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Lussu (a destra) scherza con un commilitone ferito

« ... Ho ancora copia del mio taccuino di aiutante maggiore, in cui è l'ordine di attaccare anche con i reticolati intatti. In questa scelleratezza, generalizzata nell'esercito di Cadorna, causa di morte di migliaia di soldati sardi, è la mia primissima rivolta morale alla guerra e alla classe dirigente che la provoca ... »


Gian Giacomo Ortu – “Fuori dalla prigione etnica”

La Nuova Sardegna, 24 febbraio 2005

Un anno sull’Altipiano (1938), Marcia su Roma e dintorni (1933) e la La Difesa di Roma (postumo, 1987), tra le opere maggiori di Emilio Lussu, sono racconti storici con il carattere di saggi morali. La costruzione e lo stile di ciascuna di queste opere sono diversi, com’è differente la loro riuscita sotto il profilo narrativo e letterario. Massima in Un anno sull’Altipiano, dove il protagonista-narratore è coinvolto “fino alle radici più profonde del suo essere”, come ha scritto Simonetta Salvestroni, ed è perciò in grado di rappresentare e trasmettere significati di valore assoluto ed universale; certamente minore nella Difesa di Roma, dove soltanto a tratti - anche per le energie ormai declinanti - Lussu riesce a districarsi da una documentazione tanto complessa e controversa per riprendere il filo di una straordinaria autobiografia, che è al contempo una rappresentazione del dramma morale del Paese nell’intera prima metà del Novecento.  

Si ricordi quanto Benedetto Croce ha scritto di Marcia su Roma e dintorni nel 1945, su Risorgimento Liberale: Lussu “lumeggia... un punto che è storicamente importante, quello delle forze che resero possibile la vittoria del fascismo e gli dettero sostegno... Il vero è, come appare dal racconto del Lussu, che, mortificata, depressa e dispersa, e non solo in Italia, dopo la guerra del ’14-’18, la fede politico-morale nella umana civiltà, fu possibile a un uomo...., privo e incapace di ogni fede,... raccogliere intorno a se una banda di similmente disposti avventurieri, e approfittare dei contrasti e delle debolezze che erano nel popolo italiano, nei ceti dirigenti e nei governi, e della confusione dei concetti e della stanchezza generale, per afferrare la macchina dello Stato”.

Croce coglieva benissimo la centralità, in Marcia su Roma e dintorni, del problema dello Stato, della sua conquista violenta da parte di una minoranza. Ma è l’intera trilogia di Lussu a vertere essenzialmente su tale problema, in riferimento ai tre avvenimenti cruciali dell’Italia del primo Novecento. Il biasimo e l’ironia, la condanna e il sarcasmo di Lussu, si rivolgono infatti anzitutto contro quei poteri e quegli apparati che mancano nell’assolvere alle proprie funzioni eminenti e decisive, civili, politiche e militari, che mancano nell’assumersi le responsabilità di governo che loro competono: la monarchia, la corte, gli organi ministeriali e i comandi militari. In definitiva la sua denuncia è contro l’intera sfera dell’autorità statale.

Ma mentre scaglia il suo anatema storico e morale contro un potere che non sa legittimare neppure le ragioni della sua esistenza (poiché manda inutilmente al massacro i suoi soldati, si scioglie come neve al sole di fronte ad un assalto di briganti e diserta infine in blocco di fronte al nemico), Lussu mette pure allo scoperto la degradazione degli spiriti civili di un intero popolo, quello italiano, rimasto senza guida e reso amorfo ed inerte ora dalla paura, ora dalla corruzione, ora dall’inganno. E va però oltre il caso italiano quando, analogamente ad altri grandi autori ed artisti del suo tempo (Chaplin, Ortéga y Gasset, Picasso, etc.) ci offre anche la rappresentazione poetica di una umanità-massa, affollata di automi e burattini inconsapevoli. Senza questo “rovescio”, per così dire, della sua convinta e dichiarata “fiducia nelle masse”, mi sembra difficile intendere le maggiori opere di Lussu.

Restando in Italia, la responsabilità dei processi che attentano all’autonoma soggettività delle masse non è soltanto del fascismo o della monarchia, ma è condivisa da altri due poteri più pervasivi: l’uno squisitamente tradizionale, qual è un cattolicesimo aduso a scindere nel credente fede e comportamento, e responsabile primo, dunque, della mancanza di carattere degli italiani, “la cui vita - scrive nel 1932 in un ricordo di Enrico Malatesta - è un dualismo costante tra pensiero ufficiale e pensiero interiore, tra interesse generale e interesse personale, tra l’ideale alato e il successo terrestre”; l’altro del tutto moderno, qual è un capitalismo che non solo sfrutta i lavoratori, ma minaccia di spegnerne ogni intelligenza creativa.

La forte sintonia di Lussu con la grande cultura europea del primo Novecento - specie sui temi di civiltà decisivi - non può essere spiegata soltanto con il fermento spontaneo e con il potenziamento quasi miracoloso dei valori umanistici che attinge alla cultura d’origine, sarda, barbaricina ed armungese. Intanto, tra carcere e confino, tra sanatori e rifugi vari - e soprattutto nell’incessante ricerca di alleati e di occasioni per la lotta contro il fascismo italiano ed europeo -, non gli sono certo mancate le opportunità per molte buone letture e per innumerevoli scambi di idee con uomini che come lui si sforzano di ritessere la storia civile d’Europa (Antonio Gramsci, Carlo Rosselli, Gaetano Salvemini, Miguel de Unamuno...). Già al fronte Lussu spegneva il frastuono delle armi leggendo Ariosto e Baudelaire, un autore classico ed uno moderno, ma portatori entrambi di una visione dell’uomo laica, intensa, vitalistica, agli antipodi di quella visione meccanica e conformistica che si presta meglio all’affermazione di nuovi sistemi d’autorità. E in questa chiave si può forse spiegare anche la predilezione che mostra per l’opera di Boccaccio e di Shakespeare, dei quali - ricorda in Diplomazia clandestina - è capace di citare a memoria dei passi, rispettivamente dal Decamerone e dal Riccardo III.

Su un altro versante di letture, si deve pure segnalare la predilezione di Lussu per il robusto nerbo della speculazione civile e politica francese, specie dell’Ottocento, come mostra, ad esempio, la sua prefazione all’edizione einaudiana de La Repubblica di Edgar Quinet (1944). Sono però specialmente i suoi discorsi parlamentari a rendere la più fedele e completa testimonianza degli interessi culturali e aperture intellettuali del nostro con una miriade di citazioni sempre puntuali ed efficaci.

Eppure persevera, tenace, chi Lussu lo vede solo attraverso la lente etnica. In parte è stato lui stesso ad incoraggiarne l’uso, riconducendo, ad esempio, il suo senso di giustizia, l’avversione per le autorità costituite, il costante orientamento a sinistra, ad una “particolare formazione psicologica” ricevuta nell’ambito della famiglia e della comunità di provenienza. Simile tema è anzi al centro di una memoria del 1952, comparsa su Belfagor, nella quale Lussu attribuisce alla riconosciuta autorità paterna il merito d’averlo iniziato ad agire da “uomo”, e cioè con responsabile autonomia, nel rispetto di sé e dell’altro, senza esercitare o subire atti d’autorità arbitrari o immotivati. “Quel che è necessario - gli avrebbe detto una volta il padre - è vivere con dignità senza mai aver vergogna di se stessi; e poter sempre guardare tutti negli occhi. Sempre negli occhi, amici e nemici, uomini e donne”.

Ma è curioso che al padre Lussu attribuisca anche un credo a “essenza protestante”, attinto ad un “cattolicesimo popolare” diffuso nelle campagne sarde. L’essenza protestante starebbe in un’armonia e coerenza tra credo professato e pratica di vita che sarebbe invece estranea - come già detto - al cattolicesimo ufficiale e romano. Ma com’ è arrivato Lussu a questo apprezzamento del protestantesimo? Per vie diverse, certo, attraverso incontri e letture. E come non pensare alla lunga convivenza nel confino di Lipari con Fausto Nitti, protestante, con il quale avrà intessuto conversazioni non solo di politica, ma sulle rispettive formazioni culturali e religiose? E lo sforzo di prendere le giuste misure del cattolicesimo nella storia della politica e della cultura europea doveva comunque portarlo a qualche familiarità con la letteratura sul tema, come mostra quell’episodio - raccontato in Marcia su Roma e dintorni - di un amico che diventato fascista si giustifica tirando fuori da una tasca una vecchia edizione della cinquecentesca “Ultima professione di fede di Simon Sinai, da Lucca, prima cattolico-romano, poi calvinista, poi luterano, di nuovo cattolico, ma sempre ateo”. Come poteva infatti, un uomo come Lussu, che in ambito storiografico prediligeva il genere “storia delle rivoluzioni”, ignorare la massima rivoluzione della prima età moderna, e cioè, appunto, la Riforma protestante?

Tutto ciò per dire che, nonostante le indicazioni da Lussu stesso fornite sul debito della sua formazione morale al padre e al microcosmo armungese, non ci si può sentire autorizzati a risolvere semplicisticamente il discorso sul suo “ethos” stabilendone un nesso genetico con l’“ethnos”, riconducendolo ad una matrice etnico-culturale. Come troppo spesso fanno, invece, gli studiosi sardi di Lussu.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
   
 
 
 

 

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