L'intervento del Prof. Roberto Gatti

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La riflessione che intendo proporre può essere sintetizzata focalizzando alcuni interrogativi fondamentali che sono posti dall'emergere e dallo svilupparsi delle società cosiddette "multiculturali".

1.      Come cittadini di società democratiche che sempre più si caratterizzano come società "multiculturali", siamo tenuti a una semplice "cortesia" di fronte a uomini e donne che, portatori di codici normativi e orientamenti valoriali spesso molto diversi da quelli dominanti nei paesi di civiltà occidentale, chiedono ospitalità entro i confini di tali paesi o abbiamo il dovere, evidentemente molto più impegnativo, di soddisfare la loro rivendicazione di uno specifico riconoscimento pubblico, giuridicamente articolato, della loro differenza nei vari settori della vita collettiva (scuola, impiego, sfera politica, ecc.)?

2.      Nella misura in cui riteniamo di dovere un tale riconoscimento (e ciò perché, per esempio, senza di esso, i rappresentanti di culture minoritarie potrebbero subire conseguenze negative in relazione allo sviluppo stesso e alla cura della propria identità), a quale tipo di trasformazione dobbiamo sottoporre i diritti tradizionali della cittadinanza democratico-liberale, che hanno ricevuto una prima ed emblematica espressione giuridica nelle Dichiarazioni dei diritti nate alee rivoluzioni americana e francese e che si basavano proprio sull'astrazione dalle differenze, fossero esse di sesso, di religione, di razza, di credo ideologico, ecc. (si vedano per es. i "Principi fondamentali" della nostra Costituzione)? Come possiamo cioè pensare a una nuova declinazione del rapporto tra uguaglianza e differenza, con particolare riferimento alle differenze etnico-culturali?

3.      Se pensiamo che queste differenze abbiano il diritto di ottenere riconoscimento e garanzia nello spazio pubblico, quali provvedimenti possono essere considerati maggiormente idonei a raggiungere l'obiettivo, per esempio, nel campo della legislazione scolastica (come peraltro in moltissimi altri campi, che qui non è possibile specificare)? E, ancora: è sufficiente, rimanendo dentro la logica intrinseca alla concezione liberale tradizionale, ammettere come soggetti dei diritti soltanto gli individui o piuttosto, superando tale logica, diventa indispensabile introdurre diritti "collettivi", come appunto quelli che potrebbero essere riconosciuti alle comunità culturali, che così diventerebbero soggetti di diritto autonomi e specifici?

4.      Come sappiamo, ogni diritto è limitato da un dovere corrispondente: in questo caso il minimo che sembra ragionevole chiedere è che i rappresentanti di minoranze culturali che chiedono un riconoscimento pubblico, e quindi la piena e effettiva libertà di coltivare e manifestare la propria identità, riconoscano lo stesso diritto anche agli altri. Detto in diverso modo: per godere della tolleranza, una sola cosa si domanda, ma una cosa essenziale, cioè che si sia disposti, ognuno, a esercitare la stessa tolleranza, come un proprio dovere, nei confronti di tutti gli altri. Ma spesso le culture per le quali viene rivendicato oggi un riconoscimento nelle nostre società non sembrano caratterizzate affatto da una propensione verso la tolleranza del diverso: si cita, a tal proposito, il caso della religione islamica, che in questo mesi nel nostro paese è diventato oggetto di dibattito sia in ambito politico che ecclesiale. Che fare in casi come questo? Come rispondere a chi afferma che, a casa nostra,dobbiamo tolleranza e riconoscimento solo a quelle culture, religioni, ideologie, che a casa loro, rispettano la nostra cultura, la nostra religione, le nostre opzioni ideologiche? Siamo in diritto di impedire la costruzione di una moschea partendo dalla considerazione che. per ciò che conosciamo della cultura islamica, ci crediamo autorizzati a pensare che chi richiede di farlo non lascerebbe che noi edificassimo una chiesa cattolica nel loro paese?

5.      Se facciamo nostra la posizione di chi è favorevole a una politica di riconoscimento delle differenze culturali, è plausibile tentare di individuare un qualche principio che possa permettere di praticare tale politica senza sacrificare né fondamenti dello Stato di diritto, né quei diritti universali della persona che appaiono ormai come un patrimonio irrinunciabile dell’umanità e non un prodotto di quella particolare civiltà che si è sviluppata nell’Occidente dalle origini della modernità ad oggi?

 

 

 

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