L'intervento del Prof. Mario Tosti


 
Fede e politica in Umbria.
Un approccio storico

Per un approccio al tema.  Ripercorrere la storia del rapporto tra fede e politica in una realtà territoriale come quella umbra, condizionata nella sua evoluzione da alcuni fattori dominanti quali  il governo papale per tutta l’età moderna e la diffusione capillare, in età contemporanea, di idee e proposte politiche di matrice socialista, spesso antitetiche alla visione cristiana del mondo, significa affrontare alla radice, in prospettiva storica, le dimensioni fondamentali che stanno alla base dell’impegno politico dei cristiani. Nella storia della presenza politica dei cristiani, anche in questa regione, si registrano fasi di confusione tra fede e politica, con la conseguente riduzione della fede alla politica o, viceversa, della politica alla fede. In un territorio sottoposto per secoli alla dominazione pontificia, segnato in modo drammatico dagli eventi risorgimentali, tanto da divenire per la classe liberale  simbolo del Risorgimento e modello della lotta contro il dispotismo di antico regime, spinte alla separazione tra fede e politica vennero soprattutto dal campo laicista, che con forza affermò l’estraneità della fede alla politica in quanto la prima appartiene alla sfera privata e quindi non deve intervenire nella politica, che appartiene invece alla sfera pubblica . Ma in alcuni passaggi storici cruciali non mancò, nemmeno nello schieramento cattolico, chi divenne paladino di questa distinzione argomentando che la fede è un “progetto puro” che non può venire a contatto con la politica e le sue miserie. Nel determinare quest’ultimo orientamento ebbe un peso considerevole la realtà della presenza cattolica in questa regione costituita, soprattutto, da un diffuso tessuto di opere caritativo-assistenziali, legate alle istituzioni ecclesiastiche che, senza dubbio, riassumono e qualificano, nella storia, il volto della presenza cristiana nella regione. La storia dell’Umbria presenta rotture e continuità  ma se si volesse individuare un elemento strutturale delle permanenze non si potrebbe non evidenziare la fitta rete delle opere assistenziali; quel tessuto,  cioè, di opere pie che, a ragione, possono far parlare della chiesa umbra come chiesa della carità. Nato in relazione alla forte presenza francescana e successivamente irrobustito da una capillare diffusione nel territorio del modello religioso post-tridentino, questo tessuto assistenziale ha dimostrato una sorprendente capacità di adeguarsi alle mobili frontiere del bisogno e della sofferenza. Certo, troppe volte queste opere pie hanno dimostrato di accettare il paternalismo, altre volte c’è stato dell’interesse nella gestione, ma nella grande maggioranza dei casi si è trattato di testimonianze trasparenti di fraternità, di forme di volontariato che si sono consumate nell’ascolto dei bisogni degli altri. E’ un aspetto importante del rapporto fede/storia in Umbria che solo ora, grazie alle numerose ricerche compiute, emerge in tutta la sua imponenza e permette anche  di rivedere certi giudizi storiografici sottolineando, per esempio, che anche nell’età del liberalismo borghese, quando più ampio e profondo è il distacco tra Chiesa e mondo, è proprio il tessuto caritativo-assistenziale che avvicina chiesa umbra e società moderna . Anche il tradizionale giudizio sulla completa assenza delle iniziative cattoliche nell’area ternana negli anni dell’industrializzazione,  particolarmente evidente se confrontata con le iniziative di resistenza e rivendicazione, tipiche del movimento socialista, sembra scricchiolare. Guardando infatti più all’interno la realtà del mondo cattolico ternano di quegli anni, emergono forme di protezione sociale che, magari innestate sul tessuto tradizionale, riescono, almeno nella prima fase dell’industrializzazione, a svolgere una funzione di assistenza e di collocazione della mano d’opera abbastanza simile a quella svolta dalle Camere del Lavoro. Ma proprio il caso ternano diventa  emblematico, poiché è vero che, similmente a quanto avvenne in altre realtà industriali, il movimento cattolico non riesce a passare dalla fase assistenziale alla fase della denuncia, della resistenza e della rivendicazione. Ciò che si vuole sottolineare è il fatto che questa massiccia presenza, questa continuità del tessuto caritativo, non ha sempre sollecitato il passaggio dall’assistenza ad una pedagogia della carità; non sempre la fase assistenziale ha assunto i caratteri della denuncia ed è scivolata spesso in forme di supplenza  allo Stato e alle istituzioni. Nella storia  si è andato strutturando un modello di assistenza che ha condotto i laici cristiani ad esaurirsi in gesti quotidiani e ripetitivi che alla fine hanno impoverito il messaggio evangelico e annullato il rapporto fede/politica. Assai diverso sembra invece il percorso del rapporto fede/politica in altre aree regionali, quali l’Alta Valle del Tevere. Nel tifernate, per esempio, si registrano eventi e dati che riescono a conferire a quest’area  un aspetto speciale e caratteristico: a un precoce processo di razionalizzazione e centralizzazione del sistema assistenziale, attuato alla fine del Settecento dal governatore Luigi Gazzoli e ispirato ai principi del modello asburgico di assistenza che attuerà Pietro Leopoldo nella vicina Toscana, seguì, nei decenni post-unitari, un veloce processo  di transizione dalle forme della tradizionale beneficenza alle moderne forme della previdenza. In un territorio dove, forse più che altrove nella regione, emerge l’indigenza e la miseria dei mezzadri, di un mondo rurale fortemente pauperizzato e privo anche di quelle arcaiche forme di protezione e di tutela presenti capillarmente nel resto delle campagne umbre, che spesso riuscivano a ricucire gli strappi prodotti dalla penetrazione dei primi elementi capitalistici nelle campagne, contribuendo alla stabilizzazione sociale, le rivendicazioni sociali del mondo contadino nel primo decennio del Novecento si configureranno subito con effetti e risonanze politiche. Qui, più che altrove, divenne determinante il rapporto di condivisione , accoglienza , intelligenza, del mondo cattolico con la società, cioè la capacità di conoscere e riconoscere i bisogni e le aspirazioni del tempo e della gente comune, di trasformare i bisogni in diritti, senza la necessità dell’umiliazione del chiedere o dell’implorare.

 

2- Chiesa e laicato: le fasi di mobilitazione. Anche la storia di questa regione insegna dunque che non è esistito un modello di politica per i cristiani valido per tutti i tempi e per tutti i luoghi; restando ferma la dimensione dei valori, ogni luogo e ogni tempo hanno richiesto ai cristiani politiche diverse. L’originalità politica dei cristiani è stata, ed è, proprio questa capacità di calare valori universali nella vicenda particolare o, se meglio si vuole rappresentare il metodo adeguato alla politica, far emergere dalle condizioni particolari i grandi obiettivi dell’umanità. La storia italiana è esemplare nell’indicare la diversità richiesta ai cristiani in politica: dall’opposizione, alla supplenza, alla prolungata responsabilità di governo; è insomma il riferimento alla  storicità, la capacità cioè di capire e interpretare la società,  la dimensione irrinunciabile per il cristiano impegnato in politica, per evitare i rischi da un lato di un idealismo astratto e dall’altro dell’integrismo della fede. Naturalmente la storia insegna che le  soluzioni devono prevedere sempre un carattere perfettibile e la necessità di continui nuovi livelli di relazioni tra valori e storia, soprattutto in ambito politico dove i mutamenti e gli adeguamenti sono continui e doverosi. Tutto ciò implica una forte provocazione alla ricerca, la mancanza di soluzioni definitive, la rinuncia alle certezze operative, lo sforzo di coerenza, un’attenta apertura alle novità. Se proviamo a confrontare il quadro delineato con la storia del cattolicesimo politico umbro è possibile rilevare almeno quattro svolte, capaci di illuminare il rapporto fede/politica in questa regione. Ripercorrendo infatti la storia del cattolicesimo umbro si possono evidenziare momenti rilevanti identificabili con altrettante fasi di mobilitazione: il periodo dell'Opera dei Congressi, quello della Democrazia Cristiana di Romolo Murri, il momento della nascita del Partito Popolare e infine, nel secondo dopoguerra, la nascita dei Comitati civici e le elezioni del 1948. Sulle motivazioni per cui l’Umbria rimase una regione sostanzialmente impermeabile alla penetrazione dell’Opera dei Congressi si è soliti distinguere tra ragioni remote e ragioni prossime; da una parte si sottolinea l’attenzione prevalente del vescovo di Perugia Gioacchino Pecci, il futuro Leone XIII, al clero nell’attività pastorale, la forte presenza conciliatorista, rispetto al modello intransigente dell’Opera, il prevalere di una mentalità più propensa alla contemplazione che all’azione e dall’altra, invece, si mette in luce il diffuso anticlericalismo, che portava la fragile stampa cattolica a impegnarsi soprattutto a rispondere agli attacchi della massoneria piuttosto che a elaborare progetti e ad evangelizzare, un certo campanilismo, che spinse, per esempio, mons. Faloci Pulignani, vicario di Foligno, ad accusare mons. Benigni, uno dei più intraprendenti nel propagandare le istituzioni dell’Opera, di <<peruginismo>> ed infine la debolezza dell’episcopato che sempre in quegli anni l’irruente mons. Benigni definiva <<botanico>>, <<poco capace di elaborare>>. Tutte cause che, messe insieme, ostacolarono, e alla fine impedirono, la diffusione capillare delle strutture dell’Opera dei Congressi nella regione. Una mobilitazione mancata, nonostante l’invio di un visitatore, mons. Radini Tedeschi, perché infondo estraneo alla cultura e alla mentalità religiosa umbra appare il modello diffuso e propagandato dall’Opera  e molti sacerdoti e laici  non capirono per quale motivo si dovesse istituire il comitato parrocchiale quando già esisteva la confraternita, oppure una cooperativa quando già erano attive nella comunità forme di solidarietà, arcaiche, ma gestite dai contadini medesimi e ancora rispondenti ai bisogni della gente. Mobilitazioni riuscite, almeno in parte, possono considerarsi invece, a mio avviso, quelle legate alla nascita della Democrazia Cristiana di Romolo Murri e del Partito Popolare di don Luigi Sturzo. Sono periodi in cui le masse rurali umbre, guidate da sacerdoti o da laici politicizzati, dimostrano una forte capacità di impegno, di partecipazione, sostenuta, si badi bene, non da una coscienza di classe ma piuttosto da una forte consapevolezza sociale e civile. Il programma democratico cristiano parla esplicitamente di tutela dei diritti elementari delle classi più indigenti, prende una netta posizione contro coloro che confondevano la giustizia sociale con vaghe idee di patronato. La rivendicazione della sicurezza sociale passa anche attraverso lo sciopero, cioè una mobilitazione che diventa la politicizzazione dei problemi sociali, in primo luogo la volontà di tutelare la sicurezza del reddito delle famiglie mezzadrili. Se cresce la dimensione delle organizzazioni economiche cattoliche, cooperative, casse rurali, società mutuo soccorso, queste sono sostenute da una volontà di progresso materiale sempre accompagnato però dal desiderio di farne uno strumento per la formazione di una coscienza civica piuttosto che una organizzazione confessionale alternativa a quella del mondo liberale o socialista. E tale rete organizzativa si diffuse al punto tale che, stando alla stampa cattolica, nel 1921, le cooperative <<bianche>>, in campagna, erano più numerose di quelle <<rosse>>, legate al movimento socialista. Poco conosciamo, purtroppo, della storia del Partito Popolare in Umbria; sappiamo che quelli del primo dopoguerra sono anni assai difficili, i vescovi dimostrano tanta preoccupazione per il graduale processo di scristianizzazione delle campagne, per i rigurgiti di anticlericalismo, per il dilatarsi del movimento socialista. La lotta per il rinnovo dei patti colonici assume forme di violenta contrapposizione e di fronte agli inviti di alcuni vescovi alla pacificazione sociale e ai sacerdoti a mettersi al di sopra delle parti si verifica invece un fenomeno di sempre maggiore impegno del clero nel Partito Popolare, soprattutto del clero rurale, una scelta legata al radicamento di esso nel mondo contadino e cementata dalla condivisione del tenore di vita, dei disagi, delle lotte. Il Partito Popolare, partito aconfessionale, sembrò l’unico strumento contro le ingiustizie dei padroni e le violenze anticlericali dei socialisti. Un fatto questo della presenza preminente del clero nel guidare la mobilitazione che riconduce ad un nodo cruciale della storia del movimento cattolico umbro: la parrocchia, il sacerdote, appaiono il perno intorno al quale ruotano l’Azione Cattolica, la cooperativa, la cassa rurale, la sezione del Partito Popolare; certamente questa è anche una caratteristica del movimento cattolico italiano, solo che in Umbria, accanto al prete, non si è mai formato un laicato autonomo. Dei celebri binomi che hanno caratterizzato la storia nazionale, basti ricordare l’amicizia tra Giovanni Battista Montini e Igino Righetti, tra padre Gemelli e Giorgio La Pira, tra don Costa e Vittorio Bachelet, in Umbria non ci sono tracce. Forse è proprio per questo che anche momenti forti di mobilitazione, come quelli ricordati, rimangono sostanzialmente una parentesi, occasioni incapaci di produrre un vero cambiamento nel laicato; bastò infatti che l’atteggiamento della gerarchia ecclesiastica, rispetto a quei fenomeni, passasse da posizioni di tolleranza a posizioni di resistenza e di reazione, perché complessivamente la mobilitazione si affievolisse, fino quasi a spegnersi. Fu il caso della reazione antimodernista, che segnò la fine della complessa esperienza murriana, sradicando insieme all’eresia anche i timidi fermenti di rinnovamento sociale e pastorale e scavando un solco profondo tra Chiesa e laicato attraverso l’esilio dei sacerdoti più impegnati verso parrocchie sperdute dove non potevano nuocere e dove si limitarono a semplici attività di pastorale. Fu ancora il caso della breve esperienza popolare con il perentorio invito, da parte dei vescovi, dopo la famosa circolare del 6 giugno 1923 emanata dalla Santa Sede, ai sacerdoti di abbandonare le cariche all’interno delle cooperative e delle casse rurali nell’ambito della nuova strategia politica di Pio XI che, come è noto, voleva realizzare grazie all’opera congiunta di clero e laicato organizzato nell’Azione Cattolica, la restaurazione del Regno di Cristo e che quindi non prevedeva spazi per una formazione politica del laicato cattolico nell’ambito del Partito Popolare.

Assai diversa è invece la situazione storica nella mobilitazione della Chiesa e del laicato nel secondo dopoguerra. In questo caso, se non è possibile appiattire la presenza della chiesa sul piano della prospettiva politica, con il rischio di stravolgere il significato storico di questa presenza, che s’impone come guida morale, appare assai chiaro che essa ha un progetto di rifondazione etica della società. Questo progetto, in Umbria, si scontra subito con il socialcomunismo, ormai straripante, e le due prospettive appaino incomponibili. E’ abbastanza documentata, anche per la nostra regione, una scarsa mobilitazione dell’Azione Cattolica e del clero nei Comitati civici nel 1948;  il laicato umbro insomma non sembra allinearsi all’attivismo geddiano, anche perché era rimasto sostanzialmente estraneo a quel progetto di Azione Cattolica in senso <<larghissimo>>, maturato a metà degli anni Trenta, che mirava a una grande mobilitazione cattolica. Mobilitazione che nel dopoguerra, tranne alcune eccezioni, per esempio Foligno, non ci fu e le elezioni del ’48 confermarono il dato ormai strutturale dell’Umbria come regione <<rossa>>.  La crociata anticomunista, negli anni successivi, impegnò profondamente la chiesa umbra che tuttavia, anche in base ai primi sondaggi, già pubblicati, sembra perdere di vista le profonde trasformazioni in atto nel tessuto economico e sociale della regione, scambiando spesso gli effetti per la causa. Il consenso che il comunismo otteneva nelle campagne era considerato all'origine di tutti gli altri mali, anche del degrado morale che, in particolare, si manifestava con l’allontanamento dall’etica familiare cattolica; tranne che in alcuni casi non si arrivò a una seria analisi dei mutamenti in atto nella regione, con la denuncia della miseria generalizzata e dello sfruttamento cui erano sottoposte le masse  mezzadrili. Solo il Segno, un periodico collocato in una zona di frontiera tra la posizione ufficiale della chiesa perugina e gli ambienti laici della città, già all’inizio del ’48, dimostrò attenzione ai problemi delle campagne prendendo posizione decisamente a favore dei contadini e dei loro diritti.  Non sfugge a nessuno che la storia non offre soluzioni ai problemi dell’oggi con il metro di ieri, non può essere adoperata come strumento di rapporto diretto con realtà, ma non sfugge neanche che essa è necessaria per formarsi e per crescere, come persone e come comunità; è la via obbligata di educazione alla coscienza, alla responsabilità, alla libertà. E alla luce di ciò, riflettendo sulla storia della chiesa e del laicato cattolico in questa regione, viene spontaneo domandarsi se la generale <<chiamata alle armi>> rappresenti il mezzo più adeguato per impiegare a fondo in un progetto attivo di partecipazione le masse cattoliche. Una pacata riflessione sulla storia del cattolicesimo politico nella regione sembra suggerire che quando la mobilitazione si è inserita nel solco di una cultura cattolica, facendo leva su tutto quello che è la tradizione del movimento, la mobilitazione è fallita o parzialmente riuscita; quando, al contrario, il  coinvolgimento ha avuto come elemento un contatto con la cultura moderna, perché la fede non è da sola sufficiente alla mobilitazione, ha avuto un qualche risultato. E’ la strada quest’ultima che ha accompagnato la nascita e la diffusione del Partito Popolare e ha orientato alcuni dei protagonisti di quell’esperienza. Furono uomini, primo fra tutti Venanzio Gabriotti, che compresero che tra fede e politica non poteva esserci né confusione né separazione ma unione e distinzione e che nella distinzione trovavano reciproco rapporto, cosicché l’uomo politico poteva essere allo stesso tempo un autentico cristiano. Uomini che affrontarono l’ardua impresa di tradurre valori in cultura politica laica, non per depotenziare i valori cristiani ma, al contrario, per rafforzarli nella traduzione pratica, estendendoli a tutti gli uomini di buona volontà che potevano convergere sulla loro traduzione politica.

3-Mondo cattolico e Partito Popolare in Umbria. La prima guerra mondiale accelera il processo  di inserimento dei cattolici nello Stato, ponendo fine all’atteggiamento di opposizione e gettando le basi per la  nascita del Partito Popolare. Come infatti aveva sostenuto don Luigi Sturzo, la partecipazione al conflitto significava la completa acquisizione per i cattolici italiani dei diritti di cittadinanza, la possibilità di rivendicare una piena autonomia sindacale e politica con la conseguente libertà del laicato a discutere su tutte quelle materie sulle quali la S.Sede non aveva formulato un giudizio preciso.

Il Partito Popolare, fondato con l’appello Ai liberi e ai forti, lanciato il 18 gennaio 1919, costituì un fatto nuovo nella vita politica italiana; partito laico e aconfessionale, pur nella fedeltà all’ispirazione cristiana perseguiva la laicità della politica, un partito di cattolici che non pretendeva di essere il partito dei cattolici ma di tutti quei cittadini che ne condividevano il programma. Specchio delle esigenze politiche, sociali e morali dell’Italia di quegli anni, il Partito Popolare non fu un’espressione ideologica bensì concretezza storica che senza ritenere di avere in mano la soluzione del progresso umano, senza considerare l’attività politica come sogno di una grande palingenesi, si caratterizzò per la continua ricerca del rapporto con la vita, con la realtà concreta della società. Una visione politica realistica, al di fuori dei progetti miracolistici delle ideologie massimaliste o integralistiche, il popolarismo incentrò il suo programma sulla riforma dello Stato, mirando a realizzare un rapporto nuovo e dinamico tra lo Stato e la società civile attraverso la valorizzazione dei “corpi intermedi”, e sulla libertà della Chiesa. Sturzo criticò severamente la politica degli accordi clerico-moderati e rivendicò la distinzione del momento religioso da quello politico. Il Partito Popolare non sarebbe stato il braccio secolare della Chiesa: nella concezione di Sturzo e degli altri esponenti popolari il rapporto tra Stato e Chiesa si fondava su una concezione di libertà, libertà dello Stato e della coscienza religiosa.

In Umbria la nascita e la diffusione del Partito Popolare riapre antiche lacerazioni e conflitti e anche all’interno della Chiesa, proprio per l’insistenza programmatica sulla distinzione tra politica e religione, sembra essere elemento “discriminante”. I vescovi dell’Umbria, riuniti ad Assisi il 3-4 giugno 1919, discussero se era lecito ai sacerdoti essere impegnati anche con cariche direttive nel nuovo Partito e sulla questione decisero di chiedere istruzioni a Roma. Mons. Liviero, vescovo di Città di Castello, fu incaricato di preparare una serie di quesiti da sottoporre alla Santa Sede; la risposta della Sacra Congregazione Concistoriale, indirizzata al vescovo di Perugia, mons. Beda, e firmata dal card. De Lai, uno dei protagonisti della reazione antimodernista, risultò una chiara presa di distanza dal Partito Popolare.  Dunque, i vescovi dell’Umbria decisero di non assumere una propria linea nei confronti della questione “popolare” e ciò rivela da un alto un legame e una dipendenza troppo forte da Roma e dall’altro indica che nell’episcopato regionale è ancora presente il disorientamento subito durante la vicenda modernista e l’esperienza democratico-cristiana; forte, sembra, il timore di nuovi provvedimenti, senza dimenticare che alcuni dei vescovi di allora erano proprio quelli che Roma aveva inviato in Umbria per contrastare il movimento modernista, come per esempio Beda e Liviero. Nonostante le disposizioni della Santa Sede l’atteggiamento dei vescovi umbri di fronte al nuovo partito dei cattolici non fu uniforme e assunse posizioni e sfumature diverse. A Città di Castello, per esempio, mons. Liviero, nell’aprile del 1919, aveva esortato i sacerdoti a trovare aderenti al partito che aveva coniugato nel suo programma l’aspirazione alla democrazia con il rispetto dei principi cattolici. [1] Nonostante le resistenze e le perplessità, è dato registrare solidi legami tra mondo cattolico e Partito Popolare, soprattutto nelle campagne dove, sul piano organizzativo, il Partito mette le sue radici nella rete dei circoli, delle associazioni, del movimento cooperativo, che formavano il tessuto connettivo del cattolicesimo organizzato. Spesso localmente i circoli di Azione Cattolica quasi coincidono con gruppi o sezioni popolari e  sacerdoti e parroci sono animatori di cooperative, casse rurali e della sezione del Partito Popolare. Diverso, in parte, risulta l’atteggiamento del clero cittadino; nelle città umbre, fortemente interessate da una propaganda laicista, fomentata dalle numerose logge massoniche, in molti si pongono l’interrogativo se il Partito Popolare sia in grado di difendere gli interessi della Chiesa, del clero, dei valori religiosi. Dubbi in proposito vennero avanzati dall’associazione del clero di Gubbio che rimproverò ai popolari di essersi serviti dei parroci e dell’Azione Cattolica senza aver fatto però gli interessi della Chiesa e del clero.  Tuttavia in centri quali Perugia, Foligno, Città di Castello e la stessa Gubbio, troviamo impegnati nel Partito, anche con cariche direttive, sacerdoti che avevano partecipato attivamente all’esperienza del rinnovamento religioso e sociale di inizio secolo; nomi significativi come quelli di Piastrelli, Giovagnoli, Fongoli, Origene Rogari, impegnati a tradurre il concetto di libertà religiosa nella libertà civile, in una nuova dimensione dei rapporti tra chiesa e società. Preti che si avvicinano alla politica con una forte carica etica e con un richiamo costante alle responsabilità del cristiano. Sono ormai abbastanza conosciute e condivise le motivazioni che portarono all’esaurimento dell’esperienza popolare; l’elezione al soglio pontificio, nel febbraio 1922, di Pio XI portò all’accentuazione nella vita della Chiesa di una tendenza gerarchica e centralizzatrice, con la conseguente drastica riduzione dell’autonomia politica del laicato. Nei confronti del Partito Popolare acquistarono sempre più spazio le critiche degli ambienti conservatori che consideravano il popolarismo come residua espressione del cattolicesimo liberale e delle tendenze modernistiche; l’idea di realizzare, attraverso il fascismo, uno Stato cattolico che portasse a unità spirituale la Nazione e restaurasse l’ordine e la pace sociale guadagnò sempre più consensi e in questo progetto ormai il Partito Popolare era solo d’intralcio. La liquidazione di Sturzo e del Partito Popolare rispondeva anche alle esigenze di Mussolini che, constatata ormai la disponibilità della Santa Sede a ricomporre il conflitto risorgimentale attraverso un concordato, nutriva la speranza concreta di realizzare uno Stato Nazionale Fascista nel quale poteva operare la progressiva identificazione del Fascismo nello Stato e nella Nazione. Il primo effetto di tali propositi furono le dimissioni di Sturzo dalla segreteria del Partito nel 1923, motivate dalla volontà di non creare intralci al Vaticano sulla strada della ricomposizione dei conflitti. Le ripercussioni in periferia furono immediate e pesanti; in Umbria  l’atteggiamento di crescente diffidenza dell’episcopato, favorito dalle disposizioni di Roma, il radicamento delle sezioni popolari nella struttura parrocchiale che talvolta non consentirono una autonomia di organizzazione e l’accerchiamento che si determinò nei confronti di parroci e vescovi coinvolti in cerimonie patriottiche al ritorno di salme di caduti, all’inaugurazione di parchi della rimembranza, nella consegna di bandiere alle scuole, portò a un coinvolgimento e ad atteggiamenti concilianti nei confronti delle autorità fasciste. Nonostante i tentativi di rompere questo accerchiamento, di difendere le ragioni stesse dell’esistenza del partito e di riaffermare la sua completa autonomia operati dai dirigenti regionali, da Cingolani, da Gabriotti, da Pericle Perali, da Renato Cirelli, vi fu nel Partito una grossa emorragia degli aderenti verso destra.  Nelle elezioni amministrative del 1923 i popolari presentarono quasi ovunque in Umbria liste autonome in antitesi a quelle del blocco nazional-fascista: a Gubbio furono in prima linea il maestro Gaetano Salciarini, Ferdinando Scavizzi, don Grancesco Baleani e Luigi Stirati; a Orvieto Aurelio Ficarelli e Severino Stella, a Città di Castello Venanzio Gabriotti. Ma proprio le elezioni del 1923 aggravarono la frattura delle due componenti del Partito Popolare: quella cattolica-integrista e quella democratica, che unita alle intimidazioni e alle violenze fasciste determinarono una presa di distanza di laici e clero dal Partito Popolare. Dopo le elezioni del 1924 i popolari di Foligno si lamentarono che il Partito era stato combattuto da tutti, anche dai cattolici. Fongoli, per ordine del vescovo, fu costretto a dimettersi dal Partito, così come don Merli fu costretto a ritirare l’adesione al Partito Fascista. Il caso di Foligno introduce il tema del rapporto tra chiesa, mondo cattolico e fascismo in Umbria, una questione complessa troppo di frequente liquidata con la categoria del clerico-fascismo.  In realtà se, per esempio, l’itinerario di un Faloci Pulignani risulta coerente, integrismo, antimodernismo, interventismo, fascismo, non mancarono anche nella realtà umbra sacerdoti provenienti da itinerari opposti che approdarono al fascismo dopo aver aderito al murrismo e al Partito Popolare: è il caso di don Enrico Giovagnoli. Organizzazioni cattoliche e fasciste, al di là degli scontri del 1924 e successivamente del 1931, sembrano due mondi estranei in una convivenza abbastanza pacifica. Resta tuttavia il problema di recuperare la storia dei luoghi e degli orizzonti culturali che portarono poi numerosi giovani dei circoli cattolici a partecipare attivamente alla Resistenza. Senza nascondere o attenuare le tante compromissioni del mondo cattolico  umbro con il regime si può affermare che vari sono stati gli itinerari e le motivazioni che hanno portato alla manifestazione in Umbria di un antifascismo cattolico: c’è un itinerario legato ai circoli, come quello dei giovani del S.Carlo di Foligno, e c’è un itinerario politico legato all’esperienza del Partito Popolare. Fu attraverso quest’ultimo che giunse alla Resistenza Venanzio Gabriotti, ultimo segretario dei popolari prima dello scioglimento del partito decretato dal fascismo.  L’esperienza popolare fu di breve durata ma evidentemente lasciò una traccia profonda, non insignificante nel mondo cattolico che attraverso i suoi elementi più vivi sentì una forte ripugnanza verso il regime fascista e comprese che con la Resistenza si giocava la libertà, i diritti civili e un sistema politico democratico.

4-L’esperienza di Venanzio Gabriotti

Venanzio Gabriotti è una figura centrale nella storia del cattolicesimo politico umbro; figlio di un garibaldino sembra ereditare dal padre l’attitudine al coraggio e un profondo senso di venerazione per la Patria, ma la sua educazione, incentrata sui  valori cristiani, fu soprattutto opera della madre, Anna Martinelli, verso la quale Venanzio nutrirà sempre un profondo senso di affetto e gratitudine.  Poco più che ventenne, nel 1903, si iscrisse alla Confraternita di Maria Santissima del Buonconsiglio e della Morte, un’associazione di volontari che attraverso regole severe e precisi rituali, si incaricava del trasporto e della sepoltura dei cadaveri  e fu probabilmente attraverso l’associazionismo cattolico che giunse al contatto con don Enrico Giovagnoli, il prete seguace delle idee di Murri che impresse una forte accelerazione al movimento cattolico nell’Alta Valle del Tevere. Con Giovagnoli e i circoli della Nova Juventus, il cattolicesimo sociale abbandona l’azione paternalistica e abbraccia un’autentica iniziativa popolare; senza contraddizioni con il passato, il murrismo spinge i cattolici sul terreno del confronto  e della competizione con le altre forze politiche e provoca un profondo rinnovamento culturale e spirituale. Un nesso imprescindibile viene a instaurarsi tra riformismo religioso e riformismo politico-sociale; soprattutto tra il clero si registra  una eccezionale circolazione di idee che provoca un moto generale di rinnovamento, un lavoro intellettuale e critico  che, pur con qualche indeterminatezza, tenta di armonizzare libertà e democrazia con la cultura cattolica, di elaborare un nuovo approccio alla modernità, facendo sempre attenzione a salvaguardare il  nucleo immutabile del dogma. Questo vasto processo di rinnovamento non si esaurì solamente sotto il profilo sociale e politico, l’istanza non transitò tanto attraverso una capillare diffusione di strutture, né accentuando una marcata impronta movimentistica, quanto piuttosto attraverso un orientamento di fondo che privilegiava la formazione delle coscienze. Forte di queste convinzioni Gabriotti lavorò a Faenza  impegnandosi nella diffusione del movimento cristiano sociale, fino a diventare segretario della federazione delle Casse rurali della Romagna; fu probabilmente la permanente volontà di non subordinare mai l’aspetto culturale a quello politico e organizzativo a causare dissidi con l’ambiente cattolico romagnolo, dissidi che si palesarono in  un aperto contrasto con il conte Carlo Zucchini, punto di riferimento del locale associazionismo cattolico. Ma contrasti Gabriotti li ebbe anche con il nuovo vescovo Liviero, un padovano, inviato da Roma nell’inquieta Alta Valle del Tevere, al fine di normalizzare l’ambiente cattolico, che operò una forte centralizzazione dell’attività pastorale riducendo di fatto gli spazi e l’autonomia di clero e laicato. Non rinunciava infatti Gabriotti a rivendicare la propria autonomia, ad affermare i propri convincimenti riformatori e democratici, a rivendicare ruoli e responsabilità nelle competizioni sociali, sia pure con la prudenza dettata dai sospetti e dalle diffidenze di una chiesa che temeva l’insorgere di deviazioni modernistiche anche sul terreno delle proposte economiche e sociali. La guerra fu un avvenimento centrale nella sua vita: partito volontario, lui che era stato riconosciuto inabile al servizio militare, combatté valorosamente sull’altopiano di Asiago, sull’Isonzo, sul Monte Grappa; ferito alla testa, tornò al fronte e si comportò con tale spirito di abnegazione da meritare due medaglie d’argento e numerose medaglie di bronzo. La guerra lo aveva trasformato dentro; tornato a Città di Castello e ripresa l’attività politica assume un atteggiamento più riflessivo, alieno da qualsiasi radicalismo; egli aveva compreso perfettamente  che le cose erano cambiate, la guerra era finita e sulla scena politica e delle lotte sociali, come torrenti in piena, si sarebbero riversati i grandi movimenti di massa. Nella piccola Città di Castello egli sarebbe stato protagonista della nascita di quel Partito Popolare Italiano il cui merito principale, secondo Sturzo, fu di aver condotto a servizio del paese, nell’ambito delle strutture dello Stato liberale, la <<maggioranza democratica dei cattolici italiani>>. Anche nell’Alta Valle del Tevere, come nel resto della Penisola, gli anni del primo dopoguerra furono anni difficili, anni di caroviveri, di tensioni sociali, di lotte contadine; Gabriotti rientrò a Città di Castello alla fine del luglio 1919, era assente da quasi 13 anni, la guerra aveva consolidato la sua fede, ma per temperamento non era certamente un uomo che si sarebbe chiuso in sagrestia nel bel mezzo di uno scontro politico e sociale che avrebbe ridisegnato la società italiana.  Dietro l’incitamento del vescovo e con l’abilità organizzativa di don Giovagnoli anche in città era sorta una sezione del Partito Popolare, strettamente collegata ai circoli dell’Azione Cattolica e propagandata dal settimanale “Voce di Popolo”. Gabriotti si iscrisse al partito, aveva bisogno di un lavoro e mettendo a frutto l’esperienza maturata in Romanga nel cooperativismo cattolico accettò la segreteria dell’Unione del Lavoro, il sindacato di ispirazione cristiana. Fu in occasione delle elezioni politiche del 1919 che ebbe modo, durante  un comizio a sostegno del candidato popolare, di esporre le proprie idee politiche e di motivare la scelta a favore del popolarismo: << E’ un partito nuovo, pieno di fede e di vita  -affermò – Ha nel suo seno –lo ammettiamo pure – anche uomini che nel passato furono attaccati a concezioni economico-sociali oggi superate; ma ha dall’altro canto uomini decisi a lottare con tutta la forza per la conquista delle più ardite riforme>>. Riguardo poi alla distanza che separava il nuovo partito dal partito socialista, oggetto spesso di sarcasmo da parte dell’area più intransigente e conservatrice del mondo cattolico, Gabriotti  puntualizzò che il popolarismo aveva l’ambizione di sfidare  il socialismo  sullo stesso terreno, lottando affinché “chi veramente produce abbia l’intero frutto del lavoro e sia il vero ed il più legittimo amministratore della pubblica cosa”;  tuttavia, nonostante le ammesse affinità, non accettava il metodo della  lotta di classe. In quel tormentato dopoguerra, Gabriotti si impegnò affinché la competizione elettorale restasse entro i binari della correttezza e del rispetto degli avversari, guadagnando, sul campo, la stima di tutti i cittadini; le urne sancirono la vittoria dei socialisti, in Umbria i popolari si attestarono sul 16-17 % ed elessero un solo deputato, Mario Cingolani. Delusione e amarezza non offuscarono la lucidità di Gabriotti che sul giornale “Voce di Popolo”, commentando il risultato elettorale, riconosceva la piena vittoria dei socialisti e molto realisticamente analizzava le cause della sconfitta popolare: “Il nostro programma di vera e spinta democrazia turbava molte coscienze interessate e non una volta ci siamo uditi ripetere: siete troppo spinti; così vi confondete con i socialisti […] Erano consigli interessati di gente che temeva dal popolo la condanna alla propria ignavia, alla propria grettezza ed al proprio egoismo”. Riconfermò quindi l’indole riformista del popolarismo e il suo interesse, senza compromessi,  per le classi sociali più deboli: “Vogliamo essere minoranza, ma decisa a rompere i ponti con tutto quanto socialmente rappresenta il passato”. La vittoria elettorale dei socialisti fece sì che l’Alta Valle del Tevere diventasse terra di mobilitazione, le manifestazioni pubbliche si susseguivano, con canti rivoluzionari e sventolio di bandiere rosse; Gabriotti, ormai leader dei popolari tifernati, cercò di non alimentare gli eccessi del dibattito politico che andava ormai profilandosi come uno scontro decisivo tra il bene e il male. Intensificò l’attività sindacale, notevole fu, per esempio, il successo ottenuto nella difesa dei diritti dei minatori di Sansecondo, assumendo sempre posizioni di prudente riformismo che lo portarono però a entrare in conflitto con don Enrico Giovagnoli, fautore, invece, di scelte radicali che perseguivano una ripartizione della terra ai contadini e una collaborazione con i socialisti. Il primo maggio 1920 fu una giornata di violenze a Città di Castello, lo scontro tra cattolici e socialisti raggiunse l’apice , lo stesso Gabbiotti rischiò dui essere ucciso e i fatti di sangue ebbero pure una eco a Roma dove don Sturzo protestò con Nitti a causa dell’assoluta assenza delle forze dell’ordine incaricate di conservare la libertà di espressione e la giustizia. Anche in famiglia cominciarono a manifestarsi serie preoccupazioni per la vita di Venanzio e la madre lo implorò di abbandonare la lotta politica. Gabriotti, che pure era legato alla madre da un profondo affetto, non ascoltò le suppliche, convinto com’era che per un cristiano l’attività politica incarnava l’idea evangelica del prossimo, del farsi prossimo, cioè di capire da di dentro le necessità e le attese dell’altro e di farsene carico come se fossero proprie. Accettò infatti, in occasione delle elezioni amministrative del 1920, di candidarsi sia nella lista per il Consiglio Provinciale che in quella per il Consiglio Comunale; ottenne un discreto successo personale e divenne consigliere di minoranza nell’assemblea comunale tifernate nella quale esordì con un discorso dai toni concilianti, collaborativi verso la maggioranza e il sindaco socialista, impegnati strenuamente a recuperare una grave crisi finanziaria . Di fronte all’ascesa del movimento fascista, anche in Umbria i popolari si divisero: una parte assisteva con soddisfazione allo smantellamento dell’organizzazione socialista, un’altra, con Gabbiotti e pochi altri, non condividevano né i mezzi violenti né le idee del fascismo. Affinché il mondo cattolico confluisse, senza remore, nel fascismo era necessario emarginare Gabbiotti e proprio su di lui si concentrarono le attenzioni dei fascisti locali. La stampa fascista lo definì “l’anima dell’opposizione tifernate”, lanciando contro di lui accuse infamanti pur di screditarlo. Fallito questo tentativo, attraverso il cognato, fascista convinto, si cercò di allontanarlo dal Partito Popolare promettendogli cariche importanti. La risposta di Gabriotti resta un’alta testimonianza di attaccamento alla libertà e di amore per la democrazia; giudicava una viltà l’abbandono del Partito Popolare, non voleva essere messo alla pari di coloro che “per miraggi ambiziosi” cambiavano opinione ogni volta che le circostanze lo consigliavano “dimostrando così – scriveva al cognato – di non aver mai avuto una convinzione sincera ma di seguire sempre le correnti più forti e più facili”. Insomma, pur di svigorire la sua opposizione, il regime le provò di tutte, gli tolse lo status di ufficiale in congedo e la guida dell’Associazione Mutilati e Invalidi di Guerra, ne infangò la reputazione,  fece ricorso anche a brutali forme di intimidazione, ma non riuscì a piegarlo. Gabbiotti conservò sempre  una forte ripugnanza verso il regime fascista e dall’esperienza popolare arriverà subito alla Resistenza, comprendendo che quella scelta era a favore della libertà e dei diritti civili, nonché passaggio necessario per l’instaurazione di un nuovo sistema democratico. 

Si è molto discusso, in sede storiografica, sulle motivazioni che portarono i cattolici a partecipare alla lotta partigiana: motivi patriottici, morali e religiosi si intrecciano ma sembra che in molti diari di resistenti cattolici non si trovino “indicazioni politiche”; sembra prevalere la scelta di un’attività assistenziale a favore dei rifugiati e dei perseguitati.  Apparve allora, in tutta la sua evidenza, il ritardo della cultura politica dei cattolici; anche in Umbria l’impreparazione politica di quella generazione che compiva vent’anni tra guerra, Resistenza e ripresa democratica, viene sottolineata dalla testimonianza di Giorgio Battistacci, che ricorda l’assoluta mancanza nei giovani cattolici, formati in periodo fascista e convinti della bontà dell’organizzazione della società e dello stato attuata dal regime, “di qualsiasi formazione politica e di capacità di compiere scelte politiche”.  Emerge allora, in quel contesto, anche in Umbria, il ruolo decisivo della generazione  ex popolare: di Gabriotti a Città di Castello, di Salciarini a Gubbio, di Vischia a Perugia; erano uomini in grado di riprendere l’iniziativa, perché conoscevano le regole della lotta politica, le sue forme organizzative ed istituzionali. Gabriotti afferra subito la dimensione politica del movimento resistenziale; c’è in lui la consapevolezza dell’apertura, dopo la caduta del fascismo, di una nuova fase della storia italiana. Proprio questa consapevolezza, alimentata certamente anche dalla sua intensa umanità e spiritualità, lo convince della necessità di non  essere strumento di promozione di un clima di rivincita o peggio di vendetta, ma lo sollecita ad assumere un ruolo di mediazione e di pacificazione. Furono poi le situazioni contingenti, il disgusto per il modo in cui era stata condotta la guerra e, di conseguenza, il rifiuto del tedesco invasore, a determinare il rapidissimo evolversi della situazione e a costringerlo alla scelta.

Gabriotti percepisce la pena e le preoccupazioni di tante famiglie, anche il nipote Venanzio si trovava nell’elenco dei chiamati, avverte la necessità di partecipare, non se la sente di “restare fuori della mischia”. Una scelta certamente motivata da profonde ragioni di sopravvivenza degli amici, della comunità, ma libera, guidata dalla coscienza e da una forte tensione verso un futuro migliore.

Scelta libera e operata in solitudine. Esiste, è vero, intorno a Gabriotti, una rete di contatti e di solidarietà che sembra agevolare il passaggio da una resistenza personale e occasionale, a una forma coordinata di opposizione al nazi-fascismo, tuttavia egli agì in modo autonomo, senza ricercare le direttive del vescovo, che pure aveva mediato per liberarlo, dopo l’arresto avvenuto a causa della pubblicazione del “foglio” Rinascita. Si tratta di una svolta importante, soprattutto nella storia del cattolicesimo locale, che aveva visto sempre il clero in prima linea nell’ attività sociale e politica e un laicato sempre sottoposto all’autorità e alla disciplina della dottrina. La scelta di Gabriotti, come degli altri resistenti cattolici, inaugura allora una nuova fase del rapporto tra fede e politica, fa scoprire nuovi ruoli e nuove responsabilità ponendo le premesse per una nuova presa di coscienza dei compiti del laicato nella Chiesa. In realtà, quello che emerge dal suo diario, di recente pubblicato, è che, in quel frangente, si verificò un vuoto di autorità; l’assenza dello Stato, la mancanza di direttive chiare e precise appare evidente: “ la strana situazione di questo periodo - scrive Gabriotti - è che non vi è un governo vero e proprio, perché non vi è chi veramente delibera e si presenta come vera autorità”. Dopo l’8 settembre, anche a Città di Castello, si registra un diffuso atteggiamento di estraneità nei confronti della  Repubblica Sociale, non era sicuramente vista come la nuova autorità statale, perché non dimostrava la capacità di difendere la vita e la sicurezza dei cittadini e finì per essere identificata con gli occupanti tedeschi. Emerge invece un solido attaccamento alla monarchia; secondo Gabriotti, molti tifernati, ma sembra essere solo una scusa, rifiutano di aderire alla Repubblica Sociale proprio a causa del suo carattere repubblicano. Anche tra gli avversari della monarchia sembra prevalere la necessità di ritrovare l’unità intorno alla figura del Re, lasciando per il momento in disparte “le divergenze di principio, per difendere il patrimonio sacro della Nazione: la sua indipendenza”. Non manca tuttavia di sottolineare, anche Gabriotti, in più parti del suo diario, le pesanti responsabilità della corona; la sera di sabato 2 ottobre, dopo aver ascoltato per radio un messaggio del Re, scrive: “ Oggi tutti dobbiamo per amore d’unità essere a lui legati, ma molte delle parole da lui dette suonano condanna per lui stesso, perché non può esimersi dalla responsabilità di essere stato per venti anni sordo al grido del popolo oppresso e che reclamava la fine del fascismo. E’ quindi lui che ha portato la Patria a questa terribile situazione di provocare la guerra civile e a vittoria conclusa non potrà non subire le conseguenze con la perdita della Corona” . L’ idea della Patria tradita, la intollerabile situazione che consentiva alle truppe tedesche di spadroneggiare nel territorio italiano, sono motivi dominanti nelle pagine del diario; Gabriotti, spesso, si sfoga e si commuove: eroe della Grande Guerra, è costretto ad ascoltare la radio delle stazioni di Roma e Firenze parlare “per venti minuti in tedesco e cinque in italiano” ;  un discorso di Badoglio, che definisce “voce amica”, voce della Patria”, trasmesso da Radio Algeri, termina con l’inno del Piave, un canto che rievoca “i giorni tristi della Patria” ma in grado anche  di “ridestare” nel vecchio soldato  “lo spirito giovanile” ed il desiderio di riprendere “la lotta contro l’eterno invasore”. Quello che Gabriotti proclama è un collegamento tra il Risorgimento e la nuova  guerra di liberazione; figlio di un garibaldino, sente tutto il peso di questa eredità, e quando, pochi giorni dopo la firma dell’armistizio, un manifesto rende noto che l’Armata tedesca ha assunto tutte le responsabilità della sicurezza della popolazione, non esita a scrivere : “Ricomincia l’epopea del Risorgimento”.  La Resistenza considerata come un secondo Risorgimento è stata la proposta interpretativa che, nata nell’ambito della cultura cattolica negli anni del centrismo, ha avuto poi un notevole successo, ma appare oggi un collegamento forzato.  In realtà, se - come ha scritto Antonio Parisella - “della Resistenza si vuole sottolineare il carattere popolare o, se si preferisce, nazionale, occorre riferirsi ad un’idea di nazione diversa da quella che intendevano le classi dirigenti dell’Italia liberale e del fascismo. Ciò significa riconsiderare della Resistenza gli elementi di discontinuità rispetto alla storia dell’Italia e il loro intreccio conflittuale con quelli di continuità”. Durante il periodo della Resistenza prese corpo un blocco sociale inedito, che qualifica la Resistenza eventualmente come un Risorgimento “diverso” rispetto al primo. Nonostante il collegamento, anche Gabriotti sembra consapevole, del resto, della originalità della nuova guerra di liberazione e del passaggio da quello che definisce “un tronfio patriottismo, basato sulla deificazione di un uomo” a un nuovo sentimento di Patria, che vuole non solo libera dall’oppressore tedesco ma anche più vera e giusta. E’ presente in Gabriotti l’idea, assai cara ai popolari e a Sturzo in particolare, della Resistenza come riconferma dell’indissolubilità dell’amore di Patria dalla concezione della libertà;  il proposito della liberazione dell’Italia, dell’Umbria, della sua città, dalla tirannide nazi-fascista non era immaginabile indipendentemente dalla liberazione del “cittadino”, dal ripristino di un “sistema” di diritti politici, civili e sociali. Sulle ceneri della dittatura, dopo l’8 settembre, nasce una nuova idea di cittadinanza, che si coagula intorno ai valori di libertà e democrazia e segna, per questo, una forte cesura, non solo con il fascismo ma anche con l’ordinamento liberale. Una convinzione che trova conforto anche nei pochi accenni al programma politico della Resistenza presenti nelle pagine del diario; pur di fronte a comportamenti e atteggiamenti diversi, è reperibile un tessuto di valori comuni, in cui la dimensione nazionale e le istanze di giustizia sociale si intrecciano; resta emblematica, in questo senso,  la partecipazione di Gabriotti alla festa del Primo Maggio, a Pietralunga, “zona libera”, allorché, resosi conto del largo consenso che le istanze di rinnovamento sociale portate avanti dai partiti della sinistra  ottenevano tra i partigiani,  esclamò: “Sono venuto quassù per portare  un po' di tricolore in mezzo a tanto rosso”. Gabriotti recupera, nel suo programma politico, tutto il patrimonio culturale del popolarismo;  in una lettera, inviata agli amici democristiani altotiberini, nella quale traccia le linee del partito nuovo dei cattolici, ribadisce la scelta aconfessionale, di un partito aperto a tutti coloro che avevano a cuore il principio di libertà e il rispetto della dignità umana, l’ispirazione cristiana ma anche la convinzione che il nuovo soggetto politico doveva avere  “carattere democratico spinto [...] Un partito di centro fortemente e decisamente orientato a sinistra, da poter combattere con programma deciso, risoluto e realizzatore, l’estremismo comunista”.  Era salda in lui la convinzione che il fascismo aveva interrotto un’esperienza politica valida, in grado di eliminare la piaga del clientelismo e del trasformismo e di favorire un confronto tra le forze politiche attraverso i programmi; un partito che aveva superato le contraddizioni politico-religiose della storia del movimento cattolico e che, in sintonia con le nuove esigenze dell’azione politico-parlamentare, sceglieva di attuare, attraverso la democrazia politica, un vero programma riformista.  A nulla servì il ricordo della delusione, delle amarezze e delle beffarde accuse che Gabriotti dovette subire all’indomani della sconfitta elettorale del novembre 1919; allora il Partito Popolare fu accusato di avere un programma troppo “spinto” e i popolari di essere dei “bolscevichi neri”, di confondersi con i socialisti e di allontanare di fatto i settori più moderati e incerti del mondo cattolico.  Ma Gabriotti, nel ‘43, sembra quasi gioire di questa contaminazione: ad un gruppo di giovani, provenienti da Sansepolcro, che lo “ritenevano socialista” e che lo contattarono per collegarsi alle organizzazioni partigiane, spiegò che non era socialista ma democratico cristiano, ma aggiunse anche che non contavano “le denominazioni” perché allora era necessario “riesaminare tutti i programmi per ispirarsi tutti ad un unico fine : il bene materiale e morale del popolo”. Annotava poi, quasi soddisfatto, nel suo diario: “ Ho capito che essi credevano alla formazione di una società basata sui principi da me enunciati e che al movimento che stanno creando in questa zona hanno dato il nome “socialista”, ma potrebbero dare di democratico-sociale”. Le cose, come è noto, non andarono nel senso immaginato da Gabriotti e dopo gli anni dell’unità resistenziale, le forze politiche protagoniste della Resistenza si sarebbero divise e aspramente combattute: così, la memoria delle origini dell’Italia Repubblicana è rimasta fortemente condizionata dalla divisione del mondo in blocchi rigidamente contrapposti. Dopo le elezioni del ‘48 fu lo scontro comunismo anticomunismo a polarizzare la politica italiana  e in questo contesto “il riferimento ad un comune fronte antifascista divenne più difficile per entrambi gli schieramenti”. A più di cinquant’anni di distanza dalla nascita della Repubblica sugli eventi che l’hanno generata rimangono ancora tra gli storici pesanti divergenze di giudizio e “l’idea di una Repubblica viziata sin dall’origine dal compromesso consociativo catto-comunista convive astiosamente e polemicamente con l’idea di una democrazia riconquistata dall’antifascismo in una prospettiva di rinnovamento subito raggelata nell’anticomunismo”. L’esperienza di Venanzio Gabriotti, credo senza forzare la storia, resta a dar ragione di quello spirito collettivo, di quell’ansia di libertà e di rinnovamento sociale, di quel comune sentire contro la dittatura,  che interessò le diverse militanze politiche e le diverse convinzioni personali; un tessuto di valori comuni che ha costituito un patrimonio sotterraneo, ma tenace, per la vita civile della nuova Italia.


[1] Secondo le direttive, espresse in una lettera pastorale del 9 maggio 1919, i sacerdoti erano liberi di aderire al Partito per quanto riguardava il movimento elettorale, per il resto dovevano però dipendere dall’autorità ecclesiastica . Dopo l’esito non esaltante del Partito popolare, nelle elezioni del 1919, il vescovo ne indicava le ragioni nella mancanza di una organizzazione in mezzo al popolo e di educazione religiosa e soprattutto di non aver chiarito bene il significato del termine “aconfessionale” per cui molti avevano ritenuto il partito, secondo il prelato,  non conforme allo spirito religioso.

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