Il tabù della legge elettorale

Durante il periodo pre-elettoriale sembra che l’Italia (non so se questo accada anche in altri Stati) sia colta da una improvvisa patologia  per la quale tutto è lasciato all’improvvisazione, ci si prodiga a cavalcare “l’onda emotiva”, l’irrazionalità prevale sul ragionamento e la politica diventa ancor più confusa di quella che è normalmente.

Io sono tra quelli che non si arrende alla prospettiva di considerare questa malattia incurabile; molti politici parlano delle elezioni come un momento in cui “scomodare i cittadini”, come se recarsi al seggio elettorale fosse un’impresa titanica, la fatica che scompensa i ritmi biologici di un meritato riposo domenicale.

Penso, piuttosto, che le elezioni debbano essere un momento importante della vita civile in cui tirare le somme di quello che si è fatto, evidenziare soprattutto gli errori per non ripeterli in futuro, rimettersi in gioco cercando di migliorare, cercare nella oggettività dei risultati positivi e negativi la proposta per il lavoro futuro. Forse è questa la vera fatica che durante il periodo elettorale si deve sopportare.

Credo che tra i temi che le forze politiche avrebbero dovuto maggiormente tenere in considerazione ce ne sia uno che riguarda più in generale il sistema politico e proprio perché tema generale (riguarda trasversalmente tutte le forze politiche) meritevole della massima attenzione: la legge elettorale. Parlare di questo tema per me fondamentale in questo momento storico sembra invece un tabù, forse perché non ha quell’impatto che invece ha avuto all’indomani della caduta della Prima Repubblica (sempre che questo evento epocale sia veramente accaduto), come se  fosse stato l’antidoto per curare tutti i mali.

Il 18 aprile del 1993 si celebrò un referendum che trasformò il sistema elettorale del Senato da misto qual era (ma sostanzialmente proporzionale) in un sistema in prevalenza maggioritario.  Per ragioni di uniformità fu poi modificata la legge elettorale anche per la Camera in senso maggioritario ma con una quota proporzionale.

Quel referendum me lo ricordo benissimo perché fu la prima volta che mi recai alle urne e l’emozione delle “prime volte”, si sa,  ti accompagna per tutta la vita. Fui fra l’ 83% degli italiani che votò sì. Sembrava che quel sì fosse quasi un voto di protesta espressione della volontà appoggiata da molti partiti politici di cambiare pagina, di abbandonare il vecchi sistema politico corrotto e capace delle peggiori nefandezze per tuffarci in un futuro migliore pieno di belle speranze.

Allora avevo solo 19 anni, la mia non fu una scelta molto ragionata, non so nemmeno se ero pienamente responsabile di quello che stavo facendo; oggi, dotato forse di maggiore responsabilità, credo però che rifarei la stessa scelta, sono ancora a favore di un sistema elettorale maggioritario.

Nella dottrina costituzionalista la legge elettorale è un campo dove prevale l’opinabilità, stabilire cioè se è meglio il sistema maggioritario o il sistema proporzionale è un’impresa assolutamente vana.  Temistocle Martines, uno tra i più eminenti giuristi in materia, prematuramente scomparso nel 1996, diceva però che la validità dell’uno o dell’altro sistema elettorale non può misurarsi in astratto bensì con i dati forniti dall’esperienza nel corso degli anni della sua concreta applicazione.

L’esperienza di cinquant’anni di  sistema proporzionale è costellata di governi che si sono succeduti con una frequenza davvero sbalorditiva impedendo al potere esecutivo di svolgere con continuità il proprio compito istituzionale. Questa instabilità non ha permesso di dare applicazione a molti principi espressi dalla nostra Costituzione, non ha permesso di introdurre quelle riforme essenziali per l’Italia, ha prodotto legislazioni legate al contingente e quindi non dotate della necessaria organicità; la mancanza di continuità ha poi impedito anche una politica finanziaria oculata con il risultato di portare a livelli stratosferici il debito pubblico (120% rispetto alla ricchezza prodotta). Non sono tra quelli che necessariamente sente il bisogno di demonizzare la Prima Repubblica, ma questi sono i risultati di cinquant’anni di instabilità politica a cui credo abbia contribuito in modo decisivo anche il sistema elettorale proporzionale.

Molte forze politiche, scomparse le istanze da anti-Prima Repubblica, ripropongono il sistema proporzionale sostenendo il fallimento del sistema maggioritario visto che non è riuscito a dare quella stabilità che ci si attendeva (dal 1994 si sono avvicendati 6 governi).

Io credo che il mancato raggiungimento di quei risultati che il sistema maggioritario avrebbe dovuto realizzare sia da addebitare alla volontà dei partiti di far prevalere la logica di partito, di coltivare cioè il proprio orticello a discapito dell’interesse comune.

Il sistema maggioritario presuppone la necessità che le forze politiche per poter governare si uniscano in modo da  formare un progetto di governo solido, credibile, con il contributo ed il sostegno reciproco di tutte le anime che sostengono un determinato disegno politico. Questo progetto deve essere il frutto di un dibattito politico approfondito dove le diverse forze politiche che vi partecipano, senza perdere necessariamente la propria identità, diano il proprio contributo. Credo che una vera e propria volontà di dar luogo a questo tipo di sistema sia stata attuata solamente nel 1996 con il progetto di Romano Prodi di creare una programma di governo unendo le istanze socialdemocratiche e riformiste della sinistra italiana e le anime moderate del centro. Questo progetto di coesione di forze e di sintesi di valori voluto da Prodi fu ispirato da quel piccolo e sfortunato movimento che ha avuto il merito storico di teorizzare questa nuova proposta politica: Alleanza Democratica.

Il progetto dell’Ulivo di Romano Prodi credo sia naufragato grazie alla cecità di chi ha voluto far prevalere la logica di partito a quella di un progetto di più ampio respiro; credo che questa cecità abbia caratterizzato l’operato di chi, all’indomani della caduta del governo Prodi, non ha voluto ripartire e ricominciare a costruire una coalizione resa ancor più forte dei risultati raggiunti dal governo Prodi, ma rimanere seduto nella sicurezza dello scranno parlamentare con giochi politici (questi sì da Prima Repubblica) che hanno comprensibilmente ridotto quella credibilità che tutto il centro-sinistra è riuscita ad ottenere durante il Governo Prodi.

Questo modo di intendere la politica credo sia del tutto estraneo invece al centrodestra in cui non prevale una logica di coalizione politica fondata su un dibattito tra le varie forze che la compongono, ma si identifica e fa riferimento ad un’unica persona che non è semplicemente il soggetto indicato per dar seguito ad un programma di governo, ma è lui stesso il centro del progetto politico finalizzato a se stesso: è Berlusconi che pensa a tutto, tanto che in questa campagna elettorale il programma della Casa delle Libertà si identifica nei libri in cui sono contenuti i discorsi a braccio del Cavaliere.

Credo quindi che, prima ancora che dei programmi, si debba discutere su come formare i programmi politici e personalmente credo che un sistema elettorale di tipo maggioritario sia quello più idoneo per costringere i singoli movimenti politici che intendono governare il Paese a costituire coalizioni la cui affidabilità si misura sul grado di democraticità interna e sul contributo delle singole forze.

Tuttavia la legge elettorale è comunque uno strumento per la realizzazione di un sistema politico che mi piacerebbe si verificasse. Il sogno di realizzare questa prospettiva nasce dall’esperienza vissuta all’interno dell’Istituto S.Carlo: l’idea che tutti noi siamo importanti per realizzare un progetto perché ciascuno di noi nella sua diversità è portatore di un contributo importantissimo, è corresponsabile del bene di tutti nel momento in cui si pone all’ascolto degli altri. Durante l’esperienza sancarlista per me è stato esaltante sperimentare che questo è possibile: fondere le vocazioni e le capacità di tutti per il bene comune superando l’egoismo che si annida in ciascuno di noi.

Roberto Muzi

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