CULTURE LOCALI/POLITICHE LOCALI

Capitolo I

IL NODO CULTURA/CULTURE LOCALI

 

   

1) Il presupposto da cui muoviamo è il seguente: una comunità umana e un sistema sociale organizzato (micro o macro che siano) non si costituiscono attorno ai criteri di razionalità e alle tecniche strumentali; bensì intorno alle culture. Affermiamo, come punto di partenza, che la cultura è il requisito naturale della comunità umana sin dal suo primo farsi originario e che, allo stesso tempo, essa ha una sua propria intima naturalità (1), che va oltre l'organico, il biologico e la stessa storicità contingente della condizione umana. Per essere ancora più precisi, è grazie alla cultura che la comunità umana associata, il soggetto e l'individuo, dall'inizio alla fine, sono quello che sono e non altro: vale a dire, un genere specifico e assolutamente originale delle specie viventi (2). Insomma, prima ancora che un animale politico e/o un animale simbolico, per esprimersi con il lessico di codificazioni ormai classiche, gli esseri umani sono animali culturali. Il presupposto è anche definibile, in senso lato, come "assunto vichiano", vista la rilevanza assegnata dal grande filosofo napoletano alla cultura, al simbolo e ai miti nella formazione dell'aggregato umano (3).

Che ruolo e rappresentazione delle culture siano rilevabili e osservabili attraverso "costrutti logici" e "decostruzioni mitiche" non significa che esse culture siano terminali di razionalizzazione che partono da "princìpi occulti", da "premesse astratte" o "incomplete" (4). Al contrario, esse conservano in permanenza uno statuto autonomo che non si risolve in alcuna forma di razionalità. Le culture sono alla base della stessa produzione strumentale che, "implementandosi", le modifica, fino al tentativo smaccato di subordinarle ferreamente. La "costruzione della realtà" è, prima di tutto, un "fatto culturale"; un "fatto culturale" ancora più rilevante sono la "percezione" e la "rappresentazione" della realtà". La civiltà greca delle origini si basava proprio su una connessione forte tra forme simboliche e mito, a cui le tecniche erano perennemente subordinate..

La cesura di fondo tra forme di cultura e forme di razionalità, che contempla più di una mera "frattura epistemologica", è che le prime, diversamente dalle seconde, non si preoccupano di ridurre il mondo a unità coerente; il che non fa sottovalutare o, peggio, occultare e cancellare le funzioni di fondazione e coesione proprie dell'"irrazionale". La cesura è altrimenti sintetizzabile, senza che i suoi contenuti essenziali si smarriscano: mentre la cultura è caratterizzata dalla differenzialità, la razionalità è contraddistinta dalla universalità (5); ciò è vero almeno fino all'elaborazione dei paradigmi della "razionalità limitata" di H. Simon (6). Ne discende che il mantenimento della discontinuità tra cultura e razionalità e la loro produttiva messa in comunicazione consentono di: (i) svelare il carattere di falsità di alcuni paradigmi razionali: razionalità apparente che nasconde irrazionalità reale; (ii) smascherare il ruolo corruttore di produzione di "miti estraneanti", tipico della cultura o, almeno, di un certo uso della cultura. Ogni cultura e ogni civiltà ha i suoi miti. Non è certo il "progresso tecnico" ad eliminare la presenza del mito dal teatro dell'azione umana; viceversa, il "progresso tecnico" produce esso stesso i suoi miti che, non di rado, costituiscono il prolungamento modernizzato dei miti dell'età arcaica. In questo senso, il "progresso tecnico" diviene anche un consumatore di cultura; esito, questo, che nessuno, in base a puri princìpi di razionalità, avrebbe mai potuto pronosticare. Nell'epoca del "consumo di massa", perfino il "progresso" consuma cultura: per la precisione, la "cultura dei consumi" e la "cultura di massa".

Il tratto saliente delle società avanzate che più balza agli occhi è la saturazione di segni, di immagini e di simboli che caratterizza la vita relazionale, l'attività pubblica e lo spazio della comunicazione. Al punto che come condizione tipica della contemporaneità è stata indicata l'inflazione simbolica.

Per quel che concerne il nostro oggetto di analisi, dobbiamo subito rilevare che l'inflazione simbolica si incunea come strato divisorio tra luoghi di produzione/espressione della cultura e luoghi e ambiti di permanenza delle "culture locali". Ciò non unicamente nel senso che l'eccesso di simbolizzazione e spettacolarizzazione a cui è pervenuta la civiltà occidentale ricopre con una lavagna nera i segni e i simboli delle "culture locali"; ma in quello, ben più preoccupante, che risulta interrotto il rapporto di trasmissione temporale e spaziale dei canali di formazione delle "culture locali". Stentiamo a reperire i segni e i simboli delle "culture locali" non solo nella massa circolante dei segni e dei simboli massmediati e visualizzati, ma anche (o, forse, soprattutto) negli universi locali in cui tali culture si sono formate e stratificate. Le "culture locali" sono come estirpate proprio dai luoghi in cui sono state create. Da qui un doppio processo di disidentificazione: (i) le culture restano senza luoghi locali; (ii) i luoghi restano senza culture locali. Questa fenomenologia si trasforma in base di formazione di un processo di estraneazione degli "abitanti" rispetto alla "dimora" e della "dimora" rispetto agli "abitanti". Si sviluppa, così, quel sentimento sempre più diffuso, soprattutto nelle comunità interne del Mezzogiorno d'Italia, del "sentirsi straniero a casa propria". Il quale sentimento è una patologia affettiva ben più acuta dell'"essere senza casa".

Il "sentirsi straniero a casa propria" non è solo il prodotto dei processi di "secolarizzazione", "modernizzazione" e "complessificazione" con cui, in particolare, è stato investito il Mezzogiorno d'Italia in quest'ultimo quarantennio (7). Esso dipende, in larga parte, da una caduta di tensione della "produzione intellettuale" (8); da un processo di perdita di autonomia della cultura. Possiamo dire che i processi di modernizzazione del Mezzogiorno siano stati ispirati in dosi rilevanti da una "razionalità tecnologica" che, oltre a neutralizzare gli elementi di conflittualità sociale (9), ha devitalizzato per linee interne le "culture meridionali", cancellate dalla scena, poiché considerate una sopravvivenza arcaicizzante. Se è, in generale, vero che la "cultura di massa" taglia fuori il ruolo e il lascito delle "culture locali", lo è ancora di più nel caso specifico del Mezzogiorno. Non siamo molto lontani dal vero, se definiamo il Mezzogiorno d'Italia come il luogo elettivo della sofferenza delle "culture locali". Esse si pongono qui quale problema, per un duplice ordine di motivazioni: (i) perché ricoperte da stratificazioni di simboli estraneanti, a volte, inestricabili e irremovibili; (ii) perché se ne perde progressivamente il contatto e la consapevolezza. Il recupero e la valorizzazione delle "culture locali" hanno da affrontare queste problematiche basali; soltanto sulla risoluzione di esse può innestarsi un loro rinnovamento.

Nella "cultura di massa" tecnologizzata e visualizzata: "Quello che conta è il valore di scambio, non il valore di verità. Su di esso si impernia la razionalità dello status quo, e ogni forma di razionalità ad esso estranea viene piegata a suo favore" (10). Il valore di scambio della "cultura di massa" ricopre e distorce il valore di verità delle "culture locali". Ma, con questo, la "cultura di massa" si dota di un suo proprio specifico valore d'uso. La teleologia che guida l'uso della "cultura di massa" è esattamente quella di dislocare in un pianeta smorto i valori di verità. In tale pianeta, i valori di verità, quando non vengono evirati e stravolti, sono trivializzati e ritualizzati. Il valore d'uso e il valore di scambio della "cultura di massa" individuano le "culture locali" come delle "controtendenze", in ragione della loro non conformità ai motivi puramente economici, di cui essi sono, invece, il veicolo. Meglio ancora: l'inferiorità gerarchica delle "culture locali" a confronto della "cultura di massa" starebbe, per l'appunto, nel loro carattere di turbativa dell'ordine tecnologico-economico intanto realizzatosi. Secondo i criteri assiologici della modernizzazione, il carattere di verità della cultura starebbe tutto nella relazione di omogeneità da essa intrattenuta con l'ordine economico-tecnologico. Reciprocamente, una relazione disorganica o, peggio, contraddittoria con l'ordine tecnologico-economico sarebbe la prova "scientifica" del carattere di falsità e inattendibilità di una cultura. Con tutta evidenza, per la visione tecnologico-economica del mondo, niente sarebbe più falso e inattendibile delle "culture locali". La razionalità strumentale-calcolistica e la "cultura di massa" esercitano, in questo modo, un ruolo di oppressione della cultura e di incatenamento delle "culture locali". Se il recupero e la valorizzazione delle "culture locali" rivestono un carattere di necessità è proprio perché queste, sotto l'urto della "cultura di massa" e dell'ordine tecnologico-economico, vengono precipitate nella condizione dell'assenza. In quanto assenti, esse tendono ad essere anche ammutolite: il silenzio tombale diviene il loro contrassegno principale e, nel contempo, il motivo principale in forza di cui vengono alla luce come problema da individuare, descrivere e avviare a soluzione.

 

2) Per una migliore definizione del nostro oggetto di ricerca, diviene, a questo punto, necessario prendere in considerazione le mosse terminali del millenario processo destrutturativo a cui sono state sottoposte le culture locali, cercando di delineare i contesti storici e culturali entro cui esse sono venute maturando.

Possiamo delineare una successione temporale di "lunga durata" che spazia dai codici razionali dello Stato e della modernità a quelli dell'industrialismo diffuso. Nel passaggio dalla fondazione moderna dello Stato alla formazione della fabbrica taylorista-fordista sussistono non poche e non lievi fratture. Nondimeno, così come si è andata configurando storicamente e politicamente nelle sue linee generali di scorrimento, tale transizione ha stratificato un'erosione costante e progressiva delle componenti generatrici di cultura proprie dell'individuo e della comunità.

Nei modelli culturali e nei paradigmi scientifici vigenti, le forme della razionalità, nella loro mutevolezza ed evoluzione, sono divenute, ben presto, sinonimo di cultura. I codici esterni alla razionalità sono stati lentamente svuotati di significanza socio-simbolica e, addirittura, linguistica. Le unità razionali sono state assunte come unità della cultura, fino al punto che l'essere umano medesimo è stato postulato come essere interamente ed esclusivamente razionale: portatore di cultura, in quanto centro generatore di razionalità.

Questi codici possiamo reperirli in azione sin dal primo contatto della cultura europea con popoli e culture definiti (non a caso) primitivi e/o selvaggi. La "scoperta" dell'America del XV secolo è stato il primo passo significativo di questo itinerario, non concluso ancora oggi. Anzi, la proliferazione attuale di inquietanti fenomeni di razzismo testimonia quanto e come questo processo di neutralizzazione culturale sia lungi dall'essersi concluso o placato.

Interi sistemi concettuali interpretativi e definitori sono stati mutilati: lo Stato, da un lato, e la scienza, dall'altro, hanno acquisito il ruolo di due metacodici classificatori e comunicativi, al di sopra di cui niente sarebbe ipotizzabile ed esperibile e al di sotto di cui regnerebbe soltanto un'epoca primitiva, rozza e selvaggia.

Non si vuole qui denegare il "portato di civiltà" collegato alla costituzione dello Stato e alla fondazione della scienza moderna. Anche i maggiori detrattori dello Stato (moderno) debbono riconoscere che esso è valso a superare un'epoca asperrima di guerre, in cui l'arbitrio era contestuale all'insicurezza dei singoli e delle comunità, in un generale clima di illibertà.

Anche i maggiori denigratori della scienza debbono ammettere che, dalla rivoluzione copernicano-galileiana in avanti, essa ha contribuito a introdurre preziose partizioni tra diverse e distinte branche del sapere umano; partizioni e sviluppi che sono alla base dell'elevamento della qualità della vita dell'uomo moderno e dell'uomo contemporaneo.

Quello che vogliamo qui mettere in discussione è l'uso universalizzante che dei codici dello Stato e della scienza è stato fatto; un uso culturalmente improprio e politicamente abnorme: totalizzante, quando non totalitario.

Sapir, in una pionieristica indagine di antropologia culturale del 1924, ha acutamente parlato di fallacia culturale dell'industrialismo fordista (11). La rilevazione è corretta, anche perché alla base della modernità e del passaggio alla contemporaneità ha operato la fallacia culturale dei miti assolutizzanti della razionalità. Il codice assoluto della razionalità e dello Stato dà luogo a effetti destabilizzanti: a misura in cui estende la sua presa totalizzante, tutto ciò che è risucchiato nelle sue ventose viene spossessato della sua autonomia e della sua integrità. Quanto più le unità razionali e statuali si universalizzano, tanto più le differenzialità etnico-culturali tendono ad essere rimosse coercitivamente. L'alternativa estrema a questo processo di uniformazione etnico-culturale è: o l'assimilazione o la ribellione assoluta. In realtà, si tratta di una pseudo-alternativa, poiché sia l'opzione assimilativa che quella ribellistica, in tali condizioni, sono votate allo scacco atroce della perdita delle radici culturali della propria identità originaria. Sta qui la profonda differenza tra il programma di contaminazione delle identità, guidato dall'alto, proprio della "pax romana" e l'ordine assoluto dello Stato razionale e della razionalità assoluta che si fa potere, in una progressione che va dal Leviatano di Hobbes alla virtualità assoluta della razionalità informatica.

Più di mezzo secolo fa, Sapir ha avuto modo di osservare: "Le nostre unità politico-nazionali sono troppo piccole per la pace e troppo grandi per la sicurezza. Sono troppo piccole per l'intelligente soluzione dei vasti problemi nella sfera dei fini diretti e troppo grandi per il fecondo arricchimento dei fini più remoti, per la cultura" (12). L'acculturazione pilotata dallo Stato moderno e dalla razionalità scientifica si è, in pari tempo, configurata come una de-culturizzazione, estirpando ovunque le radici delle culture "altre", non rientranti nei paradigmi dell'ufficialità canonizzata e ritualizzata. La formazione dello Stato nazionale ha, sì, consentito di superare i particolarismi e le dispersioni del mondo medioevale; ma ha spezzato la comunicazione interna tra le componenti etniche della nazionalità, incoraggiando, invece, l'assimilazione. Al tempo stesso, la comunicazione esterna tra le nazionalità si è posta nei termini della competizione internazionale tra Stati sovrani, per l'assunzione del comando nell'ordine mondiale, che ha trovato nella guerra il mezzo risolutivo più efficace.

Alla formazione degli Stati nazionali moderni non si è giunti col concorso paritario e libero di tutte le etnie e le culture presenti nel gioco interattivo dell'identità nazionale, ma attraverso la progressiva affermazione del "dominio" della/e etnia/e più forte/i (13). Il che, replicando e innovando un "gioco" antico, ha condotto ad un assoggettamento, o quanto meno ad una pesante devalorizzazione, delle etnie e delle culture più deboli, il cui ruolo di emancipazione, di libertà e liberazione è stato completamente negato. Ne è derivato un ciclo di cruente insorgenze etnico-nazionalistiche che si prolunga fino al presente.

Così, tanto per fare un esempio, la soppressione della lingua osca, per effetto della vittoria romana nella guerra sociale, ha trovato il suo equivalente, in epoca contemporanea, nella soppressione dei dialetti: nel primo caso, registriamo il passaggio dall'osco al latino; nel secondo, dal dialetto alla lingua. Il dialetto, in questo modo, perde la sua dignità di lingua, per essere classificato come un prodotto sub-culturale.

Il processo dell'unificazione italiana, applicando su vasta scala, con qualche secolo di ritardo, i codici assoluti della razionalità e della statualità, è stato il punto di innesco a partire da cui l'acculturazione e la deculturizzazione hanno meglio lubrificato i loro congegni. Il fenomeno non è stato bloccato dal fascismo che, anzi, ha ulteriormente spinto nella direzione del soggiogamento delle culture e delle etnie locali, privilegiando una identità nazionale costruita in astratto, in ossequio ai miti di quella "italianità" partorita dalla cultura, dall'ideologia e dalla propaganda del regime (14). Ma è con lo sviluppo capitalistico degli anni '50 e '60 che la deculturizzazione delle etnie e delle culture minori raggiunge l'apogeo. In particolare, ne fa le spese il Mezzogiorno; ma anche vaste aree del Nord sono colpite dal fenomeno (15). Il passaggio dal dialetto alla lingua è venuto, così, configurandosi, per il mondo rurale-contadino e per le classi subalterne in generale, come perdita di identità e acculturazione negativa che, insieme, hanno disegnato i contorni di un processo profondissimo di destrutturazione culturale e psicologica (16). Ne è uscita sovralimentata la decadenza dei modelli di cultura regionale e locale; fenomeno rilevato anche in aree nazionali assai lontane e diverse, per tradizione, storia e cultura, dal Mezzogiorno e dalle stesse aree italiane nord-orientali (17). Ma questo processo di universalizzazione del discorso della lingua e del "globale", a danno del dialetto e del "locale", non ha proceduto senza incontrare e suscitare resistenze; senza intenzionare delle vere e proprie controtendenze culturali, fin dagli anni '50 e '60. Proprio la dilatazione del mondo a misura del "villaggio globale" mcluhaniano crea, per contrasto, un bisogno di riconduzione al localismo: come il "locale" rifà irruzione nel "globale", così il dialetto riaffiora alla superficie della lingua. Nel corso degli anni '50 e '60, le avanguardie artistiche fanno propria la geniale lezione anticipatrice di C. E. Gadda, elevando il dialetto a dignità di lingua. Anzi, il dialetto diviene uno dei tramiti privilegiati degli sperimentalismi estetico-testuali, ben oltre le poetiche e le estetiche del realismo e del neo-realismo (18). Quale strumento di riconoscimento, il dialetto diviene un mezzo di identificazione e di conservazione dell'autonomia culturale (19). Uno strumento critico, dunque, e non soltanto un segno di appiattimento localistico; un canale dialogico, dunque, e non soltanto un diaframma comunicativo.

Il dialetto come codice comunicativo, rappresentativo ed espressivo riveste un ruolo essenziale, non meno della lingua. Come la lingua, contribuisce a costituire la struttura di base su cui si erigono "visione del mondo", "comportamenti", "mentalità" (20). Se la cultura ha rilievo per il suo decisivo rapporto col tempo, il suo ininterrotto fluire in avanti e i "cicli della rimembranza", altrettanto centrale è la relazione che il dialetto intesse col tempo. Il dialetto arriva là dove la lingua non può e non sa: dove la lingua è pietrificata e immemore, là il dialetto è vivo e ci parla dell'arcano originale. Non ci fa tuffare semplicemente nel tempo; piuttosto, ce lo presentifica, mostrandocene le tracce. Non ci getta come ostaggi indifesi nelle spirali del passato; piuttosto, ci mette in dialogo con le sue speranze e le sue angosce. Non ci nega l'accesso al futuro; piuttosto, ci riconsegna a tutte le sue possibilità, senza più smarrire i nostri arcani luoghi originari. Ed è qui che il dialetto svolge un ruolo eminentemente e genuinamente culturale, contro la "fabbrica culturale". Facevano osservare Horkhheimer ed Adorno, in uno dei testi che più hanno segnato quest'ultimo mezzo secolo: "Non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze. Mentre oggi il passato continua come distruzione del passato" (21). La riscoperta e la rivitalizzazione del dialetto possono offrire un enorme contributo per porre termine a quest'opera di distruzione e cancellazione del passato, delle sue culture e delle sue identità, degli uomini e delle donne che, tra fatica e speranza, lo hanno costruito. Porre un argine solido alla distruzione del passato e, con esso, del tempo significa anche porre un termine all'azione di destrutturazione delle culture locali. Per far questo, occorre riaprire il dialogo col tempo e con gli esseri che lo hanno abitato, abitano e abiteranno. Tale opera è di impossibile attuazione, se non si riaprono le ferite che gli esseri umani, nel corso del loro affannoso dimorare, hanno inflitto proprio al tempo e ai loro simili. Aprire queste ferite vuole dire riascoltare voci che troppo crudamente sono state ammutolite, decifrare il loro messaggio e dare giustizia alle loro attese.

 

Note

(1) In una direzione di ricerca simile, ma non sempre convergente (anzi) con il nostro assunto, cfr. G. Prodi, La cultura come ermeneutica naturale, "Intersezioni", n. 1, 1988; dello stesso autore è da vedere il lavoro, in un certo senso propedeutico, La storia naturale della logica, Milano, 1982. Molto in generale, la prospettiva entro cui ci muoviamo criticamente è quella aperta dall'indirizzo antropologico in ambito anglo-sassone, intorno agli anni Venti e Quaranta, da allievi (critici) di Franz Boas, di cui qui citiamo solo i nomi di E. Sapir, A. L. Kroeber e Ruth Benedict.

(2) Sin troppo chiare sono le divaricazioni tra questo "punto di vista" sulla cultura e le ermeneutiche, in proposito, elaborate dall'idealismo, dal marxismo, dal positivismo, dallo strutturalismo, dal funzionalismo, ecc.; senza, qui, entrare nel merito del discrimine originario tra la posizione etnografica/etnologica e la posizione antropologica. Il discrimine, a dire il vero, nel corso del tempo, è andato attenuandosi. "L'antropologia delle società complesse", p. es., non è in un rapporto di collisione frontale con l'etnografia. Particolarmente, per le tendenze dell'antropologia americana tra anni '80 e '90, l'etnografia diviene un oggetto di "analisi interna": cfr. B. Palumbo, Immagini del mondo. Etnografia, storia e potere nell'antro-pologia statunitense contemporanea, "Meridiana", n. 15, 1992, alla cui bibliografia si rimanda. Per la ricostruzione degli "schemi originari" entro cui è stato variamente inserito il concetto di cultura, si rimanda alle opere citate alla successiva nota n. 4.

(3) Cfr. G. B. Vico, La scienza nuova, 2 voll. (a cura di F. Nicolini), Roma-Bari, 1974.

(4) Un punto di vista contrario è coerentemente argomentato da E. Morin, in un'opera, per il resto, di grande interesse: Pour sortir du vingtième siécle, Paris, 1981, p. 102. Un primo esaustivo esame dei differenti "concetti" dentro cui la cultura è stata incasellata si può compiere, consultando le seguenti opere: R. Benedict, Modelli di cultura, Milano, 1960; P. Rossi (a cura di), Il concetto di cultura. I fondamenti teorici della scienza antropologica, Torino, 1970; A. L. Kroeber-C. Kluckhon, Il concetto di cultura. Rassegna critica di concetti e definizioni, Bologna, 1973; M. Harris, L'evoluzione del pensiero antropologico. Una storia della teoria della cultura, Bologna, 1973; A. L. Kroeber, La natura della cultura, Bologna, 1974; A. L. Kroeber, Antropologia dei modelli culturali, Bologna, 1976 (si tratta di una raccolta di saggi tratti dall'opera innanzi citata); E. Leach, Cultura/culture (voce), Enciclopedia Einaudi, Torino, vol. IV, pp. 238-270, 1978; B. Valade, Cultura, in Trattato di sociologia (a cura di R. Boudon), Bologna, 1997; Wendy Griswold, Sociologia della cultura, Bologna, 1997.

(5) Sull'argomento, anni fa, si è soffermato R. Bodei, L'unità della ragione nella molteplicità delle culture, "Problemi del socialismo", n. 3, 1989.

(6) Cfr. J. G. March-H. A. Simon, Teoria dell'organizzazione, Milano, 1966 (ma 1958). Sul punto, si veda M. Crozier-E. Friedberg, Attore sociale e sistema. Sociologia dell'azione organizzata, Milano, 1978; segnatamente, pp. 221-226.

(7) Per la delineazione delle linee di questo processo, si rinvia ad Associazione culturale Relazioni, Dall'emergenza allo sviluppo? Stato e sistemi locali nell'industrializzazione post-sismica della provincia di Avellino, Avellino, 1990 e alla bibliografia ivi richiamata.

(8) In un testo assai famoso, ma probabilmente studiato con scarsa attenzione, Herbert Marcuse ha incluso il fenomeno in un più complessivo processo di "desublimazione repressiva": cfr. L'uomo a una dimensione. L'ideologia della società industriale avanzata, Torino, 1967, pp. 75-101.

(9) Sul punto, cfr. alcuni importanti lavori di R. Catanzaro: Note sulla carenza di conflittualità e di azione politica nel Mezzogiorno, "Inchiesta", n. 57, 1982; Struttura sociale, sistema politico e azione collettiva nel Mezzogiorno, "Stato e mercato", n. 8, 1983; L'assenza di azione collettiva nel Mezzogiorno, in C. Carboni (a cura di), Classi e movimenti in Italia. 1970-1985, Roma-Bari, 1986. Ma più in consonanza con l'asse di analisi qui seguito cfr.: A. Chiocchi, Il filo e la trama. Culture, identità e codici politici nel Mezzogiorno, Mercogliano (Av), Associazione culturale Relazioni, 1997, reperibile sul web all' indirizzo: http://asscultrelazioni.freeweb.org/Profili.html; Dal Sud. Materiali informali sul rapporto cultura/Mezzogiorno (a cura di A. Chiocchi), monografico di "Società e conflitto", n. 19-22, 1999/2000, reperibile sul web: http://societaetconflitto.freeweb.org/1999-2000.html.

(10) H. Marcuse, op. cit., p. 76.

(11) E. Sapir, Culture, Genuine and Spurious, "American Journal of Sociology, XXIX, 1924. Una prima traduzione del lavoro è comparsa in A. Pagani (a cura di), Antologia di scienze sociali, Bologna, 1960. Successivamente, col titolo Cultura genuina e spuria, è stato ricompreso in E. Sapir, Cultura, linguaggio e personalità, Torino, 1972.

(12) E. Sapir, op. cit., p. 312, corsivi nostri; citiamo dall'antologia curata da A. Pagani.

(13) Per un'indagine del ruolo delle etnie e delle nazionalità nella formazione e nel consolidamento dello Stato moderno, da diverse angolazioni di lettura, cfr. A. Melucci-M. Diani, Nazioni senza Stato. I movimenti etnico-nazionali in occidente, Torino, 1983, Milano, 19922; D. Petrosino, Stati, nazioni, etnie, Milano, 1991; A.D. Smith, Le origini etniche delle nazioni, Bologna, 1991 (ma 1986); Id., National Identity, London, 1991. Per una recente rassegna critica sul concetto di "nazione", cfr. la rubrica "Materiali per un lessico politico europeo: "Nazione", in "Filosofia politica", n. 1, 1993, con i seguenti interventi: M. Barberis, Quel che resta dell'universale. L'idea di nazione da Rousseau a Renan; S. Chignola, Quidquid est in territorio est de territorio. Nota sul rapporto tra comunità etnica e Stato-nazione; G. E. Rusconi, Ripensare la nazione. Tra separatismo regionale e progetto europeo.

(14) Sul carattere anti-autonomistico del regime fascista, cfr. E. Rotelli, Le trasformazioni dell'ordinamento comunale e provinciale durante il regime fascista, in S. Fontana (a cura di), Il fascismo e le autonomie locali, Bologna, 1973; Idem, La legge comunale e provinciale fascista e la sua fortuna, "Esperienze amministrative", n. 3-4, 1973.

(15) Cfr. per tutti, U. Bernardi, Una cultura in estinzione, Venezia-Padova, 1975; si tratta di una ricerca in un'area padano-veneta.

(16) Così si esprime con efficacia L. M. Satriani, Relazione inaugurale al IX Congresso del Centro per gli studi dialettali italiani, Università di Lecce, 28 settembre-1 ottobre 1972, p. 17.

(17) Cfr. C. Grassi, Dialettologie et aménagement du territoire, Comunicazione presentata al XII Congresso Internazionale di Lingue e Filologie romanze, Québec, 29 agosto-3 settembre 1971.

(18) Su questo complesso di nodi, cfr. il bel libro di Maria Corti, Il viaggio testuale, Torino, 1978.

(19) U. Eco rilevò il fenomeno in un'intervista concessa a "Il Giorno", 14 febbraio 1974; anche se, poi, inquadrò il fenomeno nell'esigenza di un "processo di riprovincializzzazione", quale critica della dimensione planetario-apocalittica assunta dal "villaggio globale".

(20) Su questa scansione specifica del linguaggio, in generale, cfr. il classico B. L. Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà, Torino, 1970.

(21) M. Horkheimer-T.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, Torino, 1974, p. 4; corsivi nostri.