L'intervento di Don Gianno Colasanti


 

Il tema che devo trattare è “Il pensiero sociale della Chiesa e la sua attualizzazione”. Prendo subito in prestito un immagine che Ratzinger ha adoperato la settimana entrante parlando appunto dei media nella conferenza che è stata fatta a Roma sui mezzi di comunicazione sociale. E ha portato l’immagine del sicomoro. Mi è piaciuta, e siccome le immagini e le metafore si ricordano più facilmente dei ragionamenti astrusi, ve la riporto così come lui l’ha elaborata. Dice appunto Ratzinger che questa immagine gli viene da Basilio il Grande il quale nel confronto con la cultura greca del suo tempo si vide posto davanti a un compito assai simile a quello che è posto a noi. Basilio si riallaccia al profeta Amos il quale diceva di sé: “Io ero uno che taglia i sicomori”. Chi ha letto l’Avvenire di qualche giorno fa probabilmente questo pezzo già l’ha messo a fuoco. Basilio infatti scrive: “Il sicomoro è un albero che produce moltissimi frutti. Ma non hanno alcun sapore se non li si incide accuratamente e non si lascia fuoriuscire il loro succo, cosicché divengano gradevoli al gusto. Per questo motivo noi riteniamo che il sicomoro è un simbolo per l’insieme dei popoli pagani. Esso forma una gran quantità, ma è allo stesso tempo insipido. Ciò deriva dalla vita secondo le abitudini pagane. Quando si riesce ad inciderla con il logos si trasforma, diviene gustosa e utilizzabile”. E’ un’immagine abbastanza efficace, che dice un po’ quello che è la dottrina sociale della Chiesa e la sua attualizzazione soprattutto. Ecco, parto dalla seconda parte, l’attualizzazione. L’attualizzazione si potrebbe dire che è un po’ il DNA della dottrina sociale della Chiesa. La dottrina sociale della Chiesa infatti esiste nella misura in cui il Vangelo viene attualizzato, viene cioè declinato secondo i bisogni del tempo, secondo i problemi del tempo, secondo anche le variazioni delle società, delle culture, delle identità del momento. Quindi c’è un bisogno continuo di trasferire, possiamo dire, il messaggio del Vangelo dentro le situazioni storiche. In fondo è quello che è la  legge dell’incarnazione, che è la legge fondamentale di tutto quanto il cristianesimo. Un esempio di questa attualizzazione la abbiamo avuta nei giorni scorsi con il discorso del Papa fatto alla nazione italiana in Parlamento. In fondo il Papa che cosa ha fatto? Ha tenuto presente tutti quelli che sono i problemi soprattutto della società italiana anche se non ha evitato di inserire questi problemi nel contesto internazionale e dentro questi problemi ha dato una lettura che promana in qualche modo dalla fede, che promana dal Vangelo. In fondo il credente è colui che ha potremmo dire questo background, questo orizzonte di riferimento: che il Vangelo  veramente è il logos, la parola, che è poi la rivelazione, che costituisce questo taglio, questa potatura, questa incisione nel sicomoro, e soltanto se arriva questa incisione, questa potatura praticamente il sicomoro che è la vita dei popoli, la vita nostra, la vita della nostra società, prende sapore. Quindi questo è un po’ il fenomeno dell’attualizzazione. E allora la dottrina sociale della Chiesa che vive di attualizzazioni continue del Vangelo come la possiamo definire?  La definiscono già i padri stessi, la definiscono così i teologi che si interessano di questa disciplina: la dottrina sociale della Chiesa consiste fondamentalmente in un edificio a tre piani. Il primo piano, quello fondamentale, quello essenziale, quello permanente nel tempo, è costituito da valori e princìpi di riferimento. Per il cristiano quali sono questi princìpi di riferimento? Sono soprattutto quelli mutuati dalla Scrittura, mutuati dalla rivelazione: il valore della persona, il valore della comunità, il valore della solidarietà, il valore anche del vivere insieme e in qualche modo poi tutti i riferimenti che arricchiscono la vita personale. Questo è il nucleo di riferimento, nella rivelazione, fondamentale. Questo insieme di verità costituiscono i cosiddetti princìpi della dottrina sociale della Chiesa. Se qualcuno di voi guarda su Internet, la voce Università Cattolica sulla dottrina sociale della Chiesa riunisce un po’ questi princìpi in dieci parole che riassumono proprio questi valori di fondo, questi princìpi di ispirazione. Il secondo momento della dottrina sociale della Chiesa è costituito invece dai criteri di giudizio o giudizi che, tenendo presente i valori fondamentali della rivelazione, diamo sulla realtà storica.

Qui il giudizio ha potremmo dire una minore cogenza, una minore imperatività rispetto ai princìpi, perché il principio è direttamente derivato dalla Scrittura, dalla rivelazione, mentre il giudizio dipende da una parte sì dall’approfondimento, dalla conoscenza della Scrittura, della rivelazione, ma dall’altra parte dipende anche da una conoscenza scientificamente esatta, pertinente, della realtà storica, sociale, politica, economica su cui dobbiamo costruire il giudizio. Il giudizio risulta praticamente la sintesi di una conoscenza biblica e di una conoscenza delle realtà locali, storiche, politiche, sociali. E’ un giudizio sintetico: da una parte abbiamo ciò che ci dice la rivelazione, dall’altra parte ciò che ci dicono le conoscenze umane sui fatti politici, storici, sui fatti che dobbiamo osservare, sui quali dobbiamo dare un giudizio. Logicamente questo giudizio, come dicevo prima, ha una minore imperatività, una minore cogenza rispetto ai princìpi di fondo, ai princìpi della rivelazione. Faccio un esempio. Quando ai cristiani italiani veniva chiesta l’unità politica nel partito unico, quello era un giudizio storico che promanava magari dalla lettura del momento e promanava nello stesso tempo dalla considerazione dei princìpi di fondo della rivelazione. Quel giudizio lì comunque ad esempio alcuni lo contestavano. Comunque è stato un giudizio talmente storico che cambiando il quadro di riferimento, cambiata in qualche modo la situazione politica, viene anche superato. Oggi non c’è più nessuno né il Papa, né i cardinali, né l’esperienza che viene a comandare ai cristiani di seguire un giudizio di unità in un partito unico nel momento dell’esperienza politica. Viene quindi esigita questa conoscenza più corretta, più pertinente possibile del momento storico, sociale, politico, economico su cui dobbiamo dare un giudizio. Un terzo momento costitutivo della dottrina sociale della Chiesa è costituito dalle indicazioni programmatiche. Anche qui, le indicazioni programmatiche hanno ancora di meno cogenza rispetto al momento precedente, al momento del giudizio, il quale momento del giudizio ha ancora molta relatività rispetto alla formulazione dei principi di riferimento. Quindi nella dottrina sociale della Chiesa non è che tutto ha lo stesso spessore, la stessa intensità e la stessa imperatività.

Già in questa dottrina c’è una graduazione. Essendo la dottrina sociale della Chiesa costituita da questi tre livelli, l’attualizzazione fa proprio parte del suo DNA. Se i principi non vengono calati per giudicare, discernere, valutare, ciò che c’è di positivo secondo quei princìpi in una determinata situazione storica, ciò che deve essere perfezionato oppure addirittura corretto. Il giudizio comporta la possibilità di dare un giudizio di riprovazione, se è un giudizio saggio. Si capisce subito, quindi, che l’attualizzazione fa parte proprio della struttura della dottrina sociale della Chiesa. Chi sono i soggetti che edificano questo edificio appunto della dottrina sociale della Chiesa? Sicuramente il Magistero che ha una competenza per così dire autoritativa nel momento dei princìpi per quel compito apostolico che ha il Magistero di confermare nella fede e dire quali sono i contenuti autentici della fede. Gli stessi documenti della dottrina sociale della Chiesa che questa parte del Magistero va completata attraverso l’esercizio del discernimento, quindi del giudizio, delle singole comunità locali, delle comunità ecclesiali. Ogni comunità ecclesiale è in qualche modo chiamata a investire la sua capacità di discernimento dentro il proprio orizzonte, dentro i propri parametri di riferimento storici, politici, sociali, economici. Lo dice nella Octuagesima adveniens al n. 4 Papa Paolo VI laddove dice che il suo compito non è quello di dare un’indicazione universale buona per tutti. “Non è questo né il mio compito, né la mia missione.” Il compito deve essere quello di accentuare e mettere in risalto quelle che sono le linee portanti, ma poi ogni comunità locale, ogni comunità ecclesiale si deve pronunciare su come attualizzare questo messaggio evangelico dentro la sua situazione storica. Per quanto riguarda soprattutto le linee operative, ancora di più che le comunità ecclesiali come tali, possono aiutare a costruire l’edificio della dottrina sociale della Chiesa le esperienze di tutti coloro che sono impegnati in prima persona nell’attività politica, sindacale, etc. Perché? Perché loro vivendo, mettendo in atto delle soluzioni,  hanno il polso della situazione, vedono se quella comunità ha elaborato un programma, ha dato una lettura pertinente della singola situazione. Questo è un po’ l’aspetto teorico, la prima parte del discorso.

Quello che interessa, abbiamo detto, è questa capacità di attualizzazione, l’esprimere questo DNA dell’attualizzazione come vita stessa della dottrina sociale della Chiesa. Campanini nel penultimo numero di “Aggiornamenti sociali” dà una descrizione del cammino della dottrina sociale della Chiesa che ci aiuta un po’ a capire questo processo. Dice Campanini: “Il cammino della dottrina sociale della Chiesa è un importante capitolo della storia del lento e progressivo confronto con la modernità. Non più in termini di opposizione, ma di dialogo“. Ripercorrere questa elaborazione della dottrina sociale della Chiesa a partire addirittura dal Sillabo, dal 1864 ai giorni nostri, equivale a ricostruire una serie di cruciali momenti del rapporto tra Chiesa e modernità. Quando noi diciamo dottrina sociale della Chiesa, significa affrontare in termini di contemporaneità questo rapporto tra Chiesa e modernità. Noi sappiamo che la modernità comincia col grande processo di industrializzazione e comincia con la teorizzazione, la filosofia che c’è dietro al processo di industrializzazione. Quali sono stati i nodi centrali di questo periodo? Prima di tutto i diritti umani, poi il problema della democrazia e del pluralismo, poi il problema dell’economia di mercato. Qui la Chiesa in questi cento e più anni si è confrontata con questi che sono stati i temi di fondo della modernizzazione, della modernità. Quale è stato il rapporto con questa modernità? Dal periodo del Sillabo fino alla Rerum Novarum c’è stato il rifiuto della modernità, c’è stato lo scontro con la modernizzazione. Anche questo fa parte della dottrina sociale della Chiesa; finchè comincia con Leone XIII, con la Rerum Novarum, il guardare alla modernità non più con un atteggiamento antitetico, come se la modernità fosse la negazione del Vangelo, ma in modo simpatetico, vale a dire intravedere la modernità come non lontana dal Regno di Dio, non aliena dalla salvezza. Se è vero che Dio si è incarnato, che la salvezza è già in atto, è già presente, doveva essere presente anche nel processo di industrializzazione, doveva essere presente anche nella storia che è stata avviata dall’Illuminismo che era il grande babau della Chiesa. E allora vediamo che dopo questo problema, dopo questo processo di scontro, abbiamo un atteggiamento più attento a considerare gli aspetti positivi della modernizzazione. E abbiamo quindi piano piano una Chiesa che fa suoi i temi della modernizzazione pur portando uno sguardo al limite anche critico, antitetico, mutuato proprio dalla dottrina della rivelazione, mutuato dalla lettura del Vangelo. Il Vangelo come quel logos che taglia il sicomoro e lo fa diventare prelibato, lo fa diventare un frutto buono. Quindi è venuto fuori questo tipo di evoluzione; in un primo momento c’è stato lo scontro tra la Chiesa e la modernizzazione e dunque lo scontro con i diritti umani, con la democrazia e con l’economia di mercato. Perché c’è stato lo scontro con i diritti umani? Perché i diritti umani erano individuati come frutto dell’Illuminismo, come una scoperta dell’Illuminismo (che sorge in chiave antireligiosa, anticattolica soprattutto), e quindi gli stessi diritti umani venivano visti come un’elaborazione della ragione autonoma dalla fede e davano questa accentuazione individualistica dell’uomo. I diritti umani goduti nell’ambito strettamente singolare, individuale. Era più il primato del singolo che il primato della comunità, della collettività. Tutti i diritti umani vengono affermati come rivendicazioni di autonomie soprattutto di fronte allo stato assoluto seicentesco settecentesco. Un altro punto critico è stato la democrazia. La Chiesa passa dal rifiuto del concetto di democrazia e della stessa esperienza della democrazia e del pluralismo ad una accoglienza complessiva, fino a dire che il cristianesimo si identifica (come fa la Centesimus Annus) soprattutto con il metodo della democrazia. E’ una conversione se vogliamo secolare, c’è voluto più di un secolo per avere questa conversione. Però di fatto, piano piano, è stato elaborato questo concetto che la democrazia non è di per sé estranea alla fede cristiana, anzi. Se è vero che noi difendiamo la persona, che il principio persona è un valore fondamentale anche nella animazione della società, il miglior modo per difendere la soggettività delle persone è quello che ogni persona diventi soggetto della propria storia, della politica, dell’economia. Ecco che quindi sulla democrazia si passa da un giudizio negativo ad un giudizio altamente positivo. Questo passaggio al giudizio positivo viene mutuato approfondendo il concetto stesso di persona, il concetto di soggetto, inteso anche come figlio di Dio, quindi in comunione fraterna, in un rapporto di solidarietà con tutti gli altri fratelli. Il miglior modo quindi di vivere questo essere persona in comunità diventa quindi l’esperienza, il metodo democratico. L’altro elemento cardine su cui la dottrina sociale della Chiesa si è dovuta misurare è stato il concetto di mercato, di economia libera. Anche qui però un conto è come l’economia libera, l’economia di mercato veniva propagandata, veniva prefissata dal liberismo ottocentesco, un conto è come l’economia di mercato viene successivamente elaborata fino ad arrivare alla Centesimus Annus dove l’economia di mercato significa economia dell’impresa libera, della responsabilità, dell’investimento etc., ma dentro un quadro di regole giuridicamente forte, in modo che il mercato non serva in qualche modo come una ruspa che passa sopra tutte quante le persone e ottunde tutte le dignità, ma dentro questo quadro solido di riferimento giuridico anche il mercato diventi un’esperienza positiva per tutte quante le persone. Si può quindi vedere come la dottrina sociale della Chiesa si è costituita attraverso questi passaggi di confronto con la storia, che è poi una storia di modernizzazione produttiva, storia attorno alla quale poi è nata anche la teorizzazione, l’ideologia dei vari partiti. L’attualizzazione è stata un po’ l’anima del formarsi della dottrina sociale della Chiesa. Quali sono le nuove problematiche, i nuovi orizzonti che si prospettano a questa dottrina sociale della Chiesa? Con cosa si deve confrontare oggi la comunità dei credenti, il singolo cristiano che vuole veramente far sì che il Vangelo sia il taglio, il logos che dà sapore al sicomoro? Con quali problemi si deve confrontare? Se noi leggiamo anche il discorso, riportato sul n. 4 di “Coscienza”, che ha fatto il Card. Ruini alla Assemblea dei Vescovi, abbiamo un’indicazione molto chiara di quali sono i problemi, di quali sono gli orizzonti entro cui si muove questo bisogno di attualizzazione. Un altro testo fondamentale, molto bello anche, è quello di Giorgio Campanini, che ho già citato, riportato al n. 9 e 10 di “Aggiornamenti sociali”. Si vede che c’è una consonanza di idee, anche se con impatti diversi, anche se è i discorsi partono dentro contesti di uditori diversi. Però si vede che la sensibilità è comune a tutti e due; la sensibilità è comune poi nell’ambito più vasto di tutta quanta la Chiesa. Oggi quali sono i temi su cui investire dentro un processo di attualizzazione? Campanini lo chiama la qualità della democrazia, e anche il Card. Ruini parla di quello che è il funzionamento della democrazia in Italia. E parla di come giustizia, salute, famiglia e immigrazione siano i temi di fondo su cui investire questa capacità di giudizio facendo riferimento ai princìpi della fede, ma nello stesso tempo anche per elaborare nuovi comportamenti che devono essere vissuti dalla società di domani. Il primo orizzonte entro cui spaziare ed entro cui esercitare questa operazione critico - profetica è la qualità della democrazia. Su questo poi torneremo. Il secondo orizzonte entro cui spaziare è il controllo del processo della globalizzazione. La globalizzazione è un fenomeno serio che va tenuto presente. Il cristiano che vuole in qualche modo declinare il Vangelo in termini di modernizzazione, in termini di modernità, e vuole quindi attualizzare il Vangelo, non può non essere profondamente attento a questo fenomeno della globalizzazione dei mercati. Il terzo problema è il problema ecologico. La questione ecologica è un problema che tocca marginalmente le nostre comunità, per lo meno c’è poca avvertenza, ancora non è cresciuta una vera sensibilità ecologica dentro le nostre comunità. Però sicuramente anche questo diventa un orizzonte con il quale misurarsi e dal quale ricavare degli stimoli per la riflessione e per la progettazione. Un quarto elemento, un quarto orizzonte in cui investire questa capacità di attualizzazione è la regolamentazione e il superamento delle ricorrenti esperienze di violenza e di terrore. Queste sono le quattro emergenze di fronte alle quali siamo in stato non di acquisizione di risposte, non nello stato di offerta di indicazioni operative. non nello stato di acquisizione di elementi, ma nello stato di offerta potremmo dire di indicazioni operative. Siamo anche noi, nonostante i bei princìpi del Vangelo, nonostante questa attenta riflessione di giudizio, siamo anche noi coloro che devono esplorare delle indicazioni operative, dei progetti, dei programmi per il futuro. Ecco quindi la capacità di attualizzazione. La dottrina sociale della Chiesa crescerà nella misura in cui saremo capaci di fare questo tipo di operazione, di investimento sul futuro. L’attualizzazione è allora veramente il DNA, la vita più profonda, più nascosta della dottrina sociale della Chiesa. Qui non è tanto il ripetere delle formule già acquisite, già prestabilite e quindi un ricettario da consumarsi ad ogni occasione. Si tratta piuttosto dell’atteggiamento mentale di colui che ha dei parametri di riferimento, dei metri di riferimento, ma anche degli orizzonti in cui investire una capacità progettuale. Ecco perché il pluralismo diventa legittimo anche dentro l’esperienza ecclesiale. Nonostante che ci riferiamo tutti agli stessi princìpi, nel momento della progettualità, nel momento di investire su programmi futuri, è logico che possiamo anche tentare più strade diverse. Nessuno quindi si può appropriare da questo punto di vista del messaggio della fede come della destra, della sinistra, del centro, ma diventa un patrimonio da investire, da verificare e la verifica va fatta proprio sul piano operativo. Potremmo dire alla fine che ha investito meglio colui che ha dato una risposta migliore ai problemi della storia. Quindi una verifica a posteriori, una volta che si è verificato il risultato. Oggi ritorna in primo piano un orizzonte su cui realizzare una capacità di attualizzazione. Oggi la democrazia rischia di essere una specie di guscio vuoto dal momento che le istituzioni non sono sostenute da due pilastri essenziali. E’ un discorso che è stato in qualche modo adombrato anche dal discorso del Papa in Parlamento. La partecipazione attiva dei cittadini è sempre più scemata. Per esempio, nelle ultime elezioni degli organi collegiali che abbiamo fatto a scuola, in alcune classi non si è presentato nessuno, in qualche classe un genitore solo, in qualche classe due. Questa è una spia, un’indicazione. Non so per esempio se il lavoro nelle circoscrizioni, la presenza delle circoscrizioni abbia ancora partecipazione. Però mi sembra che attualmente quello che si sta verificando è un disimpegno dalla polis, un disimpegno rispetto all’impegno politico, per un recupero della dimensione privata, del ciascuno salvi se stesso, della riuscita della propria vita personale. In chiave, diciamo così, molto egocentrica, sicuramente non in chiave sociale, in chiave di solidarietà, in chiave di comunione con gli altri. Questa mancanza di partecipazione, poi, porta a non credere più alla politica, fa giudicare l’esercizio stesso della politica come un esercizio in cui è assente quell’orizzonte che è il bene comune. Il bene comune diventa una categoria fondamentale della dottrina sociale della Chiesa. Vedendo come operano le due parti, l’opposizione e il governo,  e lo mette in risalto anche il Card. Ruini nel suo discorso, sembra che più che essere proiettati verso la costruzione di un bene comune, ciascuno è proiettato a ritagliarsi uno spazio di maggiore visibilità, di maggiore rendita di posizione per la propria parte. E questo alla lunga porta sfiducia nel dibattito politico. Perché se la politica è soltanto un giocare a favore della propria parte e non è il superamento verso un orizzonte di un bene per tutti, di un bene di tutti, logicamente poi ci si sente rifiutati e si rifiuta la politica. Tutto sommato si potrebbe dire che l’esperienza che il cittadino oggi fa, è quella di sentire l’inutilità della sua politica. Oggi il cittadino vorrebbe vedere che quando esprime un parere, questo parere conta, questo parere abbia un risultato. Oggi la difficoltà è proprio questa: che il cittadino possa vedere che il suo parere abbia in qualche modo un effetto. Per cui parlare senza avere effetti, parlare senza avere ricadute, diventa inutile, e quindi ecco il rifiuto della politica. Però nello stesso tempo bisogna pur trovare i modelli, i modi attraverso cui contare, per far sentire che l’opinione del cittadino conta. Credo che tutti quanti noi sentiamo che la politica ormai è una serie di decisioni che ci passano sopra la testa, ci vengono calate. Questo rifiuto della politica è un avvertimento che la politica sta diventando probabilmente un guscio vuoto perché ci pone il problema di come alimentare la politica. La politica è sicuramente quell’esercizio delle attività a favore del bene comune, a favore della polis, che è contestuale in una visione cristiana al proprio bene personale. Non si può pensare di costruire un bene individuale, un progresso individuale e della propria famiglia, senza contestualmente pensare che debba crescere il bene della comunità, il bene sociale. Il concetto di solidarietà, di cui tante volte ci riempiamo la bocca, ci porta a vedere proprio questa dimensione. Quella cioè di vedere che il nostro bene individuale e familiare cresce soltanto nella misura in cui si collega alla crescita del bene comune, come lo chiama la dottrina sociale della Chiesa. Anche questa diventa un parametro di riferimento. L’altro motivo per cui la democrazia attuale corre forti rischi è dato dalla messa in crisi della libertà e del pluralismo di informazione. Oggi ci sono tante fonti di informazione, però il problema di fondo è questo: come controllare l’informazione? Se non si ha la possibilità di controllare che quello che è detto è anche vero, si apre un grosso problema. Noi siamo nella condizione di quelli che bevono l’acqua che gli viene portata, ma non nella condizione di coloro che possono controllare la purezza della sorgente, che l’acquedotto sia salubre. Come facciamo? Non abbiamo gli strumenti. Allora il problema che si apre alla dottrina sociale della Chiesa è come alimentare la democrazia con forme di partecipazione che siano vere, efficaci, non soltanto nel momento delle elezioni,  e anche come controllare che le informazioni siano vere e controllare quindi la libertà dell’informazione. Questo è un orizzonte che ci viene presentato e nel quale dobbiamo in qualche modo lavorare. Un altro orizzonte che ci provoca è il tema del controllo della globalizzazione. La globalizzazione costituisce dal punto di vista ideale un pensiero positivo, ottimistico, perché dal punto di vista delle attese globalizzazione significa ottimizzare le merci e gli strumenti di produzione e quindi ottimizzare i costi. Questo però in teoria. In teoria se noi produciamo là dove materie prime e manodopera costano di meno ne viene un benessere per tutta quanta la comunità. Ma questo dal punto di vista teorico, dal punto di vista ideale. Dal punto di vista reale, invece, non si possono non constatare i limiti della globalizzazione. Anche dietro alla contestazione dei new – global, alla presentazione di una società diversa, c’è qualcosa a cui stare attenti, perché non sono dei dissennati per principio. Potremmo in qualche modo vagliare se il loro approccio alla globalizzazione è ancora attuale, moderno, ma il fatto di contestare, il fatto che mettono in risalto alcuni limiti fondamentali, non è detto che sia negativo. Potrebbe essere negativa la proposta, la terapia contro la globalizzazione. Però comunque la globalizzazione è un fenomeno che in qualche modo deve aiutare a drizzare le orecchie, far capire che ci sono dei limiti intrinseci a questo processo che vanno in qualche modo superati. Quindi bisogna discuterlo questo problema. Soprattutto, che significa il mercato? Se il mercato si intende come iper liberismo delle merci così come proposto dall’ideologia iper liberale, questo diventa veramente dannoso per  gruppi e popolazioni intere. I problemi dell’Africa da questo punto di vista sono molto provocanti. Ecco perché la Centesimus Annus chiede un’attenzione a questo processo di globalizzazione dei mercati dicendo che deve vivere dentro un contesto giuridico preciso, attento a quelli che sono i fini dei prodotti, dei beni di consumo prodotti dall’economia. E gli scopi quali sono? Quelli di migliorare non la vita di qualcuno o di qualche nazione, ma quelli di migliorare veramente la vita planetaria, la vita di tutta quanta l’umanità. Ecco anche qui una problematica che si apre e che ha bisogno di risposte, di soluzioni. Ci sono quindi aspetti positivi, ma anche tanti punti che vanno affrontati e superati. Il terzo momento, collegato sempre con la globalizzazione, è un problema di cui si parla tanto, quello della flessibilità. La flessibilità, dice Campanini, è una parola che va bene dentro un’ipotesi di uomo iper individuale, cioè quell’uomo, alla fine, che vive soltanto con se stesso. Ma che significa parlare di flessibilità per un uomo che ha una famiglia? Non è che una persona ad un certo momento può smobilitare quello che ha fatto per trent’anni, cambiare città… questo significa disagi per tutta quanta la famiglia. Non è che il lavoro può essere cambiato così dall’oggi al domani perché i mercati lo richiedono. Quindi questa flessibilità si deve misurare anche con le ricadute che ha sull’uomo sociale, sull’uomo in famiglia, sull’uomo in gruppo. La flessibilità esigerebbe, postulerebbe un tipo di uomo che come un atomo lo sposti di qua e di là, in una città o in un’altra città, in un mercato o in un altro mercato, perché tanto non ha rapporti, non ha relazioni. Dove lo metto produce e sta bene. Questa però è un’ipotesi altamente astratta di flessibilità. Quindi la flessibilità va coniugata con l’inserimento dell’uomo dentro un contesto di relazioni umane che non può essere mortificato ed avvilito dalla flessibilità. Si apre dunque tutta una tematica di tipo sociale, economico, esperienziale, che è importantissima. Un altro elemento di enorme importanza è il problema ecologico. Noi siamo in qualche modo eredi di una dottrina che professa sì il dominio della terra, ma accanto alla responsabilità verso la terra. I due princìpi del dominio e della responsabilità bisogna che impariamo a declinarli insieme. Il creato ci è stato dato anche perché fosse custodito, non soltanto perché fosse sfruttato. E’ vero che noi con tutto il processo di industrializzazione abbiamo soprattutto accentuato e sfruttato il criterio del dominio, il principio del dominio della Terra. Oggi i problemi ecologici ci insegnano che è venuto il tempo di misurarci con quello della responsabilità; non più del dominio, ma della sollecitudine verso la madre Terra. Occorre quindi integrare il problema ecologico con la nostra prospettiva umana, politica. Sicuramente noi abbiamo nella dottrina sociale della Chiesa degli spunti che ci orientano in questa direzione, però hanno bisogno di essere ancora elaborati e diventare soprattutto progetto di vita, programma politico, programma sindacale, programma sociale. L’ultimo problema è il problema della guerra e dei rapporti con il terrorismo. Anche questo è un tema di grande attualità. Qui noi non siamo più forniti di categorie adatte a fronteggiare questa situazione. Perché? Faccio una breve storia. Nei primi tre secoli del Cristianesimo il rapporto con la violenza e con la guerra è stato quello del rifiuto assoluto: mi faccio uccidere, ma non rispondo.  Questo è stato il criterio dominante nei primi tre secoli del Cristianesimo. Dal terzo secolo fino alla prima guerra mondiale è stata giustificata la cosiddetta “guerra giusta”: quand’è che la guerra è “giusta”? Quando c’è un aggressore che minaccia la mia entità fisica oppure la mia entità culturale, la mia entità sociale. La “guerra giusta” in un secondo periodo non fu solo guerra di difesa, ma anche guerra di offesa diventava giusta: quando significava espandere la propria cultura, la propria religione anche in altre terre e quindi in nome di questa espansione veniva giustificata una guerra di aggressione. C’è stata una lunga stagione che ha condotto la categoria della “guerra giusta”. Venuto l’ultimo periodo è saltato anche questo criterio; dal Concilio Vaticano II in poi è saltato anche il parametro della “guerra giusta”. L’unica giustificazione era il criterio della “legittima difesa”. Ma anche il criterio della “legittima difesa” postula uno scenario militare, uno scenario bellico, che oggi non è più attuale. Era lo scenario in cui un esercito aggredisce un altro esercito, una nazione aggredisce un’altra nazione. Oggi con il terrorismo oppure con i genocidi interni, tale criterio non vale più. Lo abbiamo passato con il Kosovo, laddove etnie della stessa nazione si uccidevano reciprocamente. E’ venuta allora fuori l’ipotesi della “ingerenza umanitaria”, che non è né “guerra giusta”, né “legittima difesa”. E’ stato quindi in qualche modo elaborato questo principio che tuttavia ha avuto molti oppositori, anche sul piano politico. Poi “ingerenza umanitaria” dove? Nel Medio Oriente sì e in Kosovo no, oppure viceversa? Certo, ha suscitato diversi problemi. Oggi, comunque il problema del terrorismo mette fuori gioco anche l’”ingerenza umanitaria”. Anche il Papa in Parlamento ha detto: non facciamoci rigurgitare da questo bisogno dello scontro. Certo, è un’avvertenza; c’è un limite, spera che lo stesso Saddam si renda conto del processo negativo che innesca. Ma è un’avvertenza in cui dice: non lasciatevi a priori aspirare, rigurgitare da un processo di scontro, anche se una soluzione va comunque trovata.

Le categorie di cui siamo storicamente dotati sono quindi in qualche modo diventate obsolete, vecchie. Come le ammodernizziamo? Come le attualizziamo? Il compito del cristiano, di colui che crede nella profondità della sapienza del Vangelo, nella forza costruttiva della Rivelazione, si esprime proprio nella attualizzazione costante in cui la comunità nel suo insieme, i teologi, i politici, ma in qualche modo ogni fedele è chiamato a investire la propria attività, le proprie risorse. L’attualizzazione è dunque parte vitale, essenza stessa della dottrina sociale della Chiesa.

 

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