Cebete - Lezioni di Filosofia

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G. Bruno

Sommario

1. VITA

2. OPERE

3. DE UMBRIS IDEARUM

4. DE GLI EROICI FURORI

5. KARL JASPERS SU "FEDE & SAPERE"

Approfondimenti

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Giordano Bruno

(Nola, 1548 - Roma, 17 febbraio 1600)

1. Vita

Filippo Bruno nasce a Nola nel 1548. Giovanissimo entra nel convento di san Domenico a Napoli, diventa membro dell'ordine domenicano e cambia il suo nome in Giordano, nel 1572 è sacerdote. Nel 1567 subisce un primo processo per eresia poiché esprime dubbi sulla verità della religione cristiana e nel 1576, in seguito per un secondo processo per eresia e omicidio (di un confratello), abbandona l'ordine e si rifugia in Svizzera dopo una breve sosta a Roma (vi tornerà anni dopo in ben altre vesti!). A Ginevra si avvicina ai calvinisti, ma presto se ne distacca e si dirige in Francia (prima Tolosa poi Parigi) da Enrico III (nel 1579). Del periodo parigino fanno parte le opere di mnemotecnica (arte lulliana) tra cui il De umbris idearum, dedicato proprio a Enrico III.

Spirito inquieto, nel 1583 è in Inghilterra, a Oxford, dove pubblica i dialoghi italiani (lo Spaccio de la bestia trionfante del 1584 e De gli eroici furori del 1585). In contatto con la corte di Elisabetta, non tarda però a litigare con i dottori di Oxford, ma anche con i professori parigini vicini all'aristotelismo (del Collegio di Cambrai). Allora viaggia: nel 1586 insegna a Marburgo, poi a Wittemberg, quindi a Praga, Helmstädt, e infine nel 1590 a Francoforte.

Dopo un soggiorno a Zurigo e a Padova, nel 1591 è invitato a Venezia dal patrizio Giovanni Mocenigo che vuole apprendere la mnemotecnica e le arti magiche. La Repubblica non rappresenta però quel nido di serenità che Bruno si aspettava di trovare. Il Mocenigo, infatti, insoddisfatto dell'insegnamento, lo denuncia all'Inquisizione veneziana (è arrestato il 23 maggio 1592).
Bruno è costretto a ritrattare alcune tesi, ma non tutte: la pratica averroista della doppia verità in cui si rifugia pare salvargli la vita (Bruno smentisce dal punto di vista della verità religioso quel che afferma dal punto di vista della verità filosofia). Ma non è così. Il Sant’Uffizio organizza quindi un ulteriore processo che prevede il trasferimento a Roma (nel 1593). Sette anni di carcere ed estenuanti interrogatori non lo convincono a ritrattare anche le sue dottrine filosofiche, e il 17 febbraio 1600 viene giustiziato a Campo dei Fiori (Roma). Prima di morire, pronuncia la celebre frase: « Forse avete più paura voi nel condannarmi che io nel subire la condanna ».

Oggi, in Roma, una statua si erge nel luogo dove fu collocata la pira in cui arse il filosofo, senza essersi riconciliato con il Crocifisso.

2. Opere

1582 - 

Candelaio

De umbris idearum

Ars memoriae

Cantus ciercaeus

De compendiosa architectura et complemento artis Lullii

1583 - 

Triginta sigillorum explicatio

Sigillus sigillorum

1584 - 

La cena de le ceneri

De la causa, principio et uno

De l'infinito universo e mondi

Spaccio de la bestia trionfante

1585 - 

Cabala del cavallo Pegaseo con l'aggiunta dell'Asino cillenico

De gli eroici furori

1586 - 

Figuratio Aristotelici physici auditus

Acrotismus camoeracensis

1587 - 

De lampade combinatoria lulliana

De progressu et lampade venatoria logicorum

Artificium perorandi

Animadversiones circa lampadem lullianam

1588 - 

De specierum scrutinio

CLX articuli adversus huius temporis mathematicos atque philosophos

1589 - 

De magia et theses de magia

De magia mathematica

De principiis rerum, elementis et causis

Medicina lulliana

De vinculis

1590 - 

Lampas triginta statuarum

De minimo

De monade

1591 - 

De immenso et innumerabilibus

De imaginum compositione

Summa terminorum metaphysicorum

U.D. 3

Unità didattica n. 3
Cfr. G. Bruno, De umbris idearum

De umbris idearum Torna all'inizio

Lucida analisi del doppio limite (ontologico e gnoseologico) in cui si muove l'uomo e del processo di affinamento (indiamento) che trasforma un evento accidentale in una esperienza della verità suprema.

Dal Cantico dei cantici: "sub umbra eius quem desideraveram sedi". Esprime il doppio motivo dell'ombra quale limite costitutivo dell'uomo e, allo stesso tempo, quale luogo di una esperienza privilegiata.

Si parte dall'Ecclesiaste: " omnia vanitas ". Prigioniero nell'orizzonte della vanitas l'uomo non può accedere senza mediazioni al "campum veritatis" né accostarsi direttamente alla luce divina: la forma più alta di felicità consiste nel sedersi all'ombra, "sub umbra veri bonique". Non è l'ombra materiale ma metafisica.
L'ombra naturale (materiale e razionale) richiama l'intreccio inesplicabile di bene e male.
L'ombra metafisica (soprannaturale e ideale) non è più limite, ma rappresenta una via privilegiata di comunicazione (cfr. S. Bernardo di Clairvaux).

Non è grazia ma sforzo, "adeptio", conquista, "appulsus", tensione. Tensione che dall'ombra naturale proietta l'uomo oltre, verso l'ombra ideale che è la traccia del vero e del bene assoluti custoditi nella mente (deus in rebus... mens in rebus).
Ascesa: sensi, immaginazione, ragione, intelletto, mente, Dio.

Tensione ad abitare il mondo intelligibile.
Non è mistico (come il riferimento al Cantico dei cantici potrebbe far supporre), né contemplativo... ma si arresta al suo riflesso umbratile e offuscato.
Un quid imaginis: « a nessun pare possibile de vedere il sole, l'universale Apolline e luce absoluta per specie suprema ed eccellentissima, ma sì bene la sua ombra, la sua Diana, il mondo, l'universo, la natura che è nelle cose, la luce che è nell'opacità della materia, cioè quella in quanto splende nelle tenebre » (Eroici, Ed. BUR, p. 300).

È quindi una possibilità impossibile, quella di stabilire un rapporto con l'assoluto. In questa tensione si svolge il "fato" del singolo: soggetto all'opacità della materia e proteso oltre l'orizzonte corporeo verso il primo e vero bene.

Esiste un'ombra della luce e un'ombra delle tenebre. L'esistenza si definisce pertanto all'interno di un movimento perenne, in cui continuamente l'ombra della luce divina attraversa - e riscatta - le ombre di tenebra e di morte prodotte dalla materia (cfr. Guerric d'Igny, Sermons, Parigi 1970-73, pp. 398-416).

"IEROGLIFICO DEL FORTE ASPIRARE", dell'infinito aspirare. Vi è una notevole frattura tra l'amore volgare finito e l'amore-eroico-furore infinito. « Perché l'amore mentre sarà finito appagato e fisso a certa misura, non sarà circa le specie della divina bellezza, ma altra formata; ma, mentre verrà sempre oltre ed oltre aspirando, potrassi dire che versa circa l'infinito ». (Eroici, Ed. BUR, p. 118).

Scaturita dalla tensione verso la luce divina, la condizione di somma felicità rimanda all'impeto di un desiderio mai del tutto appagato. Proprio l'infinità del desiderio è il punto di contatto tra l'individuo finito e lo splendore infinito del sommo bene e della infinita beltade.
Del resto Bruno acuisce all'estremo l'incommensurabilità tra Dio e uomo, escludendo che il processo conoscitivo possa concludersi con la visione diretta.
Anche nel momento di massima vicinanza, l'esperienza della "sessio sub umbra" rimane finita e circoscritta e, passato l'attimo dell'intuizione, resta solo per la memoria.

Permane la disequazione tra essere assoluto ed essere comunicato. « Come volete voi - chiede Severino - che la immobilità, la sussistenza, la entità, la verità sia compresa da quello che è sempre altro e altro, e sempre fa ed è fatto altrimenti? Che verità, che ritratto può star dipinto ed impresso dove le pupille de gli occhi se dispergono in acqui, l'acqui in vapore [...] senza fine discorrendo il suggetto del senso e cognizione per la ruota delle mutazioni in infinito? » (Eroici, Ed. BUR, p. 350).

Ora tra il De umbris (1582) e gli Eroici (1585) cambia:
a) la prospettiva è più ontologica che gnoseologica;
b) la preminenza dell'infinito fa sì che alla stasi si sostituisca la tensione e alla Salumita si sostituisca Atteone.

Anche il sapiente si riposa, ma né la "beatitudine asinina" né la condizione stazionaria e quieta del sapiente offrono accesso alla verità suprema.

U.D. 4

Unità didattica n. 4
Cfr. G. Bruno, De gli eroici furori

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U.D. 5

Unità didattica n. 5
Cfr. K. Jaspers, La fede filosofica

Karl Jaspers su "Fede & Sapere" Torna all'inizio

« La fede è diversa dal sapere. Giordano Bruno credeva, Galilei sapeva. Considerati dall'esterno, si trovano entrambi nella stessa situazione. Un tribunale d'inquisizione esigeva, sotto pena di morte, la ritrattazione. Bruno era pronto a ritrattare qualcuna delle sue proposizioni, me non quelle che giudicava essenziali; per questo subì la morte dei martiri. Galilei ritrattò la dottrina della rotazione della terra intorno al sole, e si inventò quell'aneddoto significativo che riferisce di quella sua espressione: "Eppur si muove". Qui sta la differenza: c'è una verità che, ritrattata, muore; e c'è una verità che nessuna ritrattazione è in grado di estinguere. I due accusati si comportano conformemente al tipo di verità da loro rispettivamente rappresentata. La verità dalla quali io traggo la mia esistenza vive solo se io mi identifico con essa; storica nel suo apparire, non possiede una validità universale pari alla sua enunciazione oggettiva, ma è incondizionata. La verità che io posso dimostrare, può sussistere anche senza di me, essa è universalmente valida, non è storica, non dipende dal tempo, ma non è neppure incondizionata, perché dipende dalle premesse e dai metodi della conoscenza in connessione ai fini. Voler morire per qualcosa di esatto e di dimostrare è fuori luogo. Al contrario, il pensatore che crede di aver penetrato il fondamento delle cose non può ritrattare le sue proposizioni, senza con ciò attentare alla verità stessa, questo è il suo segreto. Nessuna evidenza universale accolta può pretendere che colui che la sostiene si sacrifichi per essa. Se però ciò avviene, come avvenne con Giordano Bruno, non per l'impulso di un chimerico entusiasmo, né per una ostinazione momentanea, ma dopo una lunga e combattuta vittoria riportata su di sé, allora ci troviamo di fronte al carattere proprio della fede autentica, che consiste nella certezza della verità che non si lascia dimostrare, come invece accade per la conoscenza scientifica che riguarda le cose finite.

« Il caso di Bruno, però, non è ricorrente, perché la filosofia, di solito, non si raccoglie in enunciati che hanno la forma della professione di fede, ma in un organismo di pensieri che penetrano una vita nella sua totalità. Se in un certo senso Socrate, Boezio, Bruno sono, per così dire, dei santi nella storia della filosofia, ciò non significa assolutamente che sono tra i più grandi filosofi. Essi sono solo delle figura da considerarsi con rispetto quali testimoni di una fede filosofica, e, come tali, meritevoli di essere posti sullo stesso piano dei martiri ».

(K. JASPERS, La fede filosofica, Marietti, Torino 1973, pp. 57-58).

Ultimo aggiornamento: martedì 11 marzo 2003


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