Il Flauto in Sicilia:

il messinese.

 

Nelle vacanze di un danzatore popolare possono capitare molte cose, tra cui incappare casualmente in appassionati del settore, nella splendida Sicilia ed apprendere di iniziative eccezzionali, anche se, purtroppo isolate, che sarebbe auspicabile fossero estese a tutto il territorio nazionale.

La Provincia regionale di Messina pubblicò, nel 1994 una ricerca, effettuata nel proprio territorio, sugli strumenti popolari ancora in uso e pubblicò i risultati in un magnifico libro oramai introvabile e di cui vorremmo, a scopo divulgativo, pubblicare ampli stralci.

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friscalettu, frautu

<<Né difettano mai gli stramborri tradizionali ed i fiori o stornelli -scrive Salomone Marino- quali sono cantati solitamente da’ giovani con accompagnamento di scaccia - pensieri (mariolu, ‘ngannalarruni) o di zufolo (friscatettu), strumenti che essi abitualmente sogliono recar in tasca>>. E Leopoldo Mastrigli: <<…nel ballo degli schiavi suonansi tre istrumenti turcheschi: il piccolo tamburo, il piffero e il circhietto con sonagli». E ancora: «tra i differenti stromenti in uso presso il popolo siciliano, ricordo oltre a quelli già nominati: le castagnette (scattagnetti), adoperate nelle novene di Natale, il flauto (flautu) ne’balli e ne suoni d’ogni sorta (...). Dopo il banchetto - aggiunge - ecco il sonu, il ballo nuziale nel quale gli sposi danzano a perdifiato, all’agreste suono del friscaletto (flauto di canna) e del tammureddu». Il flauto di canna prende poi parte, come ci ricorda Pitrè, al suono carnevalesco della Tubbajana (orchestra ambulante).

«Non ci sono feste senza musica, canti e danze - scrive Hélène Tuzet, riportando le note di viaggio di Barteìs - i ballerini girano ognuno per proprio conto con grazia e dignità (...); di solito queste danze sono accompagnate da flauti, cennamelle ed altri strumenti a fiato>>.

Anche Alexandre Dumas, in viaggio in Sicilia, nella prima metà dell’Ottocento, ci lascia una puntuale e briosa cronaca di una festa tradizionale, quella celebrata sulle rive del lago di Ganzirri per onorare il patrono locale S. Nicola, dove un ruolo musicale di primissimo piano è riservato al flauto: «Si danza da soli, in due, in quattro, in otto ed in un numero indefinito di partecipanti e come si vuole, un uomo con un’altro, una donna con un’altra (...). Per quanto concerneva la musica che metteva in movimento tutta quella gente, non era, come da noi, riunita in un solo punto, ma era disseminata sulle rive del lago; l’orchestra si componeva di due soli musicisti, uno suonava il flauto e l’altra una specie di mandolino».

Sono queste alcune delle testimonianze che si possono rintracciare nella letteratura demologica del secolo scorso o nei resoconti dei viaggiatori stranieri in Sicilia nel Settecento e nell’Ottocento, dove emerge come presenza centrale nei contesti festivi della cultura popolare siciliana il flauto. Si tratta spesso, comunque, d’indicazioni generiche che lasciano, in taluni casi, un margine d’ambiguità sulla classificazione organologica.

Non si è difatti sempre certi che si tratti proprio dello strumento di cui vogliamo occuparci, cioè del flauto diritto di canna a bocca zeppata . Ma ragionevolmente, anche sulla base delle ricerche etimologiche condotte sui dizionari d’epoca, dove il friscalettu è indicato, nella maggioranza dei casi, come strumento rustico di canna, si può per lo meno ipotizzare che in generale le indicazioni bibliografiche riportate sopra si riferiscono al flauto.

A differenza d’altri strumenti come, ad esempio, il violino, richiestissimo prima nei contesti di festa popolare e che dai primi decenni del ‘900 scompare progressivamente dagli ambiti musicali tradizionali - ciò è determinato in parte dall’emigrazione degli artigiani, abituali suonatori di questo strumento - il flauto sopravvive ai profondi mutamenti che investono il tessuto socio­culturale contadino e pastorale nei primi decenni del nostro secolo, adattandosi alle mutate esigenze musicali delle classi popolari, al nuovo repertorio di ballabili, ma conservando nel contempo alcune sue prerogative e funzioni esclusive di strumento pastorale replicando quasi intatte le modalità costruttive ed i caratteri organologici.

Di come il flauto si faccia portatore delle nuove istanze musicali, senza però rinunciare del tutto a quelle tradizionali, così scrive Salomone Marino: <<… due suonatori, l’uno costantemente col contrabbasso e l’altro collo zufolo o col violino, non mancano mai in un comune: e questi, la domenica, si piantano in una piazza, dove, non appena hanno date l’aria a due note, veggonsi circondati da una folla di giovini villici che vogliono far prova dell’abilità (…). Que’musici da strapazzo vi danno un pezzo (un caddozzu) di fasola, o di tarantella, a vostra scelta (…), tutte musiche e balli popolari, un tempo accompagnati eziandio al canto, i quali a’dì nostri però vanno cedendo il luogo alla polka ed alla quatriglia e ad altri balli d’arte che i campagnoli s’industriano d’imitare».

La presenza del flauto di canna nei contesti di musica popolare è una costante che non sfugge poi ai ricercatori che, sulle orme del vasto lavoro di ricerca del Pitrè e dei primi demologhi, osservano le espressioni musicali di tradizione orale fino ai nostri giorni.

Tuttavia c’è da evidenziare che a fronte di numerose informazioni sul versante bibliografico che indicano il flauto come strumento tra i più diffusi e conosciuti nell’ambito della pratica strumentale tradizionale, pochi sono i lavori che propongono un approccio specialistico ai caratteri organologici, alle peculiarità musicali ed alle tecniche costruttive dello strumento.

Tra i contributi specialistici bisogna annotare quello d’Ottavio Tiby che fornisce una serie di preziose informazioni sulle principali fasi di costruzione di uno strumento rilevando poi l’intonazione e le scale di una serie di flauti. Nel tentare ora di ricomporre le principali vicende musicali che lo hanno visto protagonista, c’è da evidenziare che il flauto riesce a adattarsi piuttosto agevolmente ai nuovi contesti musicali, come per esempio i piccoli organici strumentali che confrontandosi frequentemente con i nuovi temi da ballo,compaiono nella cospicua produzione discografica dei primi decenni del secolo.

Produzione destinata in larga misura ai nostri emigrati nelle Americhe e che trova poi ampio posto anche nel mercato italiano, influenzando così i gusti e le preferenze musicali delle classi popolari. Il flauto di canna, grazie alla sua spiccata vocazione virtuosistica, diventa così lo strumento solista per eccellenza.

Nel primo dopoguerra il flauto di canna, abbandonando ancora una volta contesti originari pastorali, ebbe un’ulteriore occasione d’affermazione nei tanti complessi folcloristici siciliani che lo elessero a strumento virtuosistico presentandolo come elemento tipico della musica popolare, affiancandolo oltre che al tamburello, alla chitarra ed alla fisarmonica. In un contesto che peraltro reinvesta in maniera gratuita temi melodici, coreografie e costumi spacciandoli per espressioni autentiche della cultura popolare.

Nonostante i nuovi ruoli attribuiti e la <<promozione>> che riceve nei nuovi ambienti musicali, il flauto di canna non smette di conservare i caratteri peculiari di strumento pastorale, le cui modalità costruttive e la pratica musicale continuano a trasmettersi, con il tipico apprendimento per imitazione, di padre in figlio fino ai nostri giorni. Sicché l’immagine di strumento pastorale, fedele compagno di pecorai e caprai nelle lunghe ore trascorse al pascolo a governare il gregge, è tutt’altro che sbiadito ricordo di un’età dell’oro per sempre perduta.

Le numerose raccolte ed i molti suonatori – pastori da noi conosciuti nel corso delle ricerche, testimoniano, difatti, l’uso funzionale dello strumento in chiave festiva e con specifica valenza di compensazione alla condizione di solitudine, anche se la cultura pastorale appare oggi quanto mai disgregata e deprivata dei valori di vita e delle competenze specifiche un tempo patrimonio comune all’area dei Peloritani.

Le campagne di rilevamento effettuate in territorio messinese in questi ultimi anni hanno accertato che il flauto di canna ha conosciuto in passato ed, in parte, conserva anche oggi, con marginale uso funzionale, un’ampia diffusione, soprattutto nella fascia agro – pastorale. Tra i suonatori più bravi ormai scomparsi si ricordano Felice Currò, detto “Runca”, per tanti anni solista nei canterini Peloritani diretti da Lillo Alessandro; Vanni ‘u Ciumìinisanu, che viveva a Bordonaro e riusciva a suonare il flauto anche con il naso; Alfio Puglisi di Mili S. Pietro che oltre a suonare i flauti li costruiva, così come faceva Giuseppe Sanò di S. Stefano di Briga e Antonino Bertino di Saponara. Tra i suonatori attivi oggi, segnaliamo Sestene Puglisi di Mili S. Pietro, Giuseppe Foti di Pezzolo - tutti e due in grado di realizzare flauti - e ancora Nino Sergio di Giampilieri Superiore, Santino Cafeo di S. Filippo Su­periore, Brigandì Giuseppe di Saponara e Concetto Previti di Reccavaldina. Le testimonianze raccolte hanno poi in particolare confermato le occasioni d’uso e le funzioni musicali prima segnalate, cioè di strumento dalla spiccata vocazione per i temi da ballo e di strumento suonato in aperta campagna dai pastori al pascolo per compensare, alleviare le lunghe ore di solitudine trascorse al pascolo. Il flauto si affidava, e si affida tutt’oggi nelle residue occasioni di festa tradizionali, all’accompagnamento ritmico del tamburello, più raramente a quello della chitarra. Il repertorio tradizionale del flauto, come segnalato precedentemente, ha subito nel tempo un radicale rinnovamento: i temi da ballo tradizionali, dalla seconda metà del secolo scorso, sono stati gradualmente sostituiti da nuovi motivi dì danza. I rilevamenti effettuati nell’area del Messinese hanno accertato l’assoluta prevalenza di temi da ballo moderni (valzer, polca, mazurca), rispetto a balletti tradizionali e parafrasi di canzonette.

Lo strumento in dialetto è identificato come friscalettu, frautu, fischiettu, frischiettu o faraùtu. Parecchi suonatori ci hanno però fatto osservare che la denominazione di friscalettu o frischiettu  si riferisce a strumenti di dimensioni ridotte o addirittura al semplice fischietto di canna, mentre il flauto di canna dalle dimensioni standard è indicato come frautu.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il modello più diffuso di flauto diritto di canna a bocca zeppata nell’area del Messinese è quello con sette fori anteriori e due posteriori. Più rari, quelli con sei fori anteriori e uno posteriore.

Per la costruzione del flauto si utilizza un segmento di canna del tipo duro (Arundo donax) ricavato da piante che crescono in terreni asciutti, esposti a nord.

La prima operazione da compiere è realizzare il becco, dopodiché, si procede all’incisione della finestrella (finistredda) e del canale d’insufflazione (canaledda). Il tappo è ricavato solitamente da un ramo d’oleandro. Prima di procedere alla realizzazione dei fori si pratica un’incisione di riferimento attorno alla circonferenza della canna (non c’è una misura obbligata da rispettare, i costruttori da noi osservati misurano abitualmente due, tre dita dal margine inferiore della finestrella). Si praticano infine i fori anteriori, e posteriori. Anche in questo caso la distanza tra un foro e l’altro è lasciata all’esperienza del costruttore, di solito la misurazione è approssimativa e si basa sulla distanza fornita da un dito.

Per compiere tutte le varie fasi di costruzione di un flauto ci si serve abitualmente di un coltello da tasca ben appuntito. I fori successivamente, per migliorare l’intonazione dello strumento, di solito vengono gradualmente ed opportunamente allargati.

A Taormina - luogo dove è difficile pensare che siano sopravvissute porzioni di tradizione popolare - a riscattare il flauto di canna dalla sua effimera condizione di strumento pastorale o, peggio, di «pezzo turistico» pacchianamente decorato, e conferirgli dignità musicale, c’è Giuseppe Augusto Occhino, 70 anni. Quella di dedicarsi alla costruzione di flauti non è stata certo per lui una scelta speculativa o redditizia. La sua attività artigianale si svolge difatti in un piccolo locale concesso in affitto dal comune di Taormina.

«Il friscalettu, dice Occhino, è il cuore del folklore siciliano, ed i miei strumenti, aggiunge con orgoglio, sono professionali e da sempre richiesti dai friscalettari più bravi, sia messinesi che catanesi». E poi esprime sincero rammarico, pensando che in futuro non ci sarà nessuno ad ereditare la sua esperienza.

Nel rispetto di elementari ma rigorose norme costruttive, consolidate in oltre cinquant’anni di pratica, Occhino realizza flauti perfettamente accordati prevalentemente sulle tonalità di Do, La, Sol e Sib, con un’estensione di un’ottava e mezza. Le qualità musicali di un buon flauto, egli spiega, dipendono essenzialmente dal tipo di canna utilizzata, ovvero dal diametro e dalla lunghezza del cannolu. Per l’accordatura prescelta è necessario poi rispettare una distanza obbligata tra la finestrella ed il primo foro digitale (cresce gradualmente dal Do al Sol), ed il cosiddetto passu, ossia lo spazio entro cui vengono incisi i sette fori anteriori ed i due posteriori. Tutti i flauti di Occhino sono rigorosamente firmati e portano l’indicazione della tonalità relativa. Come segno distintivo il costruttore pone poi delle fascette adesive colorate.

Ad ulteriore riprova dell’affidabilità musicale dei suoi strumenti, Occhino ha elaborato e fatte stampare una tavola delle posizioni digitali affinché si possa ricavare la scala cromatica di Do e, per trasposizione, anche le altre. Gli acquirenti dei suoi flauti sono i friscalettari dei complessi folkloristici ed i turisti più esigenti musicalmente.

Al quadro delle presenze sul campo di flauti diritti di canna, bisogna aggiungere quella di ottone di S. Marco d’Alunzio, sui Nebrodi, che si configura come una singolare ed esclusiva emergenza strumentate, dal momento che allo stato attuale delle ricerche, non si sono avuti altri riscontri nel territorio Messinese.

Più specificamente si tratta di una particolare tipologia di flauto diritto con sei fori digitali, intonato sulla scala di Do, di produzione seriale continentale, introdotto tra gli anni Venti e Trenta nella pratica strumentale tradizionale locale da Paolo Provenzale, detto Stidda, suonatore anche di pifara o bifora (oboe popolare usato in rituali processionali con l’accompagnamento ritmico di tamburi cilindrici) che l’aveva avuto da mastru Giuseppe Graziano, sacrista, il quale a sua volta l’aveva acquistato a Palermo. Lo strumento fu ereditato successivamente dal figlio Marco, scomparso nel 1990, all’età di 80 anni, anche lui abilissimo ed apprezzato suonatore.

Le ragioni che determinarono il rapido affermarsi del nuovo strumento a S. Marco d’Alunzio, preferito da molti altri suonatori al più effimero flauto di canna, sono da ricercarsi nella stabile intonazione e nelle garanzie di durata e resistenza offerte.

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tratto da:

Mario Sarica - Strumenti Musicali Popolari in Sicilia - Assessorato alla cultura, Provincia di Messina 1994.

 

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