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GUNS OF THE TREES

 

Come abbiamo visto attraverso l’analisi della messa in scena, Guns of the Trees è composto per la maggior parte da un collage di inquadrature il cui senso si può dire più simbolico che narrativo.

Le immagini riprese sembrano non avere lo scopo di narrare una storia, ma sono i tasselli che compongono un discorso più profondo, che “tenta di penetrare le regioni della poesia”, e  che probabilmente si sarebbe banalizzato se fosse stato raccontato seguendo canoni  realistici classici.

Dal un punto di vista dell’universo diegetico il narratore implicito onnisciente di questa storia denota la propria presenza apparendo all’inizio e alla fine del film. La figura del regista, inquadrata in un luogo che più avanti verrà abitato da uno dei protagonisti, permette di presentare la storia quale resoconto di un documento reale. Questa tecnica è sottolineata dai numerosi P.P. in macchina di alcuni attori, quasi a voler significare che ciò che stiamo vedendo non è un film ma una storia vera.

La focalizzazione è  esterna ma l’uso di continui flash-back riferibili a Gregory, determinano l’ulteriore figura di un narratore intradiegetico il quale permette di far conoscere al pubblico la figura di Frances.

I flash-back  sono inoltre contestualizzati dalla voce della protagonista che attraverso brevi dialoghi ci permette di capire il perché del proprio suicidio.

Guns of the Trees girato interamente in bianco e nero e con una cinepresa mobile, non contiene movimenti di macchina particolari; tolti alcuni  interessanti piani  sequenza, nei quali Mekas segue la tecnica di prevenire l’azione dell’attore, anticipando ogni suo spostamento ed inquadrando un luogo prima che questi  lo raggiunga, ed alcuni primi piani di visi che guardano volutamente in macchina, il resto delle inquadrature è praticamente improvvisato.

Le scene più realistiche sono  quelle di protesta girate seguendo la tecnica documentaristica del reportage giornalistico: riprendendo da varie altezze ed angolature Mekas si è posto in mezzo alla folla, sottolineando in modo inequivocabile la propria posizione nella lotta contro il sistema.  Questi intermezzi sono inoltre accompagnati dalle inquadrature di cartelli, tenuti dai manifestanti, che denotano lo scopo antimilitarista della protesta.

 Le scene invece più simboliche ed irreali (e quindi diremo le più poetiche) sono quelle dei mimi. Esse sono composte da  tre sequenze poste una all’inizio, una durante il periodo di pazzia di Gregory, ed una alla fine del film; le immagini rappresentate nella prima e nell’ultima sequenza sono quelle di due mimi, in un campo, che si strappano di mano un cavolo e piangono. La loro funzione simbolica è alquanto ermetica, ma dal momento che in entrambi i casi vengono sempre correlate alla figura di Gregory, avranno sicuramente lo scopo di enfatizzare le sue azioni o i suoi pensieri più negativi.

Per quanto riguarda la scena di mezzo essa viene vista attraverso gli occhi dello stesso protagonista: i due mimi questa volta parlano e si presentano dicendo di essere uno “l’uomo eterno” creatore di coloro che vivono di passioni (I generali, i presidenti), e l’altro “la donna eterna” madre degli anonimi e degli scialbi. Anche in questo caso essi escono di scena  piangono.

Dal punto di vista narrativo la scena della protesta con  tutto il suo realismo, ha la funzione di documentare la realtà superficiale della vita di un gruppo di giovani attivisti,  la scena dei mimi invece, nella sua poeticità tenta di andare più in profondità, nell’animo di questi, per scovarne le verità più profonde, e le paure più nascoste.

 Da un punto di vista strutturale, Guns of the Trees può considerarsi un film basato esclusivamente sulla tecnica di montaggio, sia di tipo visivo che sonoro.

 Mai improvvisato,  sempre studiato e preciso, il montaggio in questo film ha una sua prima e più evidente scansione nell’uso delle “quindici”  inquadrature a “schermo bianco” che dividono l’intero film in altrettante sequenze.

Nella nostra analisi abbiamo preferito dividere il film in tredici parti dal momento che in due casi le inquadrature a schermo bianco dividono una sola battuta riferibile alla scena precedente o seguente.

In questo film non esiste una scansione temporale dichiarata e lineare e sebbene in alcune scene sia giorno ed in altre sia notte non sappiamo mai in che momento della storia ci troviamo. I continui montaggi alternati di brevissime scene ricorrenti e  l’uso di  continui flash-back, aumentano le difficoltà di comprensione del testo. 

La scene in flash-back che riguardano il periodo in cui Frances era ancora viva hanno la funzione da una parte di relazionare fra di loro i vari personaggi, e dall’altra costituiscono il filo conduttore tematico e simbolico dell’intera storia. Esse scaturiscono per la maggior parte delle volte dalla mente di

Gregory caratterizzandosi dunque di un significato di  riferibile, sofferenza ed incomprensione.

Mentre il tempo come abbiamo detto non possiede nessuna importanza i luoghi rappresentati in questo film hanno la funzione precisa di enfatizzare le emozioni e le azioni dei personaggi.

I posti chiusi e ben delimitati da pareti bianche ed anonime, come la stanza di Mekas e Gregory, il posto di lavoro di Argus e di Ben sono scelti per aumentare il senso  claustrofobico ed alienante che investe questi personaggi in date situazioni. I luoghi aperti e spaziosi, in cui i personaggi vengono sempre ripresi in campi lunghi o medi, fanno risaltare invece la loro solitudine e la loro insicurezza. Attorno a tutto questo regna la figura della natura, esile e sparuta nelle sembianze dell’alberello che spunta dietro le sbarre di una finestra, sconfinata e vuota nei campi attraversati dai mimi, e maestosa e buia nella penultima scena della foresta. Ma la natura è anche da una parte la pioggia che bagna una New York, vuota e sporca, quasi volesse lavarla da tutti i suoi problemi, e dall’altra parte il sole, accecante e forte a cui il protagonista non riesce a resistere.

I personaggi di questo film sono costruiti in funzione di un messaggio politico e sociale ben preciso: essi non creano gli eventi, ma ne subiscono gli effetti diventando il mezzo attraverso cui esprimere le varie opportunità di scelta di vita. C’è Frences (Frences Stillman) che conscia di non poter avere un futuro ha scelto di morire, prima che qualcun altro lo facesse per lei. C’è Gregory (Adolfas Mekas) che rimasto solo non fa altro che cercare di dare un significato alla morte dell’amica. Il suo personaggio rappresenta il mezzo attraverso cui denunciare il reale stato sociale in cui vive l’America del 1960.  Egli non riesce “ad aprire gli occhi”, è solo, ma anche quando sta con Frances  non comunica, è indeciso e non riesce a comprendere il perché stia succedendo tutto ciò.

Contemporaneamente ci sono anche Ben (Ben Carruthers) e Argus (Argus Speare Jiulliard): entrambi possiedono una coscienza morale attiva, capiscono che c’è bisogno di fare qualcosa, ma a differenza dei primi, hanno bisogno di credere in un futuro e trovano proprio nella coppia la forza per continuare. Essi comunicano, insieme sono felici e spensierati, e solo quando si ritrovano soli hanno dei momenti negativi, ma di nuovo ritornano una coppia e tutto passa.

Oltre a questi, nel film appaiono altri personaggi, la cui funzione è sostanzialmente simbolica: prima di tutto c’è la presenza dello stesso regista, la cui  partecipazione sembrerebbe essere introduttiva.

Ci sono poi i mimi (Sterling Jensen e Jewel Walker), il monaco (Frank Kuenstler), l’assistente sociale (Leonard Hicks), la madre di Frences (Sudie Bond), la figura del soldato, ed inoltre dei piccoli cammei di amici di Mekas (George Maciunas,  Louis Brigante, Barbara Tucker) . Tutte queste figure possiedono un significato altamente simbolico: come abbiamo già visto i mimi  rappresentano la figura dell’uomo e della donna eterna creatori, o distruttori, dell’umanità.

La figura del monaco rappresenta invece simbolicamente “la fede”, che può essere attribuita solo alla religione o, più in generale,  alla speranza  verso un futuro sconosciuto, ma migliore; mentre l’assistente sociale invece costituisce la parte razionale dell’umanità: egli non si sforza di trovare una risposta ai problemi del protagonista, ma  cerca solo di analizzarne le cause. Se dunque il primo rappresenta l’ultima strada verso la comprensione, quest’ultimo è solo la superficie di tutte le incomprensioni.

Il sonoro di Guns of the Trees  costituisce la parte principale dell’intera struttura narrativa ed oltre a possedere una funzione classica di sottolineare o denotare alcune immagini, in questo caso acquisisce pure una funzione simbolica. Esso si esprime attraverso diverse strutture verbali che vanno dai semplici rumori di strada, a voci fuori campo, a poesie create appositamente per quest’opera e che in generale alterano il significato delle immagine rendendole più incisive ed enfatizzandole.

In realtà i rumori reali registrati in presa diretta sono pochissimi, per la maggior parte delle volte infatti le immagini sono accompagnate in sottofondo da una strana musica creata distorcendo una nota e portandola a livelli altissimo. Questo tipo di rumore, insistente e fastidiosi accompagna scena di tensione. Le proteste sono caratterizzate da suoni particolari come il latrato di un cane, una sirena antiaerea, ed il pianto di un bambino. Il pianto, questa volta di due adulti, caratterizza anche le scene dei mimi.

Le musiche vere e proprie sono quelle popolari  suonate con chitarra e violino, che non sempre riprodotte integralmente accompagnano momenti gioiosi o di festa:  “Il canto del ricevimento”, la canzone “Vado in città”,  la ballata popolare intitolata “Le 900 miglia”, “La ballata del bar”, il canto popolare “Andando verso”, ed infine quelle create appositamente per i personaggi come “La canzone di Argus e Ben” e “La canzone di Argus”.

Il resto del sonoro è costituito  da una lettera, scritta e letta da Frances, da numerose ed enigmatiche affermazioni e da  dialoghi, spesso senza senso ed ermetici, che vengono quasi sempre pronunciati fuori campo o fuori sincrono.

In tutto il film vi sono anche otto poesie scritte e lette da Allen Ginsberg, uno dei poeti vate della beat generation; egli aveva come “numi tutelari” Walt Whitman, Herman Maville, William Black e William Carlos Williams (gli stessi di poeti preferiti da Mekas) e lanciava il proprio “urlo” (Howl) contro tutte la sofferenze provocate dall’errata politica sociale degli Stati Uniti d’America.

Il suo rifiuto di ogni controllo intellettuale comune a tutta la beat  viene espresso da Ginsberg attraverso una poesia che è anche prosa, ricca di energia ed immaginazione, composta da “versi magici” che provengono dallo spirito. Fra le opere più famose vengono citate Howl, dedicata alla pazzia di Carlos

Solomon di cui Mekas inquadra pure alcuni versi  e, Il Girasole con cui si conclude il film.

  Guns of the Trees ebbe la sua anteprima mondiale, nel 1961, al New American Cinema Exposition di Spoleto (organizzato dallo stesso Mekas con lo scopo di presentare in Europa il lavoro dei film-makers indipendenti americani), mentre un anno dopo, nel 1962, vinse sempre in Italia, il primo premio al Festival di Porretta Terme.

La “Mostra internazionale del cinema libero di Porretta Terme”, istituita nel 1960, fu una dei primi e più importanti trampolini da cui partirono in Italia un po’ tutti i film Underground. Con la vittoria nel ’61 di Guns of the Trees, infatti questo neonato genere incominciò ad avere un certo seguito, e a collezionare consensi in tutta Europa. Come dice la stessa denominazione, questo festival si prefiggeva di creare una nuova istituzione pubblica, libera da ogni convenzione, ed in grado di mostrare altrettante opere sperimentali e libere.

Tra le poche recensioni dell’epoca sappiamo che Guns of the Trees fu  apprezzato soprattutto per questa sua caratteristica “libertà”:

Guns of the Trees, il film-poeta che ha vinto meritatamente il festival, può essere inserito in un filone cinematografico “libero”. (...) Cinema libero vuol dire tutto e niente. Vuol dire libero dall’ingerenza di una produzione canonizzata (Guns of the Trees ne è la prova) ....”[1]

“C’est donc dans la logique de ce Festival que la grand prix ait été remporté par l’outsider americain, Guns of the Trees, da Jonas Mekas. Protestataire, rageur, rabeur, ambigu, ce film evoque avec une complaisance et un esthetisme par moments irritants l’etat de revolte et de prostration qui est celui de la jeunesse americaine dont les porte-parole sont Allen Ginsberg, Corso et Cie.

Entendons-nous, si ce n’est pas un film “nouveau”, c’est tout de meme un film “libre”.”[2]

Ma fu anche accusato di essere troppo elitario:

“... il nostro dissenso _ (nei riguardi degli scopi della mostra)_ si esprime principalmente nei confronti della premiazione e dell’entusiasmo _acritico, con rare eccezioni e aspetta accennata responsabilità di limiti_ tributati ad un film come Guns of the Trees (I fucili degli alberi) di Jonas Mekas. Ci preme  premettere una considerazione fondamentale che i nostri obiettori, i difensori di tali “ribelli senza ideali” (e in ultima analisi without cause) paiono trascurare: “cinema libero”, “cinema nuovo” significano anche cinema popolare, cinema fatto per il popolo o almeno a esso accessibile (sia pure a vario strati): e non cinema fatto da un’élite intellettuale (si fa per dire) e rivolto alla tradizionale élite di spettatori sofisticati.”[3]

 Sempre in questa occasione fu recensito da Alberto Moravia sul giornale ”Espresso” dell’8 luglio, in un articolo intitolato “Un film sperimentale: Mekas urla contro il mondo.”

“Prima di tutto questo film non vuole raccontare una storia bensì lanciare un urlo di protesta; in secondo luogo la cosa contro la quale esso protesta è il mondo moderno e più precisamente il mondo moderno come si presenta in questi anni con il boom neocapitalista, la bomba atomica, le grandi corporazioni statunitensi, Cuba, la corsa agli armamenti e via dicendo. Jonas Mekas sarebbe insomma qualcosa di simile agli arrabbiati britannici. Forse si potrebbe chiamarlo  “beat”, ma sarebbe in tutti i casi un “beat” che rifiuta le scappatoie mistiche e zen di scrittori come Kerouac o Slinger e che si “impegna” come già facevano gli esistenzialisti.”

“Il film di Jonas Mekas non ha niente di teatrale, non è una storia o narrazione, non ci presenta immagini che abbiano un particolare valore formale e rassomigliano invece moltissimo alla poesia moderna, specie a certa poesia angloamericana posteriore a Eliot e Auden. Che vediamo in questa poesia? Vediamo un procedere per situazioni verbali evocative e suggestive apparentemente slegate e oscure, in realtà riunite e illuminate dal nesso d’un tema assai semplice e lineare, per lo più concettuale.”

“Le immagini che esso ci presenta, illogiche, vagabonde e slegate, potrebbero sembrare assurde se non fossero invece oltremodo leggibili grazie al tema sempre chiaro ed esplicito.”

 

“Qual è il tema di  “Guns of the Trees”? (...) In senso lato, il tema diventa: perché ci si uccide? Il film non racconta nessuna storia, non ci fa neppure assistere al suicidio di Frances, si limita a mostrarci i vagabondaggi a New York e in campagna, di notte e di giorno dei due personaggi maschili, il negro e il barbuto. Attraverso questi vagabondaggi emerge la risposta molto chiara: Frences s’è suicidata, ci si uccide perché il mondo moderno, dominato dal denaro e dalla volontà di potenza costringe al suicidio. Morale: bisogna cambiare il mondo moderno.”

“Il pericolo di un film come questo è di cadere nell’informe: più volte viene fatto di pensare che avrebbe potuto essere indifferentemente più lungo o molto più corto. D’altra parte con questa idea dell’urlo di protesta siamo ad un pelo dall’eloquenza. Mekas se ne salva grazie soltanto ad una costante allusiva, ad un ritmo incalzante e doloroso. Il film dunque si segue con interesse piuttosto per il suo calore poetico e umano che per la bellezza isolata di molte delle sue immagini. La sua innegabile sincerità ci fa dimenticare alla fine quanto di ingenuo e d’inespresso esso contiene.  A dare quest’impressione di sincerità e libertà espressiva contribuiscono pure con la loro recitazione i bravi attori (...).“[4]

Gus of the Trees ebbe la sua prima newyorchese nell’agosto del 1961 durante una serata ad inviti tenutasi al Bleecker Street Cinema; le prime proiezioni pubbliche avvennero invece presso Cinema 16, ai primi di Dicembre.

La reazione della stampa  fu in generale negativa:

“In Film Quarterly, Ernest Callenbach called Mekas’s film “sophomoric”. Cecile Starr, who describe it in her New York letter for Sight and Sound, reported that “for most people” Guns of the Trees is “nearly unbearable”.

Dwight Macdonald was genially dismissive, writing in Enquire “all that is spontaneous in Pull my Daisy is selfcounscious here; Ginsberg is inferior to Kerouac as a narrator because he really is rhetorical while Kerouac is mock-rhetorical; here Ginsberg alternates with folk songs, the last refuge of the American left; he is too pompous and they are too simple” (Macdonald 1969, 318-319). At bit later, Pauline Kael weighed in in The Massachussetts Review, digressing from an attack on Last Year at Marienbad to term Mekas’s film “enbarassingly paranoid” (Keal 1966, 170). Jerry Talmer, who had the toughest job, reviewing Guns of the Trees in the Voice, was the most diplomatic: Mekas’s movie “has some of the virtues and all of faults of its young, seeking, bewildered creator”.[5]

Variety in una recensione del 1964 ne lodò soprattutto gli attori, e giudicò le riprese, “technically good”:

“Characters seem sterile and self-pyting rather than tragic. But, at moments some insight and feeling of plight comes through. Frances Stillman is preperly intense and lost as the girl while Adolfas Mekas has a tormented gauntness as the intellectual who can not help her.” [6]

Rogert Erbert del Chicago Sun Time lo presentò come un film che “records in earnestness and joy the feel of a particular moment in time, early 1960, and the concerns that seemed immediate then”[7], mentre Clifford Terry del Chicago Tribune, in un articolo del 1967, invece metteva in discussione la bravura di Mekas sia come poeta che come regista:

“Mekas’ value as a selfproclaimed “poet” is lessened by the now-outdated topicality of some of his 1960 objects of scorn, and the value of the film is lessened by its repetition and tediousness. The most satisfying aspects of the ending, indeed, is its arrival.”[8]

Le recensioni positive furono in pratica poche: Gene Moskowitz sui Cahiers du Cinema lo definì “one of the most personal and revealing films of the intellectual, beat and hip fringe of society of America today”[9]; per Herman G. Weinberg, “it is a bitter but lyric work. It is also revolutionary in form, being unlike, in its technique, anything you ever saw. It is a poster, a declaration, a manifesto. I regard Guns of the Trees as the most important film by far of the American ‘New Wave’”[10]; ed infine per Nat Hentoff del Village Voice, “It continues to impress me by the durability of its effects.” [11]

Ma probabilmente la recensione più importante che questo film ricevette fu dall’FBI, che subito dopo la proiezione presso Cinema 16, mandò a chiamare Mekas.



  [1] Boarini, Vittorio, Bonfiglioli, Pietro (a cura di), La mostra internazionale del cinema libero (1960-1980), Marsilio ed., Venezia, 1981, pp. 44-45.

  [2] Ibidem, pag 45

Traduzione: “ E’ dunque nella logica di questo festival che il primo premio sia stato attribuito al film outsider americano, Guns of the Trees, di Jonas Mekas. Di protesta, rabbioso, ambiguo, questo film evoca con un compiacimento ed un estetismo per molti irritante, gli anni di rivolta e di protesta della gioventù americana, riportati nelle parole di A. Ginsberg, Corso...Intendiamo, sebbene non sia un film nuovo, è almeno un film “libero”.”

  [3] Ibidem, pag 76.

[4] Moravia, Alberto, “Mekas urla contro il mondo”, in L’Espresso, 8 Luglio 1962, pag. 23.

[5] James, David E., To Free the Cinema op. cit., pag. 115.

Traduzione: “In Film Quarterly, E. Callenbach definì il film di Mekas “sophomoric”. C. Starr, che lo recensì su Sight and Sound, riportò che “per la maggior parte della gente” Guns of the Trees “ è quasi insopportabile”. D. Macdonald lo licenziò genialmente, scrivendo sull’Enquire che “tutto ciò che in Pull my Daisy è spontaneo qui è creato coscientemente; Ginsberg è inferiore a Kerouac come narratore perché egli è retorico mentre Kerouac è falsamente ironico; qui Ginsberg è alternato a canzoni folk, l’ultimo rifugio dell’America di sinistra; egli è troppo pomposo e esse sono troppo semplici. Poco più tardi , Pauline Kael aumento la dose, sul Massachusetts Review, facendo una digressione da un attacco a Last Year at Marienbad per descrivere il film di Mekas “ paranoico in modo imbarazzante”. Jerry Tallmer, che ebbe il lavoro più difficile dovendo recensire Guns sul Voice, fu il più diplomatico: il film di Mekas “possiede alcune delle virtù e tutti gli errori del suo giovane, alla ricerca, confuso creatore”.

[6]  “Guns of the Trees”, in Variety, January 22, 1964.

Traduzione: “Il film talvolta dà segni di ampollosità. I personaggi sembrano sterili e auto compassionevoli, piuttosto che tragici. Ma in certi momenti qualche sentimento d’impegno da dentro vengono fuori. Frances Stillman è intensa nella giusta misura e persa come il personaggio, Adolfas Mekas possiede una magrezza tormentata come l’intellettuale che non la può aiutare.”

[7] Ebert, Roger, “Guns of the Trees”, in Chicago Sun Times, April 17, 1967.

Traduzione: “ registra con onestà e gioia i sentimenti di un particolare periodo di tempo, i primi anni sessanta, e i problemi che lo interessavano”.

[8] Terry, Clifford, “Within 24 Hours It’s ‘Town Underground’”, in Chicago Tribune, Monday, April 17, 1967.

Traduzione: “Il valore di Mekas come autoproclamato “poeta” diminuisce a causa della nuova fuori datata attualità di alcuni dei suoi oggetti di disprezzo del 1960, e il valore del film è diminuito dalle sue ripetizioni e dalla tediosità. L’aspetto più significante della fine è quindi il suo arrivo.”

 [9] Film-Maker’ Cooperative Catalogue No 7 op. cit, pag. 360.

Traduzione: “Uno dei film più personale e rivelatore della frangia intellettuale, beat e hip della società americana moderna.”

 [10] Ibidem.

Traduzione: “E’ un piccolo lavoro lirico. E’ rivoluzionario nella forma, sebbene tuttavia nella tecnica non si sia mai visto prima nulla di simile. Esso è un poster, una dichiarazione, un manifesto. Giudico Guns off the Trees come il migliore film di gran lunga, della new wave americana.”

[11] Ibidem.

Traduzione: “continua ad impressionarmi per la continuità dei suoi effetti.”

 

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