Testimonianza di padre Donato Goffredo

 

 

Dal Novembre ‘92 al Luglio ‘98 sono stato in Malawi uno dei paesi più poveri del Mondo, privo di ricchezze naturali, e di una vera democrazia. I primi missionari cattolici, arrivati dopo di quelli della chiesa episcopale scozzese, vi approdarono 100 anni fa su una delle sponde meridionali dei 600 km lagunari, a Mponda nei pressi di Mangochi. Si dedicarono fin dall’inizio ad aprire scuole di villaggio dove insegnare anche il catechismo, a produrre le prime grammatiche, ad insegnare le arti per dar lustro all’estro di un popolo di musicisti, di scultori, di pittori, che fanno i batik, lavorano l’ebano, ci allietano con nuovi ritmi tropicali.

 Sapevo dagli anni di studi fatti a Londra che l’Africa è anche questo, ha un’anima e io mi sentivo privilegiato come missionario di poter condividere parte della mia vita con la gente del Malawi, povera di beni materiali, ma con tanta dignità e voglia di vivere.

Una volta sbarcato all’aeroporto di Lilongwe, la capitale, un caldo torrido da agosto foggiano faceva presagire l’arrivo delle prime piogge. Una volta giunto alla missione fui circondato da gruppi di donne che mi danzavano attorno in segno di benvenuto. Avvertivo l’odore della loro pelle oleosa nelle vigorose strette di mano con cui mi facevano sentire tutto il loro calore e una gran gioia, espressa con i "tungululu", fortissimi trilli della lingua da un lato all’altro della bocca. Un mese dopo era già natale ma non c’era molto da festeggiare né regali da aprire per i tanti corpi martoriati dalla carestia che vedevo inermi, accasciati su una stuoia, all’ombra e al fresco che il tetto fatto di paglia della capanna garantiva. Li osservavo soprapensiero mentre passavo con il mio fuoristrada per raggiungere la cappella dove avrei celebrato la messa della natività.

I mesi da novembre a marzo sono critici, quando per intenderci i bambini mangiano solo manghi verdi, topi, cavallette, grani abbrustoliti di mais, perché lo scarso cibo è per gli adulti che vanno a zappare. Quando a secondo delle stagioni si alternano alluvioni o siccità rovinando i raccolti. Dalla missione bisognava intervenire d’urgenza con distribuzioni di sacchi di mais per aiutare le famiglie ridotte alla fame. Oltre alla distribuzione di cibo nei mesi più critici, si badava a quella delle coperte nei mesi più freddi, soprattutto per gli anziani. A dare maggior drammaticità alla situazione ecco la presenza di un milione di rifugiati scampati alla guerra dal confine col Mozambico e ammassati a decine di migliaia nei campi lungo il confine.

Finalmente, il 4 ottobre 1994 la guerra finì e i rifugiati furono rimpatriati, portandosi dietro i frutti dell’unica fabbrica che non ha mai smesso di produrre: quella dei bambini, migliaia di bimbi nati in esilio. Anche in Malawi di bambini ne continuavano a nascere alla media di 6-8 figli per donna. Mi alzavo presto ogni mattina per recarmi ad osservare la pesa dei neonati, stretti nei "cintenje", stoffe colorate con cui le mamme sistemavano i loro piccoli sulla schiena. Bambini dai grandi occhi neri mi osservavano impauriti e agitavano le esili gambette che fuoriuscivano dai bilancini. Solerti infermiere somministravano dosi di vitaminici ai più malmessi per impedire la malnutrizione. File interminabili di donne sostavano per ore davanti ai pochi padiglioni e letti insufficienti di quegli ospedali dove i medici locali con poche medicine e senza vaccini riuscivano a far miracoli. A dire il vero, ancora oggi secondo il modo di pensare dei più, negli ospedali si continua ad andare, ma per morire, dopo che stregoni e curatori che seguono la medicina tradizionale hanno fallito.

In Malawi c’è un medico ogni 50mila persone, molti giovani mandati all’estero a studiare preferiscono non fare più ritorno: si spiega così la speranza di vita media ferma a meno di 40 anni. La madre di un mio catechista è morta dopo aver atteso invano nei corridoi del Queens Hospital alcune settimane nella speranza di essere visitata da un medico. Le costose cliniche private sono un privilegio dei pochi arricchiti o degli stranieri presenti. Il governo del paese era fermo su posizioni post colonialiste, e attirava il business del turismo dispensando un’immagine d’ordine e rispetto solo esteriori, mentre la gran parte della popolazione viveva in condizioni d’assoluta sottomissione culturale ed economica.

                  Hanno avuto un bel coraggio i vescovi a denunciare in una lettera pastorale i soprusi del partito unico, pensavo mentre ne scorrevo il testo in inglese. Di ritorno ascoltavo per radio le parole vuote del dittatore a vita, che in ogni modo ha concesso il referendum per ottenere la democrazia. Iniziò così una campagna di sensibilizzazione politica capillare. Dopo ogni momento di preghiera c’erano sessioni pratiche per insegnare la gente a votare e convincerli ad andare a registrarsi al voto. La notte delle votazioni osservavo i fuochi dove si bruciavano le schede eliminate e condividevo con tutti l’ansia per i risultati che tardavano a venire. Dopo due giorni la gioia della gente per la vittoria esplodeva in cortei festanti nelle strade. Tutto finito? No perché le prime elezioni libere, il sorgere d’alcuni giornali indipendenti, della libertà d’opinione, prima negata, ha fatto emergere tanta corruzione che ancora c’è. Il capo di stato, un mussulmano educato in scuole cattoliche, è stato rieletto due volte e già pensa a come fare per ottenere un terzo mandato, nonostante la costituzione lo vieti. Tipico dispotismo già esibito dal suo predecessore Kamuzu Banda auto proclamatosi presidente a vita.

   Mi pesavano parecchio i mesi d’attesa per vedere giungere una lettera. A momenti mi prendeva una gran nostalgia che gli insegnamenti di un missionario più anziano cercavano di alleviare. A gran fatica risposi ad un giovane, che in segno d’amicizia, voleva in regalo la macchina fotografica che quella erano gli occhi con cui mi vedeva la mia mamma lontana. Un mondo nuovo era fuori della finestra. Passavo ore a fare a pugni con la lingua "cicewa" che proprio non riuscivo a biascicare. A Pasqua ebbi la gioia di leggere la prima omelia in quella lingua dai suoni misteriosi. Mi era costata una gran dose di pazienza il mettermi coi bambini e imparare anche il linguaggio della mimica del corpo per non essere invadente e di saper attendere dando valore al tempo. Con le prime piogge sono comparse le zanzare, e con i sintomi iniziali della malaria è subentrata la paura di non farcela, di dover tornare indietro. Mi hanno giovato le parole d’incoraggiamento di una suora indiana che m’assisteva… me ne sono fatta una ragione: ad ogni ricaduta mi fermavo per una settimana di febbri alte e poi risaltavo fuori del letto e via per i villaggi, pronto per le messe domenicali che duravano quasi tre ore, con le danze, i canti, la partecipazione attiva dei fedeli, gli offertori fatti con gli ortaggi, la frutta e qualche uova, dove il poco denaro è solo un mezzo e non inquina il cuore delle persone. Né mi fermavano le strade rese impraticabili durante la stagione delle piogge.

    Nulla mi può cancellare dalla mente la festa di quei bambini nei molti villaggi visitati, i loro volti gioiosi ogni volta che li prendevo sul mio fuoristrada per una passeggiata. La loro ricchezza è la tribù, dove tutti sono fratelli di sangue e crescono con la cultura della solidarietà e dell’aiuto vicendevole. Sotto la guida autorevole del capo villaggio, la gente è chiamata periodicamente al lavoro comunitario per cuocere mattoni che erano utilizzati per un pozzo, una scuola o per edificare cappelle col fango e col tetto di paglia, dove la vera ricchezza è Gesù incarnato non negli ori e nei fasti ma nella semplicità dei cuori. Non vi nascondo la mia sorpresa per la scoperta di un mondo popolato da stregoni e serpenti. Ero affascinato dalla magia delle notti silenziose e sotto un manto di stelle, dal ritmo dei tamburi e delle danze notturne al chiaro della luna. Ero imbarazzato dai riti d’iniziazione: nei boschi con la circoncisione per i ragazzi, nella capanna con il primo rapporto forzato per le ragazze, il ruolo delle società segrete con le maschere a far paura le giovani iniziate, per poi istruirli nella saggezza fatta di tanti proverbi, dei loro racconti epici sulla creazione del mondo, della paura degli spiriti, del culto degli antenati, dei riti di fertilità, delle preghiere per implorare la pioggia, unica garanzia di vita per il raccolto. Ero sorpreso dei tanti nomi di Dio: "Mulungu", il grande spirito, "Chauta", il Signore dell’arcobaleno, "Namalenga", Forza creatrice, "Mphambe", il Dio del tuono! Dio del tuono. Ero stupefatto per i bellissimi nomi dei bambini: "Cimwemwe", felicità, "Cikondi", amore, "Mpatso", dono, è il mio nome africano.

                  C’era ancora un’ombra nel mio modo di pensare. Era il disagio culturale di fronte a due strani modelli di matrimonio: l'uno detto "lobola", dove si compra la sposa fissando un prezzo; l’altro secondo la tradizione del matriarcato chiamato "chikamwini", dove è l’uomo che va a vivere nel villaggio della donna e i figli che genera appartengono al clan di quest’ultima. Altro costume locale è il "chokolo" dove alle vedove è imposto di sposare un cognato o essere private d’ogni cosa alla morte dei mariti, compresi i figli rimasti orfani. Donne coraggiose divenute cristiane mi chiedevano come fare a resistere davanti alla forza del clan. In molti villaggi c’è la poligamia, giustificata dalla mancanza d’uomini finiti a lavorare nelle piantagioni, o dalla sterilità della prima moglie, o dalla sua dolce attesa poiché non può essere avvicinato dal marito fino a sei mesi dopo il parto ed egli così può rivolgere le sue attenzioni alle altre mogli. Sapevo di vecchi oltraggiati e accusati di stregoneria, perché incolpati della morte di troppi bambini (135 su mille non arrivano ai cinque anni), ai troppi giovani morti a causa dell’AIDS; quanti ne sono spirati davanti ai miei occhi dopo aver ricevuto i sacramenti. Che cosa fare per i tanti altri giovani assiepati sui marciapiedi delle città che vivono d’espedienti, per i bambini di strada abbandonati a se stessi ad elemosinare, per i bambini lavoratori sfruttati nelle piantagioni, per i piccoli pastori, per le bambine che portano secchi d’acqua dai fiumi e dai pozzi alle loro capanne, già madri a 15 anni senza possibilità di terminare il ciclo delle elementari?

Con le autorità scolastiche ho dovuto lottare non poco per avere i maestri elementari. Poi si è trattato di convincere i bambini che la scuola valeva più che stare a pascolare mucche e capre, ve lo lascio immaginare. Dopo i tramonti infuocati, i bambini erano svegliati dal riso notturno delle iene e saltavano fuori con le lance e frecce dietro i loro papà per proteggere il bestiame. Prima dell’alba andavano nei campi armati di fionde e davano la caccia alle scimmie scese dai monti nel periodo del raccolto. Un tempo c’erano abbastanza leopardi ad assicurare che il loro numero non crescesse a dismisura, ma ora non più. Di solito ci sono cinque e più chilometri che ogni bambino deve percorrere per frequentare una scuola senza aule, senza banchi, senza quaderni. Le classi contano dai 100 ai 200 alunni per maestro, la cui paga mensile si aggira sui 50 dollari.  Durante la ricreazione, i bambini a piedi scalzi improvvisavano partite con un pallone fatto di cenci tenuti insieme da uno spago, più battagliate delle finali dove si esibiscono i grandi campioni nostrani. Salutandoli a scuola il giorno in cui stavo per lasciare il Malawi, quei bambini mi hanno chiesto perché andavo via e quante lune dovevano contare per aspettare il mio ritorno. Mentre sono qui a scrivere la loro vita non è cambiata, in fin dei conti non esistono, perché non hanno nulla da spendere e non c’è nemmeno la televisione né la pubblicità, hanno però l’aiuto dei missionari e dei sacerdoti e suore della chiesa locale.

          Trascorsi un anno e mezzo da solo in una valle abitata da discendenti dei mitici guerrieri zulù, ormai ammansiti e dediti alla pastorizia ma che conservano la loro visione del ruolo della donna nella famiglia che vale, dice un loro proverbio quanto la coda di una mucca, non per niente metà della popolazione femminile è analfabeta, eppure è la donna che va nei campi a coltivare, vende i suoi ortaggi al mercato, procura il cibo ai figli e ai mariti, sì perché tante volte sono abbandonate quando i loro granai sono vuoti, e poi hanno bisogno di qualcun altro che le difenda. Sono partito mentre si discuteva se era loro lecito guidare la preghiera o se il posto della donna era solo in cucina. C’è molto da fare per le attiviste dei diritti delle donne. Donne ai mulini, nei campi e al mercato. Il luogo del mercato attira una marea di gente che all’alba e di sera si muove a piedi, che viaggia in bicicletta, che affronta il caos dei trasporti di fortuna. Che cosa fare quando da un anno all’altro non si riesce mai a mettere da parte soldi sufficienti per comprare una bicicletta o si deve rinviare il progetto di mettere un tetto di lamiera alla casa? Capivo lo sgomento di tutti di fronte all’inflazione della "kwacha", la moneta locale, nel 92 ne bastavano due per un dollaro oggi n’occorrono 80, penso alla fragilità dell’economia, all’influenza dei mercanti indiani che controllano il mercato e le banche, un sottosuolo povero, un agricoltura di sussistenza, la gente che lavora ancora con le zappe, che non ha i soldi per comprare il concime. Le terre migliori sono state destinate alla coltivazioni buone per l’esportazione. Ho visto i contadini spaccarsi la schiena sotto il sole per produrre il cotone e ricevere appena 500 lire per ogni chilo, e così in proporzioni diverse per il tè, il tabacco, il caffè, lo zucchero nelle piantagioni. Adesso che sono tornato non posso fare a meno di vedere quando uso questi prodotti che il fondo della tazza rimane lo sporco di chi stabilisce il prezzo tra cosa si produce e il suo valore commerciale. Come missionario devo scuotere un po’ anche la vostra coscienza collettiva. Il paese ha un debito estero di due mila milioni di dollari, e con l’Italia di due miliardi e mezzo di lire, forse è il caso di adottare questa nazione per cancellare questo debito. Nel paese ci sono risorse idriche, laghi fiumi, c’è anche l’elettricità, ma è per le città e le industrie, non per lo 86% della popolazione che vive nelle campagne.

       Facendo un consuntivo di sei anni di vita missionaria, io posso dire di aver vissuto in mezzo alle tribù "Alomwe" e "Angoni", e conosciuto gente bantu di vari gruppi etnici: "Ayao" e "Achewa", "Atumbuka" e "Asena". Adesso c’è una vivace chiesa locale, capace di unire questi gruppi umani nell’unica famiglia di Dio, con tanti giovani assetati di conoscere la parola del vangelo. Tra le attività pastorali ci sono stati migliaia di bambini battezzati, tanti ammalati visitati nei villaggi più sperduti, le feste per il raccolto, i pasti consumati fatti di polenta solida ed erbe mangiati con le mani, i funerali che duravano tre giorni coi canti che duravano tutta la notte, le celebrazioni pasquali coi catecumeni sposati che ricevevano quattro sacramenti in una volta. La vera forza trainante sono le “bungwe”, le piccole comunità cristiane che ho lasciato, nuovo modo d’essere chiesa della minoranza, l’esempio di vita dei catechisti, i tanti catecumeni battezzati, i cristiani passati dal 18 al 25 %. I seminari sono pieni di giovani, speranza di un futuro rigoglioso di vocazioni anche alla vita religiosa. Il sinodo africano ha spinto verso una vera inculturazione della fede nella liturgia e nella vita. La grande speranza è data dal fatto che metà dei 10 milioni d’abitanti ha meno di 15 anni di vita, provate a pensare cosa vuoi dire questo nei termini di una chiesa fatta di tantissimi giovani. Quando ho lasciato quelle comunità cristiane, mi sono sforzato di farne dei laici capaci e santi, ho tradotto un piccolo catechismo scritto insieme con un maestro, nell’attesa infinita della Bibbia che ancora non era stata tradotta nella lingua corrente.

Qualche volta a sera, lo confesso, chiudo gli occhi e con nostalgia mi tornano in mente i canti di quelle liturgie così vicine a quelle dei tempi dei primi seguaci di Gesù. Conservo con gelosia il ricordo del saluto con il mio vescovo africano che mi ha paragonato ad una nuvola del cielo, che com’è apparsa dal nulla all’improvviso così pure scompare, i saluti della gente alla mia partenza da portare per la gente della mia nazione, la loro meraviglia a sapere la lunghezza del viaggio, la loro dignità di saper attendere, e ora che sono qui tra voi sono sicuro il vescovo è riuscito a convincerli che se per ora non torno più, non è sortilegio degli stregoni, ma solo volontà dei miei superiori. Io sono partito sereno convinto di aver donato ma anche ricevuto e penso a quello che posso fare per loro adesso, far conoscere le loro storie, rispondere alle loro lettere, invitare i nostri giovani a mettersi in contatto con loro. Lo scorso mese d’agosto, ho avuto il privilegio di accompagnare un gruppo di giovani in un viaggio in alcune zone del Malawi e dello Zambia. Attraverso internet, ho la presunzione di aver accompagnato per mano in tutte le esperienze fatte e di aver raccontato a chi sa ancora ascoltare e impegnarsi in prima persona. Penso ai giovani dei gruppi “ram” e a quelli che vengono agli incontri “mission”. Noi missionari siamo i novelli cantastorie, menestrelli di un Dio che continua a camminare con l’umanità al passo degli ultimi e più abbandonati.

bambodonato1@interfree.it  ( p. Donato Goffredo)

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