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Albi tra Antico e Nuovo

Percorrendo la strada che da Catanzaro per Fossato Serralta e Taverna conduce nella Piccola Sila, Albi ci viene incontro, immerso in una pace silenziosa fatta di verde, di azzurro, di voli festosi.

Sia che lo si guardi da lontano, sia che vi si giunga e lo si percorre nelle sue strade, nella sua piazza simpaticamente accogliente, nelle sue viuzze linde e tortuose, Albi non vi delude: vi accoglie con onesto garbo, vi riempe lo spirito di serena dolcezza, vi delizia con la visione dei suoi nitidi orizzonti che si confondono con l'azzurro del cielo e con il mare lontano, dei poggi e delle valli ridenti e sfavillanti di luce.

La posizione geografica di Albi è infatti tra le più felici: circondato da un paesaggio alpestre, sorge su uno dei contrafforti silano meno accidentati ed impervi. Protetto a nord dal massiccio silano e circondato dagli altri punti dalle balze che se ne distaccano degradanti verso il mare, il paese è chiuso come in un immenso anfiteatro che gli fa sentire più miti gli inverni e meno afose le stagioni calde.
 

Le Origini

Le origini di Albi sono strettamente legate a quelle dell'attuale Taverna alla cui storia, pertanto, bisogna brevemente rifarsi.

Un periodo di lotte e di sconvolgimenti aveva investito la Calabria nella seconda metà del secolo XV: alle agitazioni di carattere politico si erano aggiunte rivendicazioni economico-sociali di estrema gravità, preludio alla rivolta che di lì a qualche anno metterà in serio pericolo il trono di Ferdinando II.

Se a questi sconvolgimenti si aggiungono gli scontri sanguinosi tra le fazioni di Aragonesi e degli Angioini dei quale la Calabria era stata teatro in precedenza e le discordie tra Antonio Centelles, marchese di Crotone e conte di Catanzaro ed i sovrani di Napoli, discordie che portarono un pò dovunque, ma soprattutto nei paesi facenti parte dell'aggregato feudale dei Ruffo (con i queli il Centelles si era imparentato sposando Enrichetta, contessa di Catanzaro, che il re avrebbe voluto dare in moglie al suo amico Innico Davalos), distruzioni e rovine, si comprenderà come la prima metà del secolo XV e gli inizi della seconda non siano stati per la Calabria tempi tranquilli ma sanguinosamente burrascosi e incerti.

Taverna subì distruzioni e rovine tali che i suoi abitanti non credettero più conveniente ricostruire la loro città nello stesso luogo.

"Rovinata Taverna - scrive padre Giovvanni Fiore, storico capuccino di Cropani - tutte le famiglie principali ci ricoverarono ove meglio poterono, singolarmente in San Pietro, habitatione poco distante et ove haveano le lor possesioni co' loro casini, in Bompignano, villaggio più lontano tanto più sicuro dalle scorrerie nemiche, e negli Albi, che per le qualità del sito eminente trasse molti a popolarlo".

E' da respingere come fantastica l'opinione che l'origine del nome Albi debba ricercarsi nell'aggettivo latino albus, bianco. I cronisti che sostengono tale interpretazione si copiano l'uno dall'altro senza portare alcuna ragionevole giustificazione alle loro tesi.

Il terreno sul quale si decise di costruire il nuovo paese apparteneva ad Agostino Albio, ricco possidente: Albi prese il nome da lui.
Dardanise si chiamò così dal nome dell'antica famiglia di Palepoli, in Uria, superstite di Dardano, che i Trischenesi, gli abitanti di Trischene, la primitiva Taverna, chiamavano Dardani.

Se si tiene conto che il paese è costantemente nominato nei documenti antichi e negli atti pubblici e privati casale degli Albi, perchè sorto sulla sua terra, si comprenderà come la denominazione sia in relazione col ricco Albio e non con l'agettivo albus.

Sulla sinistra del Litrello era l'ospizio di S. Giovanni per i passeggeri; vi si edificarono alcune case ed il luogo fu detto San Giovanni d'Albi.

Albi, sorto come casele di Taverna di cui seguì storia e vicende e rimasto tale fino al 1806, anno in cui divenne comune autonomo, ebbe un tempo giurisdizione, oltre che sui villaggi di San Giovanni, che gli appartiene ancora e Dardanise che ne costituisce un rione con una chiesetta dedicata a San Filippo, su Magisano, San Pietro e Vincolise.

Per le leggi istitutive di Magisano del 1820 e di Sellia Marina del 1956, Albi si vide ridotto il territorio perdendo dapprima San Pietro e Vincolise che passarono a Magisano e poi, nel 1956, buona parte delle terre che possedeva verso il mare con le quali si costituì il comune di Sellia Marina.
 

Albi e la Religione

Un cenno sulle chiese esistenti e aperte al culto e su quelle distrutte nel tempo e dall'incuria degli uomini, delle quali soppravive il ricordo.

La Chiesa madre di Albi è dedicata ai santi Pietro e Paolo.
Sorta probabilmente nel secolo XVI, possiede alcuni oggetti sacri di fine fattura e in argento massiccio: una croce astile, un secchiello e un vasetto per la purificazione, oggetti che portano incise le date, il secchiello ed il vasetto del 1743 e la croce del 1688.

Nella sacrestia della chiesa si conserva un pregevole reliquiario con una reliquia della Croce autenticata e sigillata il 27 maggio 1709 dal cardinale Pallavicino su instanza del mons. Fortunato Durante, vescovo di Squillace, e da questi inviata in dono alla chiesa del suo paese.

La chiesetta di San Filippo, di cui si è detto sopra, ha una funzione sussidiaria: vi si celebra messa le domeniche e le altre feste.

Fino al 1920 fu aperta al culto la chiesetta di Santa Maria della Misericordia a fianco della strada mulattiera che conduceva e conduce tuttora da Taverna in Sila.

A ridosso del muro perimetrale destro di questa chiesetta i Padri Agostiniani della Congregazione di Zumpano, che fecero conoscere in Albi la dolce figura di San Nicola di Tolentino, costruirono un loro convento nel 1570; era l'Università, cioè la Pubblica Amministrazione di Albi, che provvedeva al vitto ed al vestito dei frati.

Soppresso il convento nel 1653, la chiesetta continuò a funzionare; fu chiusa al culto, come si è detto, soltanto nel 1920.

Dalla chiesa di Santa Maria della Misericordia proviene una Madonna col Bambino che si trova ora nella chiesa parrocchiale; sulla base si legge Sancta Maria Populi.
Di incerta attribuzione e di fattura mediocre, da un esame obiettivo e da un confronto con altre statue che si trovano a Taverna e Sellia che mostrano più o meno la medesima tecnica, si potrebbe, come data, assegnarle la seconda metà del '500.

Ancora nella chiesa parrocchiale troviamo un dipinto di notevole fattura rappresentante la Madonna col Bambino tra i santi Girolamo e Sebastiano; la sicurezza dei tratti e la sobrietà del colore potrebbe farlo assegnare ad un artista di buona capacità e ispirazione.

La chiesetta di Santa Maria delle Grazie detta dell'Oliveto, posta su un'altura che domina il paese, è da pochi anni stata riaperta al culto; dopo che un fulmine distrusse il campanile durante un furioso temporale.

Un ricordo merita, inoltre, l'Abbazia di Pesaca i cui ruderi si incontrano, a pochi chilometri da Albi, salendo verso la Sila.
Sorta intorno al secolo XII, era un cenobio di monaci basiliani; una chiesa ricca e frequentata affiancava l'Abbazia: ora è tutto avvolto da silenzio e da oblio.

Come ai tempi, del resto, di Gian Lorenzo Anania, dotto scrittore tavernese del secolo XVI il quale, ricordando la magnificenza del tempio dedicato alla Vergine che attraeva fra quelle montagne folle devote di pellegrini, piange sulla fede che si indebolisce e si spegne e sulla indifferenza degli uomini che assistono impassibili allo scomparire di così venerande ed insigni memorie.
 

Concittadini Famosi

Fra gli uomini degni di ricordo nati ad Albi sono il teologo francescano Gerolamo d'Albi vissuto nel secolo XVIII e morto in Catanzaro agli inizi del XIX; mons. Fortunato Durante, vescovo di Squillace dal 1697 al 1718; mons. Nicola Canino (1897-1962), parroco del Santuario della Madonna di Porto in Gimigliano, dal 1937 vescovo di Oppido Mamertina ed in seguito, chiamato a Roma da Pio XII che ne conosceva le doti di pastore infaticabile e zelante, canonico della arcibasilica patriarcale di San Giovanni in Laterano e valido collaboratore del cardinale Benedetto Aloisi Masella arciprete della stessa basilica.

A mons. Canino è dedicata la piazza più importante del paese e l'edificio delle scuole elementari prende il nome da lui.

Nato ad Albi il 7 aprile 1897, fu sacerdote a 23 anni, consacrato da mons. Fiorentini il 13 maggio 1920.
Rimase per circa un anno quale vice rettore e professore nel seminario arcivescovile di Catanzaro indi fu arciprete di Gimigliano ove in fervida attività apostolica trascorse un quindicennio, zelando il culo della Madonna nel Santuario di Porto e rimanendo in benedizione tra il popolo cui prodigava una costante ed intelligente opera di illuminata carità.
Papa Pio XI lo nominò nel 1937 vescovo di Oppido Mamertina e fu il più giovane presule d'Italia.
Durante la guerra vendette la sua croce pettorale di oro e col ricavato alimentò tante opere di assistenza.
Da Papa Pio XII che lo conosceva e stimava fu nominato vescovo titolare e chiamato a Roma; Giovanni XXIII lo nominò canonico dell'arcibasilica patriarcale di San Giovanni in Laterano.
Fu colto da grave malore nell'espletamento della sua attività pastorale in una chiasa di Roma; Giovanni XXIII con paterna sollecitudine volle che lo assistesse il suo medico personale prof. Rocchi.
Morì santitamente il 15 maggio 1962 con l'anima concentrata in Gesù e Maria, trasformando il dolore in sapiente amore, come dice la bella iscrizione che dettò il prof. Vito Giuseppe Galati e che scolpita sulla sua casa natale lo ricorda ai posteri.
 

Albi e San Nicola

La devozione per San Nicola è in Albi antica di secoli ed è vissuta con fede viva e sentita, oggi come nel passato.
Furono i Padri Agostiniani di Catanzaro che nel 1570 fecero conoscere in Albi la dolce e soave figura del Santo di Tolentino la cui fama di taumaturgo si andava diffondendo ogni giorno di più; il seme gettato da quei buoni Padri non cadde inutilmente nel cuore degli Albesi i quali lo coltivarono con vivo e trepido amore.

San Nicola, nato a Sant'Angelo in Pontano nel 1245, entrò oblato ancora fanciullo tra gli Agostianiani della sua città; novizio nel 1260, studiò a Tolentino ed a Cingoli.

San Benvenuto, vescovo di Osimo, lo ordinò sacerdote nel 1269. Tra il 1269 ed il 1277 svolse attiva opera di apostolato spostandosi da una comunità ad un'altra. Nel 1275 si stabilì definitivamente a Tolentino ove morì il 10 settembre 1305.

La mite ed affascinante figura di asceta e di taumaturgo che le testimonianze rese al processo di canonizzazione evidenziano con singolare ampiezza, era riuscita, a pochi anni dalla morte del Santo, a conquistare devoti in ogni parte d'Italia e d'Europa.

Albi scelse per protettore questo santo dal volto di fanciullo ed ad esso giurò fede e devozione senza riserve.

San Nicola accettò lo slancio degli Albesi, li protesse, li scampò da mali e pericoli. Catastrofi naturali che seminarono in Calabria lutti e rovine, non toccarono Albi o vi produssero danni scarsi ed irrilevanti: la festa del Patrocinio, che si il 21 marzo di ogni anno, è un tributo di amore riconoscente per la benevola assistenza che San Nicola non ha mancato di prodigare ai suoi devoti in occasione di pubbliche calamità e di vicende dolorose che il paese ha attraversato nel corso dei secoli.

Il 10 settembre è la festa grande, la festa che ogni albese attende con segreta ansia ed alla quale, se è lontano, pensa con struggente nostalgia.

Una onesta gioia pervade in quel giorno gli animi di tutti, gioia che si manifesta sotto il colorito simpatico ed attraente del folklore e nella sorridente letizia di un incontro con il Santo, nel tripudio delle strade parate a festa, nel bisogno di partecipare ad una tradizione di fede che vivifica gli affetti e fa palpitare i ricordi più cari: sempre piano di spontanea freschezza è lo slancio col quale gli Albesi ridicono ogni anno a San Nicola il loro amore e la loro fede.

Dopo questo corale attestato di gratitudine e riconoscenza il paese si chiude nel silenzio dell'autunno incipiente e dell'inverno vicino: il ricordo del Santo che ne ha illuminato e benedetto nel suo passaggio la vita umile e modesta, resterà a lungo nei cuori.
 

Ingiusti Sospetti - Un processo a carico di Francesco Corea

In una notte del novembre 1861 quattro guardie di Taverna avevano arrestato nei pressi di Albi Francesco Corea, padre di quel Pietro Corea che, chiuso negli impenetrabili recessi della Sila con una comitiva di fuorilegge, s'era fatta una fama sinistra di brigante inafferabile e temerario; il ricordo dei suoi audaci colpi di mano si tramanda ancora tra i vecchi albesi ed il suo nome soppravive tenace.

Da vario tempo il comandante della Guardia Nazionale di Taverna era stato informato che Francesco Corea si apprestava a recarsi in SIla per portare al figlio viveri e biancheria.

Dopo vari appostamenti risultati infruttuosi si decise di assaltare in forze la "Pagliara", poco distante dall'abitato di Albi, dove dimorava il Cora; il quale fu finalmente arrestato essendosi rinvenuta nel suo ricovero una bisaccia contenente pane, ulive, castagne, una camicia, un pantalone, un paio di calze ed una giubba: oggetti che furono subito sequestrati come corpi di reato e chiara testimonianza della connivenza del Corea col figlio brigante; era evidente, per i militi che avevano proceduto all'arresto, come quella bisaccia fosse destinata a Pietro Corea.

Si istruì un regolare processo; vennero sentiti una decina di testimoni che deposero tutto a favore dell'arrestato asserendo di non aver avuto alcun sospetto che lo stesso potesse aver corrispondenza col figlio in passato nè che cercasse al presente il modo come comunicare con lui.

L'arresto del Corea era stato effettuato per indurre il figlio, e con lui la banda che capeggiava, a costituirsi; lo aveva chiaramente compreso il capitano Tentoni, comandante della colonna mobile di stanza a Taverna il quale, chiamato in causa dal procuratore del Re, dissociò le sue responsabilità da quelle del capitano comandante la guardia mobile del mandamento Ignazio Poerio Piterà, facendo osservare rispettosamente ma fermamente che non avrebbe mai proceduto all'arresto del Corea sia perchè non aveva mandato di cattura sia perchè sua divisa era la legalità; da ciò può comprendersi come quell'arresto fosse avvenuto senza alcuna prova di colpevolezza ma sulla base di semplici congetture.

Il processo istruttorio infatti non riuscì ad acquisire alcuna prova decisiva e sicura a carico del Corea il quale, con un indubbio accento di sincerità, rese al giudice questa dichiarazione: "Io sono innocente di quanto mi si imputa, non ho avuto mai corrispondenza con malfattori, nè con mio figlio quand'era in campagna. La bisacca con i commestibili che mi furono sorpresi era di mia pertinenza, perchè andavo in campagna a lavorare".

La Gran Corte Criminale della Calabria Ulteriore Seconda si pronunciò sulla vicenda il 10 gennaio 1862.

"Essendosi - è scritto nella sentenza - infruttuosamente investigato sul conto del incolpato si ordina che gli atti della causa medesima si conservino in Archivio fino alla soppravvenienza di ulteriori lumi e l'imputato venga rimesso in libertà".

Dopo due mesi di carcere Francesco Corea potè far ritorno ad Albi.

L'ultimo atto della sua triste avventura fu quello di rivolgersi al presidente della Gran Corte per rientrare in possesso della vertola, come è scritto nella petizione, contenente le povere cose che gli erano state sequestrate al momento dell'arresto.