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Novecento. Secolo incerto

Particola del cartellone della Scuola di Atene di Raffaello

Novecento. Secolo incerto

 - riflessioni preliminari -
di Claudio Fiorillo

All’alba del secolo che da poco si è chiuso moriva l’ultimo grande filosofo, Friedrich Nietzsche. Dico l’ultimo grande non per disprezzo nei confronti degli autori contemporanei, ma con la coscienza che lo studioso che volesse scrivere un libro su Nietzsche non avrebbe che da parlare di… Nietzsche. Con il Novecento invece è diverso. Chi volesse scrivere un libro su di un filosofo del Novecento dovrebbe fare i conti con i suoi autori, quelli con cui ha maggiormente filosofato, coloro con cui ha maggiormente dialogato nell’ideale simposio della storia della filosofia. È questo forse un segno di immaturità del nostro vecchio secolo? O, forse, il segno che il Novecento è stato fondamentalmente il secolo della riflessione e del con-filosofare. Certo è che le grandi costruzioni sistematiche (o le grandi posizioni antisistematiche) lasciano il posto a un pensiero più accorto, più modesto…

Non accogliendo l’invito nietzscheiano ad essere creatore, il Novecento ha accolto l’altra sua esortazione a non seguirlo e si concentra, si ritira, riflette problematizzando.

Il paradigma dominante non è più il reale, ma nemmeno l’ideale. La riflessione sull’uomo, sul suo vissuto, sulla sua coscienza, sull’esperienza vissuta della propria finitezza (aiutata questa dalle tragedie che l’uomo ha creato e di cui è stato spettatore in questo Secolo) si fa più intima, più modesta, al punto da riportare in auge l’antico (e mai morto) scetticismo nelle sue forme più svariate. Il tempo è sconnesso, geme Amleto di fronte alla coscienza della sua situazione paradossale. Ed ecco che l’uomo di fronte alla sconnessione di quelle che nei secoli passati erano indubitabili certezze o almeno probabili verità, assume un atteggiamento profondamente guardingo. L’ultimo grande filosofo aveva del resto affermato che la verità non è altro che uno dei tanti possibili errori e che tutto è interpretazione. Allo stesso modo i filosofi del Novecento sentono profondamente la valenza interpretativa di ogni atto, l’essenza prospettica di ogni Weltanschauung. La situazione diviene prigione angusta e spazio vitale. Prigione di fronte all’infinito che spaventa, spazio in cui operare con le proprie certezze. Certezze, però che in quanto proprie non possono pretendere alcun valore universale e che quindi valgono solo all’interno di quello spazio, peraltro continuamente cangiante, che è la singola situazione.

In questo contesto la passione dominante diviene per l’uomo del Novecento l’incertezza. Come l’Oreste pirandelliano si trasforma in Amleto di fronte allo spettacolo della rottura del cielo di carta del suo teatrino, così l’uomo del Novecento rimane perplesso di fronte alla sconnessione del reale, alla tragica inapplicabilità dell’ideale… per cui rimane, quale unico sentiero percorribile, quello della possibilità. Il Novecento è il secolo incerto di fronte alla possibilità. Non è un caso, infatti, che ritorni prepotentemente il pensiero di Kierkegaard, il pensiero delle possibilità non sviluppate o sviluppate fino all’ultima nella coscienza della loro fondamentale essenza di possibilità (e quindi non realtà). I filosofi del Novecento sono tanti pseudonimi dello sfortunato danese, che percorrono le vie (lunghe o brevi) della possibilità per poi giungere alla coscienza della virtualità di un tale percorso.

Ma, come sopra dicevo, le possibilità svolte dai pensatori del Novecento non sono tutte le possibilità, ma solo quelle che la storia della filosofia fornisce. In un momento di indecisione la tradizione torna a rivestire un ruolo centrale. Quella stessa tradizione contro cui si scagliava con forza Cartesio ora diviene l’unica zattera di salvezza in un secolo naufrago che, inaridito dalla tragicità del reale e dall’utilitaristico tentativo di risposta ad essa fornita dalla società, vede nel simposio universale l’unica via per ristabilire quella philosophia perennis che è un valore oltre ogni situazione storica.

Si è detto anche che il Novecento è il secolo breve, in cui le scoperte scientifiche hanno accelerato il percorso del tempo e con esso il progresso. Ebbene, di fronte all’accelerarsi del tempo (della comunicazione come della guerra) il filosofo continua a svolgere la funzione di eccezione controcorrente e si adopera per fermare il tempo in un immaginario colloquio con gli antichi.

Gli interessi letterari, filologici, storico-filosofici e prettamente storici a scapito di quelli più genuinamente teoretici sono segno di una nuova forma di umanesimo e di ritorno al passato, ma con la coscienza che tale rimane, ossia che il passato ormai è irrecuperabile e che, anzi, proprio il fatto di essere ormai passato lo rende così fecondo e carico di valore per il presente. Ancora una volta però, dal passato riconosciuto come tale, ci separa una cesura che è impossibile ricucire, e che segna ogni forma di ritorno al passato stesso. Già nell’Ottocento romantico il concetto dell’eredità del passato era divenuto centrale, ma oggi, con l’accelerazione tecnologica, con le esperienze tragiche e indimenticabili per la coscienza umana, è ancora più forte la coscienza dell’esser passato del tempo cui ci si rivolge. Di qui l’incertezza. Con quali occhi leggere oggi Platone? Con quali sentimenti ascoltare Beethoven? Siamo noi in grado di sentire, di capire. O forse possiamo solo ri-sentire, ri-immaginere con occhi diversi nella coscienza che non è possibile pensare come pensava il maestro dell’antichità (o addirittura meglio, come vorrebbe qualcuno) ma che su sentieri antichi (come accade qui a Roma) possiamo percorrere strade nuove, vivere esperienze nuove, nella certezza che in fondo nulla cambia a tal punto nella storia dell’uomo e che i problemi che affliggono oggi l’uomo altro non sono che la traduzione in linguaggio binario dei problemi geroglifici degli antichi.

Ma allora l’incertezza è solo provvisoria? È ottimistico pensarlo. È comunque necessaria alla costruzione di una nuova Weltanschauung dopo la crisi, dopo ogni crisi. C’è chi diceva che era impossibile pensare dopo Auschwitz. Ma il solo fatto che noi pensiamo è la smentita di un tale pensiero. Certo Auschwitz non si può dimenticare, come Tienammen e oggi il Kossovo, ma il pensiero non può non seguire l’uomo, anzi deve precederlo verso un futuro che è e rimane sempre a portata di mano.

Un secolo intero di incertezza apre ora lo spazio per una nuova edificazione oltre gli esiti autodistruttivi o forzatamente deboli di un pensiero eccessivamente ecologico.

Ultimo aggiornamento: giovedì 20 marzo 2003


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