante tanto le sfere della decisione e dell'azione di governo quanto le condotte di recezione delle domande della cittadinanza e delle problematiche socio-ambientali. Già sul piano fisiologico, i tempi di decisione e azione delle istituzioni sono lenti e complicati; il comportamento burocratico eleva esponenzialmente questa lentezza e complicatezza. Quanto più la logica del comportamento burocratico non trova un contrasto efficace, tanto più i tempi di decisione e azione delle istituzioni si eternizzano, arrovellandosi su se stessi e condannando all'insoluto e al differimento perpetuo tutti i problemi che richiedono risoluzioni urgenti, puntuali ed efficaci.

Anche a questo riguardo dobbiamo mettere in questione un idealtipo weberiano: fino a che punto è vero che la burocrazia è il mezzo più conforme per incrementare l'efficienza delle organizzazioni e, per questa via, della società intera? Se concepiamo, con Weber, la burocrazia come organizzazione di attività perfettamente razionali (o, ancora meglio: come l'organizzazione della razionalità dell'azione) siamo impossibilitati a discernere le funzioni diversificate da essa giocate. Soprattutto, non siamo in grado di assumere il necessario atteggiamento critico verso quel postulato che classifica la "razionalità burocratica" come "razionalità neutra". Ritenere la burocrazia un che di interamente ed esclusivamente "neutro" oggettualizza indebitamente il "burocrate", facendo dimenticare che quello burocratico è anche un comportamento "soggettivo": una reazione soggettiva di rigetto della complessità e del mutamento. La logica del comportamento burocratico è intrisa anche di rifiuto soggettivo delle decisioni e delle azioni finalizzate al governo della complessità in termini di rinnovamento istituzionale e mutamento politico-culturale. La burocrazia, prima ancora che servire la macchina istituzionale organizzata, è al servizio di questa razionalità soggettiva, su cui edifica un apparato, il quale non è in rapporto di linearità endorganizzativa con lo Stato e i suoi poteri, bensì è funzionale alle sue proprie esigenze di autoconservazione. Da questo lato, la burocrazia è una macchina organizzativa disfunzionale, prigioniera dei suoi circoli chiusi. Si possono rimuovere le occlusioni causate dal comportamento burocratico, risalendo congiuntamente ai "modelli di cultura" e ai "modelli di razionalità" della burocrazia.

Ora, se si osserva attentamente l'incidenza del comportamento burocratico, non si può fare a meno di rilevare la sua natura trina: (i) da una lato, mette in crisi le funzioni e la funzionalità della macchina pubblica; (ii) dall'altro, costituisce un vettore di organizzazione razionale dello Stato; (iii) infine, rappresenta il maggiore meccanismo inerziale organizzato con cui lo Stato si difende dall'assalto delle rivendicazioni sociali. In questo senso, lo Stato e la burocrazia possono agitare e giocare l'uno contro l'altro il livello "globale" e il livello "locale", privilegiando ora l'uno e ora l'altro. Quando si tratta di "resistere" a rivendicazioni periferiche conflittuali, si fa perno sui vincoli strategici delle politiche e delle istanze centrali; all'opposto, quando si debbono piegare resistenze ed attriti al centro, si fa ricorso alla mobilitazione dei poteri locali. In questo modo, la macchina organizzata dello Stato risponde alle tendenze alla frantumazione insite nelle spinte localistiche e, nel contempo, trasferisce le sue articolazioni in periferia, attraverso un decentramento che non cede, bensì trasmette potere. Proprio questa complessa fenomenologia tipicamente politico-istituzionale dimostra, con l'evidenza dei fatti, quanto la dicotomia "globale"/"locale" sia mal posta sul piano empirico-organizzativo e illegittima su quello scientifico-analitico. Detto in altri termini, il meccanismo della divisione dei poteri riarticola socialmente la macchina dello Stato, costringendo gli stessi partiti a "decentrarsi" globalmente e localmente. Là dove sembra che i partiti (almeno secondo il concetto tradizionale) siano scomparsi, trasformati come sono in frammenti indiscernibili diluiti nel "sociale" (gli Usa), là questa tendenza raggiunge l'apogeo; là, più ancora che altrove, i partiti sono il "sovrano", in quanto non più semplici e anacronistici "signori delle tessere". Il tipo ideale di "partito" nelle società avanzate tende sempre più ad essere quello del partito che non si vede, ma che c'è e si fa sentire. È questa forma che ora raccoglie e riconverte la dinamica funzionale dei vecchi "gruppi di interessi" e delle vecchie "lobby". Il fenomeno del "trasversalismo" a cui stiamo assistendo in questi ultimi anni, in paesi di relativamente giovane esperienza democratica come l'Italia, costituisce (appunto) l'embrionale traduzione di queste tendenze di "lungo periodo".

Due sono i "modelli culturali" che regolano la vita dei partiti e delle istituzioni nelle società democratiche avanzate: (i) il modello culturale formale: quello che definisce il sistema politico-istituzionale secondo i concetti classici della tradizione democratica; (ii) il modello culturale materiale: quello che regola materialmente forme, strategie, interessi e programmi della macchina statuale e della società politica. Non sempre tra questi due modelli c'è consonanza; anzi, più spesso, regna disaccordo totale. Questo pare particolarmente vero oggi, in piena transizione, come siamo, da un "vecchio" che non si ostina a morire ad un "nuovo" i cui contorni sono estremamente confusi. Regolarmente, il passaggio dal "vecchio" al "nuovo" apre un vuoto culturale, in cui nessuna categoria interpretativa riesce a dare plausibili descrizioni del reale. Ora, questo "vuoto" richiede di essere gradualmente riempito proprio da una intensa vivificazione della "risorsa cultura", se non si vuole che il linguaggio (non solo quello politico) perda totalmente di significanza e lo scarto tra l'"osservatore" e l'"osservato" diventi un baratro.

I campi di tensione che abbiamo appena esemplificato sono molto complessi e altamente problematici: essi richiedono concettualizzazioni e categorie culturali estremamente sofisticate e, insieme, empiricamente verificate, dalla cui "messa in opera" siamo ben lontani. L'insidia maggiore che resta da superare, procedendo in questa direzione, è di triplice ordine: (i) non precipitare nella piatta "fattualità"; (ii) non disperdersi nel limbo etereo delle astrazioni fini a se stesse; (iii) non assiomatizzare un "livello intermedio" in cui tutto "sconfina" e si "ricombina" indistintamente. Come è fin troppo agevolmente intuibile, questa rete tematica richiama problemi teoretici di immane portata. Questi ultimi, a loro volta, si dilatano vistosamente, appena ci si trasferisce alle sfere della "culturologia" e della "futurologia", la cui competenza specifica è proprio quella di interrogarsi intorno a quali "culture" e quali "mondi" stiamo/e si stanno preparando. "Culture multipolari" e "mondi interculturali"; oppure "culture monopolarizzanti" e "mondi monoculturali"? Entro questo contesto magmatico in piena ebollizione che qui, comprensibilmente, non possiamo indagare, il concetto stesso di "cultura" (e, dunque, di "culture locali") e quello di "ordine politico" (nazionale e mondiale) necessitano di ridefinizioni appropriate. Tutto ciò esula dall'orizzonte circoscritto della nostra indagine; ma di esso teniamo debito conto, nell'approssimare le coordinate centrali intorno cui ruotano la storicizzazione e la particolarizzazione dell'analisi. Diciamo questo anche alla luce dell'indubbia rilevanza che la tematica "culturale", "infraculturale" e "interculturale" va assumendo nel rapporto Nord/Sud e nella ridefinizione in corso del nuovo "ordine" (o "disordine"?) europeo e mondiale.

Nell'esame delle "culture locali" e della relazione cultura/istituzioni locali non si può prescindere da una valutazione di questo assieme di tematiche. La cultura, per sua essenza, in tutte le forme di civiltà finora conosciute, ha avuto un rapporto di totale indipendenza dai criteri universali di razionalità variamente formulati: l'atteggiamento umano e il comportamento sociale non sono univocamente e rigidamente determinati dai criteri di razionalità, i quali, per questo, non possono essere in grado di spiegarne esaustivamente la cifra e la consistenza. Ora, le strategie, i programmi, gli obiettivi e le pratiche delle istituzioni sono, in parte cospicua, determinati dalla mutevolezza soggettiva e storica che è tipica dell'atteggiamento umano e del comportamento sociale, le cui componenti culturali sfuggono alla catalogazione del procedimento classificatorio razionale. Come spiegare in termini di fredda razionalità la compresenza, all'interno di una stessa comunità, di un singolo individuo o di una specifica istituzione, di comportamenti "logici" e "coerenti" accanto ad altri "illogici" e "incoerenti"? il ricorso a procedure di intervento di avanzata strumentalità e la sopravvivenza di "rituali simbolici" al confine tra "magico" e "fantastico"? Come spiegare in termini di fredda razionalità, l'esplosione a cui assistiamo quotidianamente, in pieno "tempo post-nucleare", di un immaginario collettivo e personale modellato sull' "orrido" e animato da sorde e oscure "forze selvagge"? Se è vero che occorre riformulare i criteri e le forme di razionalità, è altrettanto necessario affiancare alla "valutazione razionale" l'analisi dell'impatto e della persistenza delle componenti culturali, procedendo anche qui ad un lavoro di ridefinizione e rielaborazione dei concetti e delle categorie interpretative.

Riportare l'attenzione sulla cultura, senza indulgere nel "culturalismo", ha il senso precipuo di riconferire all'analisi politico-istituzionale un profilo aperto, fuori dai codici dell'autoreferenza che tanta responsabilità hanno avuto e tuttora hanno nella grave crisi di legittimazione dello Stato, del sistema politico e dei poteri locali che si para davanti ai nostri occhi. Partendo da qui, sarà, forse, possibile tracciare altre strade e pervenire a soluzioni diverse da quelle che hanno condotto alla presente crisi.

 

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