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IL BIG BEN

di Ettore Barelli

De Giovanni, quarant'anni, capo officina, andò a cenare a casa perchè non vedeva la moglie da tre giorni; ma alle otto e mezza era già di ritorno. Gli altri non si erano mossi. La segretaria del padrone e direttore generale, il babbo, come lo chiamavano tutti, aveva portato di persona panini e birra e poi se n'era andata anche lei. Ora l'ingegnere aspettava che Carletti risalisse dal vano tra i due motori diesel, dove s'era calato a dare un'occhiata senza che nessuno ci sperasse. Sotto la gigantesca macchina, sulla morchia del pavimento, luccicava una macchia d'olio non più larga d'una spanna. Ecco tutto. L'ingegnere era nervoso. Non lo faceva vedere, ma lo era.

Ed era anche stanco, perchè da parecchi giorni non aveva avuto un momento di respiro e da tre notti anche lui non andava a dormire: poche ore verso mattina, sulla branda. Aspettava appoggiato al bancone di prova e di tanto in tanto dava un'occhiata ai manometri. Poteva trattarsi di una sciocchezza: comunque di quelle che fanno ammattire. Quando il capo officina rientrò, stava accendendosi un'altra sigaretta.

L'immenso capannone era quasi completamente immerso nell'oscurità; soltanto intorno alla macchina erano accesi tre piccoli riflettori e alcune lampadine ingabbiate, che penzolavano da lunghi fili perchè si potessero spostare secondo il bisogno; e una lampada al neon era accesa sul bancone. Sotto il neon, la testa dell'ingegnere, illuminata da dietro, sembrava aureolata. La segretaria, poc'anzi, aveva pensato di lui san Lucio martire, perchè si chiamava Lucio ed era certamente martire, con quella gatta da pelare e il babbo che s'aspettava da lui il miracolo, e gli operai che spesso la sapevano più lunga di lui, anche se poi arrivava il momento in cui dovevano arrendersi davanti agli strumenti elettronici e sbuffavano e alzavano le spalle.

Era tanto giovane che De Giovanni gli dava del tu, specialmente quando gli parlava in dialetto, mentre lui gli dava ancora del lei, per rispetto alla sua autorità di capo officina e di cervello fine. "E allora?" chiese De Giovanni guardandosi intorno e vedendo tutti con le mani in mano, che pareva aspettassero di far giorno. "E Carletti non c'è?" "È dentro che sta cercando una perdita" disse Trerè, un montatore, che aveva appena finito di scolare la lattina di birra. De Giovanni rivolse uno sguardo interrogativo all'ingegnere. "C'è una caduta di pressione" disse pallido l'ingegnere.

Avrebbe potuto aggiungere che la perdita forse dipendeva da un errore nel collegamento dei tubi flessibili dell'impianto servocomandi, ma non disse nulla perchè era stato il capo officina a curarsene e ci aveva faticato la sua parte. E poi non era affatto sicuro che il difetto fosse quello. De Giovanni fece un giro intorno alla macchina. "C'è una chiazza d'olio sotto" disse Trerè. "L'avete provata ancora" disse De Giovanni. Sembrava non troppo soddisfatto che l'avessero toccata in sua assenza. "Naturalmente" disse l'ingegnere. "Avete fatto lo spurgo dell'aria?" "L'abbiamo fatto."

La macchina gigantesca posava immobile sui suoi cingoli nuovi. Era un escavatore di cento tonnellate, lungo quindici metri e alto sei, montato su cingoli, con due motori diesel da trecento HP ciascuno. Trerè, col suo metro e ottanta d'altezza, arrivava giusto con gli occhi all'orlo dei cingoli. L'immenso cucchiaio dentato, largo sei metri, in cima ai lunghi bracci, era stato montato pochi giorni prima e robuste catene di ferro penzolavano ancora dal carro-ponte sovrastante.

La carpenteria non era stata tinteggiata e quindi appariva di diversi colori ferrigni e bruniti. Luccicavano soltanto le aste dei martinetti idraulici, di acciaio cromato, tra un groviglio di tubi flessibili, grossi ciascuno come il polso d'un uomo, capaci di sopportare pressioni di quattrocento atmosfere, neri e stranamente eretti come serpenti cobra prima dello slancio. Del resto, se fosse saltato qualcuno dei raccordi d'acciaio che li trattenevano alle piastre d'attacco dei martinetti, sarebbero diventati davvero come serpenti impazziti, vomitanti olio rovente. Succedeva di tanto in tanto.

De Giovanni, all'improvviso, scalò deciso i cingoli e si affacciò al vano. "Hai trovato niente?" gridò. Non aspettò neppure la risposta. "Vieni fuori che provo io!" Carletti spuntò poco dopo sotto la luce cruda di una delle lampadine che gli penzolavano sopra la testa. Aveva la faccia congestionata e l'espressione che non si capiva se fosse di stanchezza o di dispetto. Faticò parecchio a trarsi fuori completamente. Aveva una lunga striscia d'olio marrone sulla fronte. "Non si capisce una madonna là dentro" disse sacramentando per sfogare la delusione della sua gita inutile nelle viscere della macchina. De Giovanni lo spinse da parte, prese il suo posto sull'orlo del vano, sporgendosi dallo stretto ballatoio di metallo che correva tutto intorno alla torretta con la sua balaustra di tondino di ferro.

L'ingegnere aveva dedotto dal suo comportamento che probabilmente era d'accordo anche lui sulla natura del guasto, benchè non l'ammettesse esplicitamente, perchè la faccenda gli bruciava. Ma in sostanza doveva essere d'accordo. Disse brevemente: "Mettiamo in moto, proviamo ancora." Il capo officina non replicò, si ritrasse dal vano. L'ingegnere fece un segno a Trerè, che s'arrampicò sulla cabina e mise in moto i motori. La macchina rabbrividì, subito avvolta da un frastuono potente che echeggiò sotto le alte e buie strutture metalliche del capannone: un rombo da tapparsi le orecchie. E immediatamente si sparse intorno l'acre odore dei gas di scarico.

Tenendosi con una mano e illuminando con l'altra il vano sotto di sè con una delle lampadine ingabbiate, il capo officina esplorò la buia cavità, per nulla intimorito dal rombo dei motori. Indicò a Trerè, seduto sul seggiolino dei comandi non molto discosto da lui, di azionare prima l'una e poi l'altra delle leve dei manipolatori; la torretta si girò di alcuni gradi e poi ritornò nella posizione di prima; i cingoli entrarono in tensione per un attimo, ma il gigantesco cucchiaio non si mosse, inerte, come incollato al pavimento. Trerè toccava appena le levette con la punta delle dita, le spingeva avanti di mezzo pollice con molta prudenza.

Gli altri operai si erano scostati dalla macchina. C'erano Tonelli, l'operatore, Giacometti, eccitato come un ragazzo; Loris, che trattava le grandi pale con la stessa venerazione con cui trattava la sua motocicletta.

L'ingegnere non s'era mosso dal bancone e dai manometri. Quel guasto, quel niente, proprio un niente?, non ci voleva. Dopo un anno di studi, avevano messo l'escavatore in cantiere e da tre mesi un intero settore dello stabilimento aveva accanitamente lavorato ad allestirlo. Lui si era dedicato soprattutto al cuore della macchina, la pompa, il distributore, il circuito, i martinetti, i manipolatori, a giocare la sua partita imprevedibile, per non dire stregata, con l'olio cha va immancabilmente dove fa meno sforzo e non dove si vorrebbe che andasse, per la distribuzione della potenza ai cingoli, alla torretta, al braccio di ferro con la benna in cima, centottanta quintali da solo, sul quale pareva stesse scritto: sto bene dove sono, da qui non mi muovo.

Si erano accorti del guasto che il capo officina era appena uscito, preoccupato per la moglie e non meno per la macchina, che tuttavia sembrava finalmente a posto dopo averlo prosciugato in quei giorni di almeno tre chili. Se n'era andato per poche decine di minuti, convinto al ritorno di trovare facce distese. Lo bruciava anche il fatto che il guasto si fosse rivelato durante la sua assenza. Ora, chinato sul vano dei motori, pensava alla faccia dell'ingegnere, che gli era parsa del colore dell'olio lubrificante e non gli era piaciuta affatto. Lui, per quella faccia, sentiva grande responsabilità. L'ingegnere gli era cresciuto vicino, appena uscito dal Politecnico, che non sapeva neppure girare un cacciavite. Gli si era messo alle costole, corretto, rispettoso, gli dava persino del lei. Passava gran parte della giornata in officina anzichè nell'ufficio tecnico dove sarebbe stato il suo posto. Poi il babbo lo aveva mandato in Germania, in Inghilterra e in America, finchè in officina, a poco a poco, al vecchio bancone di prova non si era sostituito quello nuovo, dalle apparecchiature sofisticate come quelle di una sala operatoria. Ma non per questo il giovanotto aveva smesso di scivolare con lui sotto le pale, se era necessario e anche se non lo era, a sporcarsi d'olio. Sicchè si era stabilito tra loro un rapporto sempre più complicato, a mano a mano che l'ingegnere ricorreva alle sue apparecchiature: un rapporto di rispetto reciproco, che non aveva affatto guastato la confidenza - se lo portava persino a casa, a cena dalla moglie che si faceva in quattro - ma non sempre facile, specialmente da quando il giovanotto s'era dovuto accollare quella bega, con tutto il prestigio dello stabilimento conglutinato in ogni chilo dei suoi centomila chili e passa.

Ora sarebbero venuti tutti. Rinviare? La segretaria aveva detto che sarebbero arrivati dopo cena: il direttore generale, il vice, suo figlio, gli ingegneri dell'ufficio tecnico, il direttore commerciale cui non andava mai bene niente.

Che gli saltava in mente a quel bestione di fare i capricci proprio ora? De Giovanni balzò a terra e si avvicinò all'ingegnere. Il rombo dei motori era sempre assordante. Studiarono la strumentazione. Lunghi fili ne partivano per penetrare tra le strutture della macchina, raggiungerne i punti più delicati e misurarne il rendimento. I due in piedi osservarono a lungo le lancette che oscillavano tremolanti.

Nel rumore era impossibile intendersi con la voce, ma il capo officina capiva anche troppo le indicazioni dell'ingegnere, la cui faccia fortunatamente era solo preoccupata; non pretendeva affermare di non averne colpa. Era già qualcosa; ma non era questo che importava, non si trattava di manometri e lancette: la caduta di pressione era già evidente di per sè, nell'enorme braccio immobile, che pareva sfinito; anzi, morto, come il ferro di cui era fatto. Il capo officina sentì l'ansia montare dentro intollerabile. Si voltò, ritornò alla macchina, si inerpicò sul ballatoio e poi, con improvvisa decisione, si accinse a calarsi nel vano motori.

L'ingegnere cacciò un urlo: "De Giovanni!", un grido stridulo, quasi isterico; così forte che il capo officina l'udì e si voltò verso il basso. Dalla cabina, Trerè spense subito i motori e di colpo fu un silenzio innaturale.

"Bè? che c'è?" chiese De Giovanni dall'alto della torretta. "Come che c'è? Stava scendendo tra i motori accesi" disse l'ingegnere con la faccia terrea. "E allora?" "Come allora? Se si spacca un tubo..." "Perchè s'ha da spaccare un tubo? Li ho stretti io, so bene come li ho stretti!" Trerè voltò appena la testa e disse piano: "L'ingegnere ha ragione." "Bella scoperta!" urlò il capo officina, paonazzo. "So anch'io che se si spacca un tubo mi friggo nell'olio. Ma Cristo!, bisognerà pur vedere che cazzo succede la sotto!" "Domani" disse l'ingegnere "la prego."

De Giovanni si affacciò dal mantegno del ballatoio. "Ora arriva il babbo con tutto il seguito, noi mettiamo in moto e questo accidente non si muove. Sai che bello spettacolo?" Tonelli era lo spiritoso del gruppo. "Pluf" disse, mimando con la mano. "È capitato anche a me, qualche volta."

L'ingegnere si arrampicò a sua volta sulla torretta. Aveva lo sguardo fisso, assente; ma a guardarlo sottopelle si vedeva che quell'urlo di prima gli era venuto dallo stomaco e che i nervi dentro gli ballavano come le lancette dei suoi manometri.

Fece un cenno a Trerè, che rimise in moto i motori. Sotto i loro occhi, il groviglio dei tubi parve agitarsi come un groppo di bisce vive che si stirassero al sole. Loro sapevano bene quale terribile pressione si scatenasse dentro quei tubi, quale forza enorme, a premere con implacabile spinta contro i pistoni dei martinetti: la spinta di seicento cavalli concentrata insieme su pochi centimetri quadrati. In tutti quei tubi, fuorchè uno.

Ma perchè? E quale? Ed era proprio in quei tubi la fuga e il relativo afflosciamento della bestia? A lungo li osservarono fremere con gli occhi appannati dalla fatica. La lampadina oscillava lievemente sulle loro teste, chinate sul vano: provocava ombre tremanti e luccichii. Tutta la macchina tremava, che pareva avesse la febbre, e il frastuono irrompeva nei cervelli. Il capo officina sembrava non udirlo affatto, o che ne godesse le rotonde vibrazioni; e si sporgeva sempre più avanti.

Finalmente l'ingegnere lo toccò su di una spalla, mentre Trerè spegneva i motori. Disse, nell'improvviso silenzio: "Mi faccia il piacere, scenda giù. Guardi, da sotto, il tubo dodici." "Il dodici?" ripetè il capo officina. Fissò l'ingegnere negli occhi. "Cristo!" disse "il dodici!" Il suo cervello lavorava. Fissò di nuovo l'ingegnere. "Tu dici il dodici, ingegnere. Bene. Questa è la volta che mi taglio i coglioni."

Scostò il giovanotto perchè lo lasciasse passare. "Da sotto ci arrivi meglio" disse Trerè. Loris era salito anche lui dall'altra parte. "Perchè il dodici?" chiese. L'ingegnere lo prese per un braccio. "Tu scendi da qui" gli disse. "De Giovanni potrebbe aver bisogno di una mano."

Il capo officina era già balzato a terra. Si munì di chiavi, di o-ring, le speciali guarnizioni, spinse con un piede il carrellino scorrevole, vi si sdraiò sopra supino e aiutandosi con le mani scomparve tra i cingoli. L'ingegnere intanto aiutava Loris a calarsi nel vano e gli regolava la luce delle lampadine, fissandole a un supporto.

Sentiva lo stomaco chiuso, con una doglia all'altezza del piloro. Avrebbe avuto bisogno di buttarsi per cinque minuti sulla branda dello spogliatoio a placare il panico che gli veniva incontro al galoppo. Ma in quel momento tutte le luci del capannone si accesero a scatti ritardati, come fanno le lampade al neon quando sono fredde. Da una delle porticine laterali di metallo, entrò una guardia in divisa a far strada a un corteo di persone, che cominciarono a mostrarsi a una a una.

L'ingegnere ebbe persino paura di vomitare. Si drizzò sul busto, fece alcune profonde inspirazioni, cominciò a scendere senza fretta. A terra, come si voltò, si trovò davanti la segretaria del direttore generale. La signorina sembrava preoccupata. "Siamo qui" esclamò "non siete pronti?" "Perchè?" disse l'ingegnere impassibile.

"Il capannone era al buio. E gli altri dove sono?" proseguì guardandosi intorno. "Quali altri?" La signorina rimase interdetta. "Posso dire che tutto è pronto?" chiese. "Naturalmente." S'infervorò. "Il direttore ha portato i tedeschi" disse. Intendeva dire un gruppo di tecnici tedeschi che da mesi stavano trattando un complesso rapporto di collaborazione col loro stabilimento. Piccole goccioline di sudore imperlavano la fronte dell'ingegnere sotto la luce cruda delle lampade. "Ah, bene" disse "molto bene."

Pensò che se da parecchi giorni quasi non metteva piede negli uffici, non era tuttavia corretto che non sapesse nulla dei tedeschi. Il servizio informazioni aveva funzionato male e questo lo mandava in bestia ancora di più, anche se era difficile che potesse sentirsi peggio di quanto si sentiva. Sapeva che tra i tedeschi c'era sempre l'ing. Menker, che, patito per la cucina romagnola, non perdeva mai l'occasione di essere della compagnia alle cene che la ditta offriva al Molino Rosso o alla Sterlina, al San Domenico, o magari nelle trattorie della bassa tra le anguille. Era un gran mangiatore; ma se anche quella sera avesse cenato per due e bevuto per quattro, non per questo gli sarebbe sfuggito il benchè minimo segno di reticenza o di incertezza. Era da lui che l'ingegnere aveva imparato a Francoforte a fare le cose come van fatte e non a naso; sicchè a Portsmouth, a Goteborg, a Cleveland, e dovunque era stato, s'era reso conto che non si poteva far meglio; tanto che fino a mezz'ora prima avrebbe giurato che pochi al mondo le facevano così bene come loro. Ma ora non aveva più voglia di giurare su niente, eccetto che sulle mani di De Giovanni sepolto sotto quei mille quintali di ferro.

Come aveva previsto, l'ing. Menker c'era e stava parlando col direttore; e c'era il figlio del direttore, e la moglie, presidente della società, e i colleghi dell'ufficio tecnico, dal primo all'ultimo. S'erano fermati davanti alla porticina d'ingresso, presumibilmente in attesa di notizie dalla segretaria. "Posso dire che siete pronti?" chiedeva lei. "Il direttore vorrebbe dare una dimostrazione, far vedere la pala in movimento." "La torretta e il braccio, almeno" precisò il capo dell'ufficio tecnico sopraggiunto in quel momento. Aveva curato lui il progetto della carpenteria. "Fai fare qualche giro alla torretta e un pò di collaudo alla benna, magari con qualche cubo di cemento." "Vi aspettavamo più tardi" disse l'ingegnere. "Avete piantato lì la cena?" "Sono tutti in frègola" disse il capo dell'ufficio tecnico.

Il direttore aveva preso sotto il braccio un grosso signore che l'ingegnere non conosceva e aveva lasciato il rosso Menker alle cure della moglie, che era donna capace e di garbo. S'era messo in disparte con lui e gli mostrava le attrezzature del capannone con ampi gesti del braccio. Di media statura, dai tratti decisi, passava per un uomo dall'intuito sicuro; e anche per un duro, quand'era necessario. Non tollerava errori e aveva collere a freddo con le quali era meglio non misurarsi. Anche questo passava per la mente dell'ingegnere, mentre chiedeva al capo dell'ufficio tecnico di dargli pochi minuti; e intanto teneva d'occhio Trerè, che in piedi accanto ai cingoli stava in attesa di veder spuntare, dall'altra parte della macchina, il carrello del capo officina.

Si rivolse a Tonelli, l'operatore, gli indicò la cabina del ponte gru che dominava il capannone per quasi tutta la larghezza con le sue lunghe travi di metallo. Gli disse: "Vai sù, carichiamo la benna coi cubi di cemento. Cinque, almeno. Anche sei, se ci stanno." "Sei sono quasi centoventi quintali" disse l'operaio. "Lo so." "Lo so, lo so; lo so anch'io" borbottò Tonelli avviandosi. Poi si voltò bruscamente. "E chi sistema le catene?" "Tu bada a salire" disse l'ingegnere.

La segretaria continuava a stargli alle costole. "Dov'è De Giovanni? Non è ancora tornato De Giovanni?" L'ingegnere non rispose; la guardò con gli occhi vitrei di quando non ne poteva più. Lei s'accorse del sudore che gli imperlava la fronte. "Sta male, ingegnere?" "Nemmen per sogno" disse lui.

Tonelli era ancor lì. "Che casino" disse come se ne fosse soddisfatto. E cominciò ad arrampicarsi sulla scaletta verticale di ferro. Veniva in quel momento dall'ingresso un gruppetto di operai per il cambio. L'ingegnere li organizzò intorno ai cubi di cemento e dette loro una mano perchè li imbragassero con le catene. Poi bloccò il capo dell'ufficio tecnico che non stava fermo e andava avanti e indietro dall'uno all'altro. "Tieni tutti lontani ancora per dieci minuti. Carichiamo il cemento." "Vuoi proprio provarci?" "Me l'hai chiesto tu." "Bè, non è indispensabile. Certo, farebbe un bell'effetto." "E come no?"

Il ronzìo della gru era piuttosto fastidioso, e il cigolìo delle pulegge, le catene che sbattevano insieme. C'era anche qualche pericolo e tutti si tirarono indietro. L'ingegnere si disse che era il momento di salutare almeno il direttore, la signora, l'ing. Menker. Era il meno che potesse fare. Ma sentiva anche di essere così stanco, che se avesse avuto a tiro la branda, vi si sarebbe addormentato di colpo. Prima tuttavia si volse a dare un'occhiata a Trerè. Dagli occhi di lui, apparentemente imbambolati, capì che c'erano novità. Gli si avvicinò.

Quasi senza muovere la testa, il montatore gli indicò il pavimento: da sotto i cingoli, il capo officina era appena spuntato, ancora sdraiato sul carrello, la faccia in alto, gli occhi offesi dalla luce; pareva che si stesse svegliando in quel momento. Si trascinò fuori del tutto e si levò in piedi, al riparo della macchina. "Li ho visti arrivare da sotto" disse. "C'è anche il tedesco."

Ghignava. "Vado a lavarmi la faccia". Si volse a Carletti che era venuto a curiosare. "Vai a recuperare Loris" gli ordinò. "Se non lo tiri tu per i piedi, quello rimane incastrato dentro." Finalmente guardò l'ingegnere. "Cristo!" disse soltanto "il dodici!", e s'allontanò ciondoloni verso la parte opposta del capannone, dov'erano gli spogliatoi. "Ce l'ha fatta?" chiese Carletti. "Certo" disse l'ingegnere.

Questa volta si mosse finalmente verso il gruppo degli ospiti. Salutò la signora. Essa lo guardò negli occhi, come aveva fatto poco prima il capo officina. Guardò anche dietro di lui, ma non disse nulla. Ha visto De Giovanni, pensò l'ingegnere. Allora disse: "E dentro ce n'è un altro. Speriamo di riuscire a tirarlo fuori." Lei sorrise affabilmente, come se non avesse inteso, e condusse l'ingegnere dal marito. Nel gruppetto, più che in tedesco, si parlava in francese. Vennero sprecati sorrisi e strette di mano.

Poi il babbo prese l'ingegnere per un braccio e gli dette una stretta terribile. "Che c'è?" gli chiese "tutto bene?" "E come no?" "Con che peso la caricate?" "Centoventi quintali, più o meno." "Non le sembrano tanti?" "Tanto vale..." "È la prima volta?" "La prima volta." "Molto bene" concluse il babbo impassibile.

Si portò nel poco spazio tra la macchina e il gruppo dei presenti e con una certa solennità, un pò in italiano, un pò in francese, disse: "Signori, ecco la nostra ultima creazione. È l'escavatore più grande mai costruito in Italia, uno dei più grandi del mondo. Il suo nome ufficiale è BEN 910. Pesa circa mille quintali e il suo braccio può sollevarne a pieno carico centocinquanta. È provvisto di due motori diesel della Fiat Aifo della potenza di trecento cavalli ciascuno. Destinato a grandi opere di scavo e di sbancamento, compie il lavoro di seicentocinquanta uomini. Questo è il prototipo già venduto in Sicilia e che entrerà in opera dopo un congruo periodo di collaudo, che faremo da qualche parte, probabilmente nelle cave di gesso di Riolo Bagni. Siamo naturalmente orgogliosi di questo prodotto del nostro gruppo BEN, e credo che possa esserne orgogliosa anche la nostra Imola, che è una cittadina di provincia, ma si muove, e crediamo si muova nella direzione giusta. Ora vedremo come si muove lei, la macchina. Naturalmente ci limiteremo a pochi movimenti; non siamo all'aperto e i cingoli potrebbero sollevare il pavimento. Sulla benna sono stati caricati sei cubi di cemento per un peso complessivo di centoventi quintali. Ecco dunque a voi il BEN 910!" "Il Big Ben" disse qualcuno, nel silenzio che precedette un lungo applauso.

L'ingegnere sudava in modo irrefrenabile, era tutto madido. Vide il capo officina che stava ritornando dagli spogliatoi e aveva la tuta bianca e sembrava persino pulito. Con lui c'era Loris, scampato chissà come e anche lui in tuta bianca. "Ingegnere!" chiamò il direttore; e gli fece cenno di salire sulla cabina. Trerè gli allungò le chiavi di avviamento. "Faccio io" disse De Giovanni facendosi dare le chiavi. "Tu nemmeno ti reggi in piedi" ghignò a bassa voce.

L'ingegnere lasciò fare. Il capo officina s'inerpicò lentamente fino alla cabina di comando, si assestò sul seggiolino di guida, mise in moto i motori. Per mezzo minuto, il tonfo regolare dei due diesel riempì di frastuono e di echi il capannone. La macchina vibrava sui cingoli. Il lungo braccio si protendeva inerte con la benna dentata carica per tutta la sua larghezza dei massicci cubi di cemento, che pareva la tenessero inchiodata irreparabilmente al suolo.

All'improvviso il rombo si alzò come un tuono e contemporaneamente i cingoli si tesero, la parte posteriore della macchina sobbalzò due volte e il cucchiaio si staccò da terra, cominciò ad alzarsi adagio adagio col suo carico che, assestandosi, fece risuonare cupamente le grosse lamiere di ferro; si eresse di alcuni metri dal suolo, s'impennò. Quindi cominciò a girarsi verso il gruppo dei presenti, che arretrarono istintivamente di qualche passo, si rigirò dalla parte opposta, di nuovo fu sull'asse dei cingoli.

Il frastuono era tremendo, ma la macchina sembrava non facesse nessuna fatica. L'acciaio cromato delle aste, quasi del tutto uscite dai loro martinetti, luccicava come metallo prezioso. E il carico ondeggiava lieve. Il capo officina, a quella distanza, sembrava rimpicciolito. Sfiorava con la punta delle dita le leve dei manipolatori, appena un tocco, e la smisurata proboscide che gli si ergeva davanti oscillava in sù e in giù, docile come una mano che avesse abbrancato appena qualche sasso dal letto di un fiume.

Un altro tocco, e con un sobbalzo si girava dalla parte opposta, obbediente, agile, persino veloce. Tutti gli occhi erano fissi sulla benna, oscillante a dieci metri sulle teste, che quasi sfiorava le strutture di sostegno del capannone. Ma l'ingegnere guardava invece il capo officina, cercava di spiarne da quella distanza il viso, se mai non vi scoprisse qualche segno.

Così si accorse che stava ridendo. Dio santo, stava proprio ridendo. Ne fu certo. E stava per ridere anche lui, sennonchè il braccio, in quel momento, calò a terra di colpo, per fermarsi giusto giusto a trenta centimetri dal suolo, con un estremo sobbalzo, che alzò di una spanna la parte posteriore dei cingoli. Quindi il cucchiaio si rovesciò delicatamente in avanti e i blocchi di cemento scivolarono insieme sul suolo grommoso, quasi senza rumore. E subito i motori si fermarono.

Scoppiò un applauso che non finiva più. Menker, che non aveva fatto che girare la testa dalla macchina al banco prova, battè una mano sulla spalla dell'ingegnere che gli era al fianco, e intanto faceva col capo grandi segni di assenso. Quindi andò a stringere la mano al direttore e alla signora, al vice, all'ingegnere capo dell'ufficio tecnico e si fermò infine a parlare col grosso signore sconosciuto, mentre la segretaria e le altre impiegate distribuivano bicchieri e uno dei disegnatori faceva saltare i tappi di bottiglie di spumante, tra evviva, cin cin e le più fragorose manifestazioni di compiacimento generale.

Il capo officina, intanto, scendeva senza fretta dalla cabina e si attardava persino con uno straccio a pulire il passamano di metallo cromato. La signora gli andò incontro offrendogli un bicchiere. Il direttore diceva in francese al grosso signore: "Vede quell'operaio? È nato meccanico senza saperlo. Qui, più o meno, sono tutti così, meccanici nati. Hanno bielle al posto delle ossa." Lo chiamò, lo presentò al grosso signore, poi gli chiese piano, in dialetto: "Che diavolo era successo?" "Una guarnizione. Ma bisognava scoprire qual era." "A quanto pare, ci sei riuscito." "C'è riuscito lui" disse il capo officina indicando con un gesto l'ingegnere. "Cristo, se c'è riuscito. Il dodici, mi ha detto. Era proprio il dodici; Cristo, se era il dodici! Novantotto tubi dell'accidente, sono novantotto, e lui ti becca quello giusto. Quello che mi scoccia è che l'ha capito a naso."

Lo chiamarono che aveva la bocca piena e un bicchiere di spumante che gli tremava lievemente in mano. Si avvicinò, insieme con la signora. Il babbo ora sorrideva.

Gli chiese: "Come ha fatto, ingegnere, a individuare il guasto?" "A naso" disse il giovane ingegnere. "Mi ha insegnato lui come si fa."

"Glielo avevo detto? A naso, c'è riuscito a naso" ribattè il capo officina.

 

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