Comitato per la Difesa dei Referendum Elettorali e del Collegio Uninominale


Considerazioni sul divieto quinquennale
di riproposizione del referendum in caso di risultato
contrario all’abrogazione (art. 38 l. 352/1970)

1. Alcuni giuristi (tra i quali il più autorevole è sicuramente il costituzionalista Andrea Manzella, che ricorre ad argomenti non condivisibili ma in senso lato affascinanti) hanno contestato la possibilità di riproporre un referendum (nel caso, quello elettorale del 18 aprile 1999) prima che siano trascorsi cinque anni dalla consultazione popolare, sia nel caso in cui la maggioranza dei votanti, in presenza del quorum di partecipazione, si sia espressa contro l’abrogazione (cfr. art. 38 l. 352/1970), sia nel caso in cui il referendum non sia valido per la mancata partecipazione al voto della maggioranza degli iscritti nelle liste elettorali (ipotesi non contemplata dal citato art. 38).

L’art. 75, comma 4, Cost., come giustamente rilevava il Prof. Manzella nella Repubblica del 25 settembre 1999, richiede due condizioni (quorum di partecipazione della maggioranza degli aventi diritto e quorum della maggioranza dei voti favorevoli alla proposta) perché si abbia abrogazione referendaria di una legge.

La questione, dunque, è verificare se, in presenza –alternativamente– di uno soltanto dei due quorum, si produca nell’ordinamento la stessa identica conseguenza. Ovvero, per dirla con Manzella, se la Costituzione non lasci spazio per una terza ipotesi, tra approvazione e non approvazione della proposta soggetta a referendum.

Manzella sostiene di sì e sembra adombrare l’ipotesi che l’art. 38 della legge n. 352/1970 sia viziato da incostituzionalità, nella parte in cui sottopone al divieto quinquennale di riproposizione soltanto il referendum che –in presenza del primo quorum– sia stato respinto dalla maggioranza dei votanti, e non anche il referendum che non abbia visto la partecipazione della maggioranza degli aventi diritto.

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2. È utile notare come, in effetti, l’art. 75, comma 4, della Costituzione non parli specificamente di « risultato favorevole [o contrario] all’abrogazione di una legge » (cfr. legge 352/1970), ma si limiti a precisare le due condizioni in presenza delle quali la « proposta di abrogazione » (art. 75, comma 1) può essere validamente approvata dal corpo elettorale e, dunque, spiegare i suoi effetti ablativi nell’ordinamento giuridico.

Può quindi la particolare formulazione di tale disposizione autorizzare un’interpretazione del tipo tertium non datur ? In altri termini, si può affermare che un referendum votato dal 49,6% degli aventi diritto ma approvato da oltre il 90% dei votanti sia qualificabile come un « risultato contrario all’abrogazione » ?

L’interpretazione logico-sistematica dell’art. 75 Cost. dovrebbe condurre a risolvere negativamente tale quesito.

La prima maggioranza prevista dall’art. 75, comma 4, Cost. (quorum strutturale o costitutivo) è condizione di validità della consultazione referendaria (ovvero, parafrasando Manzella, rappresenta la quota di elettorato ritenuta sufficiente –dal Costituente del 1947– per giustificare che la decisione venga riferita all’intero corpo elettorale). La seconda maggioranza (quorum funzionale o deliberativo) è invece il numero legale minimo richiesto affinché la proposta soggetta a referendum possa essere approvata o respinta dal corpo elettorale votante. Analogamente, i regolamenti parlamentari distinguono tra il quorum di validità della seduta e il quorum richiesto perché una deliberazione sottoposta all’Assemblea possa essere approvata o respinta.

La legge n. 352/1970 disciplina invero differentemente il caso in cui al referendum non partecipi la maggioranza degli aventi diritto (art. 36), e quello in cui la maggioranza dei votanti –con la partecipazione della maggioranza degli aventi diritto– si pronunci contro l’abrogazione (art. 38). Come vedremo oltre (cfr. n. 4), tale diverso regime è stato riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale.

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3. Il Prof. Manzella ritiene inoltre di poter individuare « un’analogia di sistema molto forte » nei regolamenti parlamentari di Camera e Senato (rispettivamente, artt. 100 e 124), laddove è assimilata al voto contrario l’ipotesi in cui, in sede di votazione di una legge di revisione costituzionale, manchi « la prescritta maggioranza di partecipazione ».

Anche tale argomento deve essere respinto, per travisamento manifesto della disposizione regolamentare. Infatti, il quorum speciale previsto per l’approvazione in seconda lettura dei progetti di revisione costituzionale assorbe in sé il quorum strutturale di validità della seduta, senza tuttavia confondersi con esso. Se fosse altrimenti, l’accertamento puro e semplice della mancanza del numero legale, in sede di votazione di un progetto di legge di revisione costituzionale, dovrebbe automaticamente far scattare la sospensiva temporale prevista contro la reiterazione della proposta respinta. E, invece, in caso di mancanza del numero legale, l’assemblea è semplicemente riconvocata, come normalmente accade quando venga a mancare il numero legale durante la votazione di un progetto di legge ordinario.

Sia detto per inciso che, contrariamente a quanto avviene nelle assemblee legislative, il referendum è senza appello: se non si raggiunge il quorum di partecipazione, gli elettori non possono più essere riconvocati per deliberare sullo stesso quesito, se non in seguito a una nuova richiesta di referendum!

Peraltro, proprio con riferimento ai regolamenti parlamentari, è noto come quello del Senato della Repubblica, all’art. 107, a differenza di quello della Camera, consideri come contrari alla votazione i senatori presenti ma astenuti. Per l’approvazione della proposta referendaria, il Costituente avrebbe ben potuto prescrivere non già il quorum della maggioranza relativa dei voti validamente espressi, ma quello della maggioranza assoluta dei votanti, considerando quindi (analogamente a quanto poi previsto dal regolamento del Senato) le schede nulle o bianche come voti contrari all’abrogazione. Prevedendo invece che i voti favorevoli all’abrogazione debbano semplicemente essere più di quelli espressamente contrari, la Costituzione non ha voluto attribuire alcun valore ai voti non validamente espressi.

Lo stesso Manzella, in merito al diverso valore attribuito alle cd. « astensioni nel voto » dalla Costituzione e dal regolamento del Senato, lungi dall’ipotizzare un contrasto normativo, rileva semplicemente che « se l’interpretazione del Senato sembra avere dalla sua la lettera dell’art. 64 Cost., quella della Camera ha considerazioni sistematiche e storiche che sembrano darle prevalenza ». E, ancora, che : « la formula dell’art. 64 [Cost.] non è completa : può essere integrata, senza contraddizione logica, dal principio dell’art. 75. Ne viene fuori una proposizione così : le deliberazioni di ciascuna Camera ... non sono valide se non sono adottate a maggioranza dei presenti che abbiano validamente votato » [in Il parlamento, ed. 1991, p. 216].

Lascia perciò quantomeno attoniti il fatto che Manzella abbia invece voluto dare un’interpretazione talmente restrittiva (più che letterale) dell’art. 75, comma 4, Cost. –in riferimento all’oggetto proprio di tale articolo, il referendum–, senza peraltro minimamente accennare al ben più rilevante problema (sotto il profilo della certezza del diritto) della irregolare tenuta delle liste elettorali, e, dunque, dell’effettiva corrispondenza tra gli iscritti nelle liste elettorali e i « chiamati ad eleggere la Camera dei Deputati ».

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4. Ad evidenza, la stessa Corte costituzionale ha, in due successive occasioni (sentt. 30/1993 e 32/1997) qualificato diversamente le due situazioni che Manzella vorrebbe assimilare: quella di un referendum votato dalla maggioranza degli aventi diritto e in cui abbiano prevalso i voti contrari all’abrogazione, e quella di un referendum cui non abbia partecipato la maggioranza degli iscritti nelle liste elettorali, ma in cui la maggioranza dei votanti si sia espressa per l’abrogazione.

Nella Sent. n. 30/1993 (referendum sulla legge sul finanziamento pubblico dei partiti, già ammesso dalla stessa Corte nel 1978 –15 anni prima– e respinto dalla maggioranza dei votanti con la partecipazione al voto della maggioranza degli aventi diritto), la Corte ha ritenuto di precisare che (Considerato n° 3 in diritto):

« Inoltre si deve ricordare che analoga iniziativa referendaria […] fu già dichiarata ammissibile da questa Corte con sentenza n. 16/1978 cit., ma non superò il vaglio degli elettori per non essere stato raggiunto, in occasione delle consultazioni referendarie, il quorum previsto dalla legge.

Da tale consultazione sono trascorsi oltre cinque anni e pertanto, anche sotto questo profilo, sussistono le condizioni prescritte (art. 38 l. n. 352 del 1970). »

[Il quorum cui fa qui riferimento la Corte non può che essere quello funzionale].

Nella Sent. n. 32/1997 (referendum sull’art. 842 del codice civile, già ammesso dalla Corte soltanto 7 anni prima e approvato da oltre il 90% dei votanti, ma con una partecipazione al voto insufficiente, del 43% circa), la Corte invece precisa che (Considerato in diritto):

« 2. […] Una precedente richiesta di referendum, di identico contenuto, è stata in passato dichiarata ammissibile. […]

Il referendum popolare sul quesito allora ammesso […] non ha tuttavia avuto esito, perché, secondo quanto ha accertato l’Ufficio centrale per il referendum (ai sensi dell’art. 36 l. n. 352 del 1970), alla votazione non ha partecipato la maggioranza degli aventi diritto, così come richiede l’art. 75 Cost.

3. Lo stesso quesito viene ora riproposto, senza che sussistano ragioni per discostarsi dalla valutazione di ammissibilità in precedenza espressa. »

Si noti che, mentre la sent. n. 30/1993 fa riferimento all’art. 38 l. 352/1970 (divieto quinquennale di riproposizione del referendum), preoccupandosi inoltre di constatare l’avvenuto decorso dei cinque anni, la sent. n. 32/1997 (caso analogo a quello del 18 aprile 1999) fa invece esclusivo riferimento all’art. 36 l. n. 352/1970 (accertamento, da parte dell’Ufficio centrale per il referendum, della mancata partecipazione alla votazione della maggioranza degli aventi diritto). Soltanto con uno spericolato volo pindarico si può sostenere che le due situazioni siano assimilabili (ovvero, che la locuzione « senza esito » possa significare: « con risultato »).

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5. Per concludere, l’art. 38 l. 352/1970 potrebbe dunque sì essere sospettato di illegittimità costituzionale, ma –contrariamente a quanto sostiene Manzella– in quanto, se interpretato nel senso di assimilare il caso di un referendum « senza esito » per mancanza del quorum di partecipazione a quello di un referendum valido ma respinto dalla maggioranza (relativa) dei votanti, assoggetterebbe irragionevolmente allo stesso regime giuridico due ben distinte situazioni.

Milano, li 13-20 ottobre 1999
Emilio Colombo

 

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