RCS on Line - Corriere della Sera

Mercoledì, 1° maggio 2000


Ultima occasione per una riforma
di Angelo Panebianco

Nei referendum del 21 maggio la posta è assai alta anche se, certamente, molti cittadini ancora non lo sanno (se mai lo sapranno).

Si dovrà decidere, per esempio, se, in materia di licenziamenti, ci allineeremo agli altri Paesi europei oppure se continueremo a frenare investimenti e occupazione con norme che, ingessando il sistema, scoraggiano gli uni (gli investimenti) e deprimono l'altra (l'occupazione) pur illudendosi di tutelarla.

Si dovrà decidere se ci piace o no un finanziamento pubblico dei partiti, che già una volta gli italiani hanno condannato e che, tra l'altro, contribuisce a mantenere artificialmente in vita una pletora di gruppuscoli parlamentari.

Si dovrà decidere se vogliamo introdurre una effettiva e, sperabilmente, efficace separazione fra il lavoro del "giudice" e quello del "pubblico ministero". Ancora, si dovrà decidere, ed è il tema politicamente più caldo, se abrogare o no la quota proporzionale.

Se vinceranno i "sì", il segnale sarà, per la classe politica, inequivocabile: gli italiani avranno ribadito di volere una democrazia basata sul metodo maggioritario (di un tipo o dell'altro). Forse, ne verrà anche una spinta sufficiente per obbligare la classe politica a porre mano alla Costituzione rafforzando il potere del premier. Altrimenti, se la quota non verrà abolita, ciò verrà (lecitamente) interpretato dalla classe politica come un incoraggiamento a reintrodurre integralmente la proporzionale.

Tra le molte ragioni che consigliano di non tornare al metodo proporzionale ma, al contrario, di completare la transizione, iniziata (malamente, con una brutta legge) nel '93, verso una compiuta "democrazia maggioritaria", ce n'è una che emerge dalla schiacciante maggioranza delle ricerche comparate più recenti sul "rendimento" delle democrazie: la circostanza secondo cui le democrazie maggioritarie (le democrazie che adottano il sistema elettorale maggioritario, a un turno o a due turni) hanno rendimenti economici nettamente superiori a quelli delle democrazie "proporzionali" (quelle che utilizzano il metodo elettorale proporzionale).

Le democrazie maggioritarie, sia quando sono governate dalla destra sia quando lo sono dalla sinistra, hanno una superiore capacità di mettere sotto controllo la spesa pubblica. Combattono meglio l'inflazione. Hanno tassi di sviluppo più elevati. Hanno tassi di disoccupazione nettamente più contenuti. Non solo, ma in contrasto con ciò che dicono gli apologeti della proporzionale, anche le democrazie proporzionali tradizionalmente meglio governate fino alla fine degli anni Sessanta (per esempio, le democrazie scandinave o l'Austria), dalla seconda metà degli anni Settanta in poi, riescono sempre meno a fronteggiare le nuove esigenze che le sfide economiche pongono ai governi occidentali (chi vuole saperne di più può consultare il libro di Adriano Pappalardo e Liborio Mattina, Democrazie e decisioni). Detto in altri termini: nell'era della globalizzazione, la democrazia maggioritaria è nettamente meglio attrezzata di quella proporzionale a fronteggiare le sfide economiche.

La ragione è semplice: la democrazia maggioritaria accresce normalmente la forza dei governi e li rende meno ricattabili da parte dei rappresentanti (parlamentari ed extraparlamentari) dei gruppi di interesse, e, in particolare, degli innumerevoli micro-interessi che vivono di spesa pubblica e di mercati protetti.

Quando si è trattato di mettere sotto controllo e di razionalizzare la spesa pubblica, le democrazie maggioritarie ci sono riuscite incomparabilmente meglio delle proporzionali. Con tutti i positivi, conseguenti, effetti a cascata sullo sviluppo economico. Ci sono, in questo quadro, due (apparenti) eccezioni.

Fra le democrazie occidentali ce ne sono infatti due che utilizzano varianti della proporzionale e che hanno, purtuttavia, comportamenti abbastanza simili a quelli delle democrazie maggioritarie: Germania e Spagna. Ma, per quanto riguarda la Germania, la celebre stabilità di cui hanno fin qui goduto i suoi governi, e il basso numero dei suoi partiti, contrariamente a quanto affermano coloro che in Italia si ispirano al "modello tedesco", non dipendono che assai marginalmente dal sistema elettorale (formalmente misto ma in realtà proporzionale con sbarramento del 5 per cento). Dipendono soprattutto da circostanze contingenti: prima fra tutte, come ha giustamente osservato Giovanni Sartori (nel suo libro sulla Ingegneria costituzionale comparata), dalla decisione della Corte costituzionale, nella fase di consolidamento del sistema dei partiti, di mettere fuori legge i partiti anti-sistema di destra e di sinistra.

Chi dice di volere importare il sistema elettorale tedesco non solo non ci riuscirà (il Parlamento italiano non è stato capace neppure di porre uno sbarramento dell'1% alle elezioni europee) ma, per giunta, ammesso e non concesso che per un miracolo ci riuscisse, assai difficilmente otterrebbe la stabilità di governo "tedesca" (peraltro, per i prossimi anni, a rischio, secondo diversi osservatori, nella stessa Germania). Anche la Spagna è solo apparentemente una eccezione. Il suo sistema proporzionale opera infatti con circoscrizioni elettorali così piccole da creare, di fatto, uno sbarramento altissimo, formidabile. Gli attuali piccoli partiti italiani verrebbero tutti spazzati via se si adottasse il sistema elettorale spagnolo (un sistema proporzionale che funziona "come se" fosse un maggioritario).

Nessuno dei gruppi che oggi lotta per difendere la quota proporzionale e, con essa, il proprio potere di ricatto e di veto nei confronti dei capi di governo, accetterebbe mai il "sistema spagnolo".

In Italia ci sono dunque solo due possibilità: o si completa la transizione al maggioritario (e il referendum è una tappa decisiva per obbligare il Parlamento a farlo) oppure si torna alla democrazia proporzionale del passato. Ossia, a un sistema di governo altamente inefficiente, risultato, in Occidente, il meno attrezzato per fronteggiare le nuove sfide economiche.

In Italia, poi, abbiamo anche un'altra ragione per completare la transizione al maggioritario. Se continueremo ad avere primi ministri deboli, in balia di fluttuanti maggioranze, esposti al quotidiano ricatto di micro-partiti, rischieremo, un giorno o l'altro, che il presidente della Regione Molise (o della Basilicata), dall'alto della sua solida leadership, conquistata sul campo, si rivolga al fragilissimo.

 

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