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L'OCCHIO DI DIO

di Ettore Barelli

 

Più di cinquant'anni fa, sul finire della prima rivoluzione elettronica, quando persino i bambini si sbizzarrivano sulle tastiere dei loro elaboratori alla ricerca di nuovi linguaggi, io, allora ventenne, preparato, appassionato, fornito di denaro e di mezzi quanto potevo desiderarne, mi accinsi a un'impresa eccezionale e a tutt'oggi unica, che fin dal primo momento intuii in tutta la sua originalità con la coscienza di tentare qualcosa di mai tentato a memoria d'uomo. Mio padre era allora a capo di una delle industrie elettroniche più famose nel mondo, di tal peso e prestigio nel settore che poi è rimasta leggendaria e se qui ne facessi il nome molti potrebbero ancora confermarne la fama, sebbene da parecchio tempo il grande complesso, che aveva sue sedi in tutti i continenti, si sia frazionato, in gran parte per colpa mia, e in sostanza non esista più. Io fui l'erede di quell'impero e ne fui anche il liquidatore; potrei parlarne per migliaia di pagine.

Ma qui voglio trattare di tutt'altro e proprio per questo, per non distrarre e non distrarmi, tacerò il nome della gigantesca azienda paterna, le tre lettere che la distinguevano ovunque, fin nel più sperduto villaggio tibetano. Qui voglio parlare della mia personalissima realizzazione: di quell'assillo della mia vita, di cui il mondo, che di me ha conosciuto tanta parte, non ha saputo mai nulla. Quando avevo vent'anni, mio padre ne aveva cinquantadue, mia madre due di meno. Mio padre era un uomo fuori del comune, una personalità di prim'ordine, persino fisicamente, per l'alta ed eretta statura, le spalle larghe da atleta, gli occhi severi che incutevano profonda soggezione. La sua nobile testa, coronata di fama e di potenza, sovrastava quasi sempre gli astanti come quella di un nume. Anche in casa, sebbene con noi ragazzi fosse tenerissimo, la sua presenza si avvertiva quasi altrettanto sacra; sempre benefica, tuttavia, e rassicurante. Non ricordo della mia infanzia altro che un felice e sereno trascorrere di giorni e nessuna noia. Allora le mie tre sorelle maggiori, nate prima della Guerra Mediterranea, si erano sistemate fuori casa; ma non passava giorno che dal piccolo eliporto in fondo al parco non giungesse, insieme col leggero soffio dell'aeromobile, la voce festosa di qualcuna di loro. La quarta, Elly, nata durante la guerra, era stata gravemente offesa da radiazioni ad appena pochi mesi di vita ed era rimasta pressoché nana e deforme; il suo grado mentale, in compenso, era straordinariamente sviluppato, soprattutto nelle facoltà mnemoniche, che mio padre - lei lo adorava e avrebbe fatto per lui qualsiasi cosa - utilizzava persino nel suo lavoro.

Subito dopo ero nato io. È naturale che crescessi beato tra le tante donne di casa; e quando le mie sorelle avevano mostrato inclinazione a tutt'altro che la tecnica, mentr'io sembravo costituito, mente e cuore, soprattutto per essa, mio padre di conseguenza cominciò a pensare seriamente di lasciare a me la sua attività e indirizzò tutti i miei studi, che svolsi privatamente in casa, a questo solo fine. A vent'anni, ero senza dubbio tra i giovani più preparati ed efficienti della numerosissima schiera dei suoi esperti. Lo lasciavano in dubbio soltanto le mie capacità manageriali: dubbio che tranquillamente condividevo. Ma che uomo fosse, lo dice il fatto che non se ne mostrò mai dispiaciuto.

Aveva allora, come ho detto, cinquantadue anni e sapeva che non sarebbe vissuto a lungo per le stesse ragioni di mia sorella minore e di mia madre. Il giorno del mio ventesimo compleanno, mi consigliò di lasciare la nostra casa e di vivere per conto mio, dove e come avessi creduto opportuno, a meditare sul mio futuro. Mi isolai così per alcuni mesi in una nostra villa di montagna; ma era come se fossi a casa, non solo per i frequenti ritorni da mia madre, curiosa delle mie prime avventure - mi piacevano le ragazze e mi aiutavano a vincere un'incipiente inclinazione omosessuale che essa non aveva mai accettato con troppo entusiasmo - ma anche per un completo collegamento televisivo, che mi permetteva di passare a volte intere ore con mia sorella, alla quale ero particolarmente affezionato, in una intimità ancora maggiore che se l'avessi avuta accanto, per il noto fenomeno video, che, isolando l'immagine, concentra tutta l'attenzione su di essa, senza interferenze ambientali. Nella villa di montagna, tuttavia, l'isolamento era certo maggiore che nella casa di città, e, riflessivo com'ero e incline alla meditazione, con quel cruccio della morte prematura dei miei sullo sfondo della malinconia che attraversava spesso la mia giornata come una nube, concepii un disegno che non sarebbe appropriato chiamare particolarmente ardito, visti i mezzi pressoché inesauribili di cui disponevo e le mie cognizioni teoriche e tecniche non comuni, ma piuttosto nuovo e originale, bizzarro, se si vuole, e magari velleitario; questo sì, lo riconosco subito; ma certamente insolito e mai tentato prima.

Contrariamente ai miei coetanei, avevo il gusto della lettura. Mi piacevano i libri scritti, forse perché aborrivo i passatempi legati alle immagini, abituato com'ero a utilizzarle per ragioni pratiche e scientifiche piuttosto che per passatempo. Leggevo in quei giorni il romanzo di uno scrittore che era stato famoso parecchi decenni prima e ormai era dimenticato. In esso, trovai una mattina questa affermazione: "Ciò che noi chiamiamo lutto è non tanto il dolore di non poter vedere tornare in vita i nostri morti, quanto il fatto di non poter desiderare che ciò avvenga." Ero sdraiato sul letto della mia stanza, la testa appoggiata ai cuscini. Dalla finestra aperta, entrava l'aria fresca dei monti e dell'abetina, in mezzo alla quale sorgeva la casa. Poco prima avevo parlato con mia madre dal grande schermo sistemato di fronte al letto. Mi era apparsa molto pallida e per due volte, durante la nostra breve conversazione, si era interrotta, fatta assente, per così dire, per un attimo di estraniazione, caratteristico del suo stato fisico. Sembrava in quei momenti che qualcuno la chiamasse all'improvviso da un'altra stanza.

Anche mio padre cominciava in quei giorni a essere soggetto al fenomeno, che in Elly poi era così accentuato, da costituire gran parte del suo atteggiamento abituale. Da queste pause frequenti di estraniazione, si volgeva all'interlocutore con un sorriso dolcissimo e una vivace scintilla di intelligenza dall'occhio sano, l'altro come spento, anzi, come stanco di vedere. A Elly avevo chiesto una volta che cosa pensasse o vedesse o udisse in quegli attimi di assenza; e lei aveva risposto: "È il mio segreto." Orbene, quell'affermazione letta nel romanzo, unita alla pena di mia madre, mi tenne sospeso per parecchi minuti, non perché mi rivelasse qualcosa di straordinario e mai udito o pensato. Anzi, non l'avevo nemmeno del tutto intesa e forse fu proprio questa la ragione per cui mi soffermai a meditarla. In sostanza affermava la nostra impotenza di fronte al fenomeno della morte e di conseguenza la nostra rassegnazione a subirla quando e come intenda proporsi al nostro orizzonte, particolarmente al nostro orizzonte familiare. Pensiero che non occupa seriamente, quasi mai, un giovane di vent'anni. È bensì vero, però, che quando lo coinvolga, può succedere che lo faccia in forma addirittura traumatica, intollerabile.

E questo era il mio caso, trovandomi per di più nella condizione di sapere con certezza che di giorno in giorno si avvicinava a grandi passi l'ora in cui avrei dovuto rassegnarmi alla perdita delle tre persone che amavo di più al mondo e senza che fosse possibile, da parte mia o di chiunque altro, opporsi in alcun modo all'ineluttabile scadenza. Sapevo, per esempio - e si ammetterà che questo era pensiero doloroso quant'altri mai - che mio padre aveva già preso contatti col suo medico personale per fissare i termini di un trapasso sereno; non solo per la scelta del modo, ma anche per stabilire per tempo la data e preparare nelle dovute forme una cerimonia - se così posso chiamarla - di tanto impegno. Loro, mio padre, mia madre e mia sorella, erano già preparati; il che, se per mia madre e per Elly significava quasi esclusivamente uno sforzo di natura psicologica, un esercizio quotidiano - strazio di quasi vent'anni - di lento accostamento a quell'ora che per loro sarebbe stata l'ultima, per mio padre esigeva una programmazione anche d'altro genere, di natura pratica, com'era il graduale assestamento del suo impero industriale in previsione della sua scomparsa. Come in tutte le sue cose, anche in questa egli si stava comportando con grande lucidità di intenti e soprattutto senza scosse nè decisioni avventate. Molti altri, al suo posto, avrebbero lasciata la barca alla deriva; o preteso da me che ne assumessi la guida. Ma gli era bastato - come ho già detto - scorgere il più lieve accenno di riluttanza da parte mia, per rimettere immediatamente a me ogni decisione: a me e a mia madre, che mi aveva chiesto: "È proprio no?" e non aveva preteso di chiedermi altro.

Ora, tanto informale comportamento di fronte a decisioni di tale impegno, come aveva impressionato i vecchi dirigenti dell'azienda, così aveva finito con l'impressionare anche me. Sicché, nella solitudine della casa di montagna, quella affermazione del romanzo, che in altri momenti sarebbe scorsa davanti ai miei occhi come insignificante, generò in me la rivolta. Che i miei fossero rassegnati alla loro morte si poteva capire: non potevano fare altrimenti, e del resto lo erano da tanti anni. Ma io potevo ribellarmi: non alla loro morte, s'intende, ma agli effetti di essa su di me. Che cosa di più degno poteva tentare la mia tecnica se non di prolungare la loro presenza, fissarne gesti e parole, oltre che i loro volti, in sequenze durature capaci di restituirmeli palpitanti ancora di vita, nell'interezza del loro respiro quotidiano? O altrimenti, a che m'era servito tanto studio, a che mi serviva la conoscenza di tante sofisticate conquiste? Ero giovane e sensibile, e si può capire la mia ingenuità. Ai miei volevo bene veramente, assai più di quanto non possa apparire da queste mie note frettolose. E fu proprio questo sentimento che mi mosse, che mi spinse ciecamente all'impresa.

Subito lasciai la villa di montagna e ritornai in famiglia. Chiesi a mio padre che mi mettesse a disposizione uno dei nostri laboratori più avanzati e alcuni dei nostri uomini più capaci; e a mia madre, di permettermi una serie di istallazioni che in casa nostra non erano una novità e semplicemente avrebbero arricchito quelle già esistenti. Le spiegai anche naturalmente di che si trattasse e ne parlai a lungo con Elly, che dopo aver tentato di dissuadermi, si adeguò di buon grado. Si trattava, in sostanza, di documentare capillarmente la vita dei miei con procedimenti nuovi, quelli che allora erano allo studio e che oggi tutti conoscono, diffusi dappertutto col nome di PR, o Point Recording, che permettono, com'è noto, la registrazione continua di ventiquattro ore nello spazio di un punto. Dirò per inciso che fummo proprio noi, in quei mesi, a rendere operante il sistema e che non pochi furono i contributi dati da me, non foss'altro nel senso della sollecitazione, ma anche con apporti non del tutto secondari, che mi valsero persino un sorriso di compiacimento di mio padre e la stretta affettuosa di un suo braccio attorno alla mia spalla nella grande sala del consiglio, davanti a tutti i suoi collaboratori appositamente convenuti.

Da quel momento, un complesso impianto di microsensori in funzione continua cominciò a registrare nella nostra casa ogni attimo della giornata, avvalendosi, con intervento automatico, della ripresa a raggi infrarossi e di quella agli ultrasuoni. Altri sensori agivano da dosso agli uomini della nostra scorta, particolarmente di mio padre e mia, ma anche di mia madre e Elly, le rare volte che uscivano. L'imponente materiale raccolto veniva selezionato ogni giorno da un elaboratore allestito da me e che per parecchio tempo restò ignorato, finché anch'esso non venne poi diffuso e oggi è di uso comune. A questa prima selezione automatica, programmata al fine di eliminare tutto il materiale inutile, i vuoti d'immagine particolarmente, seguiva poi una selezione mia, che occupava alcune ore di ogni mattino. Un impegno pesante, ma che sapevo che non sarebbe purtroppo durato a lungo. Pochi mesi dopo, infatti, dovetti registrare la cerimonia - così l'ho chiamata anche perché questo in sostanza è il suo nome più appropriato - della morte dei miei. Raccolti nella grande sala della nostra casa, circondati dal nostro affetto, mio padre, mia madre ed Elly, assistiti dal nostro medico, affrontarono in tre tempi il trapasso, apparentemente tranquillo e sereno; ne parlerò poi. Ciò che qui importa dire è che da quel momento, all'improvviso, con improvvisa quanto inspiegabile determinazione, decisi di continuare l'impresa, che per me ormai aveva un fascino morboso, perché lo sviluppo di quanto era accaduto mi aveva sconvolto. Ho già detto che ne parlerò più avanti. Qui intanto ripeto che, da quel momento, solo protagonista dell'esperimento fui io.

Da che mi venne questa follìa? Dall'antico anelito di fermare l'attimo? Anche da questo certamente. Mi dicevo che per tre secoli milioni di fotografi nient'altro avevano fatto se non fermare l'attimo, se non tentare ciò che dai tempi più remoti già tentava l'uomo delle caverne coi suoi graffiti. Naturalmente era illusione, l'attimo non si ferma, lo si può soltanto fissare in una tela o in un fotogramma o in un impulso elettronico; quindi nulla in sostanza di nuovo, lo so bene. Ma con un particolare: la resa totale di una realtà nel suo divenire. Particolare non da poco. Già avevo osservato da tempo che la totalità di un fenomeno non differisce dai suoi momenti successivi soltanto in ordine alla quantità, ma è anche altra cosa, anche qualitativamente parlando. Voglio dire che i particolari di un fenomeno, documentati, per esempio, soltanto da una sequenza di impulsi a sè stanti o di vecchi fotogrammi (ecco un volto di donna amata, colto in pose successive, che a trent'anni di distanza mi strappa l'anima dai rumori del mondo) quando sia documentato nella sua interezza e nei suoi particolari in movimento, quale sconvolgente emozione! Là è un certo numero di ricordi ormai sbiaditi dal tempo; qui è il fatto in sè, il terribile, sconvolgente fatto in sè. Qui non sono la corruzione (e le correzioni!) della fantasia; qui è il grido d'amore che ritorna alle mie orecchie come allora, identico, anzi, lo stesso. Poi, è vero, qui è anche il dispetto di quella parola sfuggita, di quell'errore incredibile compiuto con tanta leggerezza.

Che differenza con lo sbiadito rincrescimento memoriale per quella sciocchezza che commisi dieci anni fa e la visione diretta, reale, di come e quanto sbagliai! Si pensi, per intendere meglio il grado della mia innovazione, a ciò che tentarono i lontani scrittori europei agli inizi del secolo scorso, col cosiddetto flusso di coscienza, vale a dire (oggi, a parlare di queste cose letterarie, si corre il rischio di non essere intesi) la registrazione sulla carta dei pensieri che corrono nella nostra mente durante la giornata, colti nel loro susseguirsi disordinato, come quando, durante una passeggiata, possiamo pensare al prossimo incontro con una donna e contemporaneamente a un bisogno fisiologico urgente o a un impegno finanziario del giorno dopo: e i relativi flashes mentali si mescolano così per dare origine a un guazzabuglio, dove ogni segmento logico si accavalla all'altro senza alcun riguardo alla categoria o al genere, un guazzabuglio di per sè irripetibile, a meno che non si faccia come quegli scrittori appunto, che, giunti ormai al limite dell'afasia, tentarono di affrontarlo, col risultato di mettere assieme soltanto incredibili pasticci. Nel mio flusso di immagini, regna invece il più scrupoloso ordine sequenziale.

Ognuna delle mie sequenze non si risolve mai in un pasticcio insensato, ma si sviluppa lucida e puntuale come sono sempre stati lucidi e puntuali i miei gesti e le mie parole, o quelli delle persone con le quali ho avuto rapporti, tutta gente sana e sensata, ovviamente, perché tutti (è per questo che ho detto ovviamente) siamo sani e sensati, e possiamo sbagliare, questo sì; ma sbagliare è una cosa, agire in un modo insensato è un'altra. Si può ben dire che non esiste gesto insensato, che se appare tale in sè, non appaia più tale a conoscerne le motivazioni; per cui la realtà, colta in un attimo, può sembrare pura follìa; documentata nelle sue radici e nei suoi sviluppi, è invece un concatenarsi di conseguenze, cioè un'altra cosa. Tutto è quindi conseguente nei miei documenti. A cominciare intanto dall'ordine in cui sono tenuti: dal catalogo generale, che è per categorie con pochissime voci di facile consultazione, ai cataloghi particolari più complessi, a quelli infine analitici, per i quali la consultazione è naturalmente affidata al sistema elettronico automatico; per cui a me bastano pochi secondi per richiamare il PR di vent'anni fa, tanto per fare un esempio, in cui è registrato un incontro di affari, o le due ore che passai sul Balaton con quella ragazza trent'anni or sono; o infine la lunga giornata che trascorsi in quell'albergo di Cuba, dove toccai il fondo della mia vigliaccheria: è il PR 204 Z, che riprendo spesso quando debbo vincere l'orgoglio e ritrovarmi; tanto spesso, purtroppo, che ne conosco a memoria la sigla.

Ma a questo punto, è forse utile che io schiarisca un aspetto della mia realizzazione, che ne affronti l'obiezione principale, la prima intanto, che mi posi io stesso allora, superandola tuttavia facilmente. Io stesso infatti mi chiesi quale sarebbe stato il prezzo di una documentazione spinta fino a questo punto, se avrei resistito a guardare la mia faccia così a fondo, senza tradire il mio proposito, restando sempre e soltanto me stesso. Lo dico, perché, se già allora non faceva più effetto all'uomo comune "vedersi", altra cosa era la registrazione integrale del vivere. Per conto mio, fin da quando ero ragazzo, in qualunque momento, se fosse stato necessario o anche soltanto per il mio piacere, potevo raggiungere l'immagine di mio padre ovunque si trovasse, anche nella più sperduta sede del suo impero. Negli ultimi tempi, mia madre lo chiamava direttamente con un pulsante che portava sempre con sè, collegato al nostro centro di smistamento; e subito il volto di mio padre appariva sullo schermo prima ancora che egli si fosse reso conto di essere chiamato. Tutto ciò non lo disturbava affatto; gli era anzi motivo di conforto, perché con tutto che egli fosse pienamente rassegnato, anche quando la malattia donava una pausa alle sue sofferenze, lo sfondo della sua giornata tendeva facilmente al malinconico (e credo che si possa capire).

Anch'egli poteva analogamente raggiungere mia madre e sempre Elly, cui faceva compagnia o chiedeva consiglio, perché non c'era, per talune informazioni, elaboratore più efficiente di lei; le chiedeva anche conforto, perché il cuore di Elly era capace anche di questo, di suscitare la memoria o viceversa di donare l'oblìo. Non mi fu quindi difficile spingere al limite dell'intimità estrema la funzione documentaria. Non posso dire che sarebbe stato facile per chiunque. Per me lo fu, e, per la verità, anche per le persone con le quali ho avuto via via rapporti, ne fossero o no consapevoli. Del resto, chi mi legge sa bene come stanno le cose: oggi nessuno ci fa più caso. Cent'anni fa qualcuno avrebbe protestato, ma non oggi, anche se la mia realizzazione non si può confondere col comune telecontrollo di tutti gli uffici, le banche, le stazioni aeroportuali e persino le strade; controllo al quale tutti, che non siano grassatori o ribelli, sono abituati da tempo e perfettamente indifferenti. Va piuttosto detto che il suo carattere d'integralità mi rivelò fin da principio aspetti non previsti. Già vi ho fatto un cenno. Aggiungerò ora che abituato fin dall'infanzia a non riconoscere altra legge morale se non quella del rispetto e della tolleranza verso il prossimo, nè ad aderire ad alcuna confessione religiosa, m'accorgevo ora - me ne accorsi subito - che il mio progetto rischiava di pormi pericolosamente nella condizione del credente, che, a quanto si dice, è convinto in buona fede che da qualche plaga dell'universo, un occhio onniveggente, l'occhio di Dio, inflessibile custode della legge morale, sia perpetuamente spalancato su di lui, pronto a registrare il bene e il male nel grande registro dell'eternità. Che altro è Dio, infatti, per il credente, se non una specie di grande occhio? Orbene, non correvo il rischio che il mio progetto condizionasse in modo analogo la mia libertà etica?

L'occhio di Dio! L'espressione mi faceva sorridere; suonava al mio orecchio come certi nomi arcaici, il cui contenuto è ormai così evanescente da caricarsi di tutte le suggestioni dell'incomprensibile, come il nome della Sibilla Cumana o quello dell'Araba Fenice. Ma poi c'era dell'altro. Quei dieci minuti, nei quali ero riuscito a condensare ogni giorno la selezione del materiale del giorno precedente, non stavano diventando una sorta di esame interiore, di esame di coscienza; non stavano travalicando l'ordine tecnico per assumere una sempre più imperiosa fisionomia di ordine morale? Quindi, ripeto, occhio di Dio. Che contava se costruito da me? Non è anche Dio invenzione dell'uomo? Così pensava mia madre; così penso io, anche se lo scrivo con qualche titubanza: perché se è vero che noi sappiamo concentrare in un raggio laser la potenza di una reazione nucleare di cinquecento megaton, con la quale potremmo spaccare in due la Luna, è anche vero che ci vuol altro per frantumare la paura dell'ignoto. L'analogia non è casuale. Fin dall'inizio, ogni mia registrazione è sempre stata affiancata da selettori cerebrali agli ultrasuoni, quelli che messi a punto da poco sono oggi utilizzati normalmente dagli psichiatri; per certe scene intime, che io chiamo "ritratti d'interno", l'immagine si accampa olografica, intera, fuori dello schermo, circoscrivibile nello spazio tridimensionale. Ogni immagine, quindi, è corredata dalla banda di fondo sonora continua, e soprattutto, ancor più efficace, da quella cromatica.

Al profano, che non abbia domestichezza con questo tipo di apparecchiatura, oggi soltanto e solo parzialmente in uso nelle cliniche e nei tribunali, l'immagine di me, per esempio, che sto dicendo una frase apparentemente bonaria, il volto magari atteggiato alla più benevole comprensione, mentre l'intero schermo si ricopre di rossa lordura al punto che par grondi sangue, mentre la banda sonora di fondo si erge in picchi stridenti e acuti (a volte, superati i ventimila Hertz, i suoni addirittura svaniscono in un silenzio sospeso, documentati soltanto dai numeri in sovrimpressione a registrarne i valori, muti, è vero, ma non meno allucinanti), ebbene, è spettacolo impressionante, che mi accelera di vergogna o di rabbia le pulsazioni cardiache, come accade a chi venga sorpreso nell'atto di commettere un'infamia. Oppure, al contrario, vedermi gridare parole di rancore o di protesta su di uno sfondo di leggero cobalto, la banda sonora appena appena avvertibile come un lontano suono di violino, mentre l'immagine olografica esce dallo schermo e s'accampa reale fino all'urlo nel mezzo della stanza: che meraviglia! Rimproveravo una mia donna e dicevo parole dure; ma dentro, quanto amore, che desiderio di stringerla, come sentivo salire la voglia dai lombi per sentirla piangere di felicità! È il PR 34 A, uno dei più teneri momenti del mio passato, altra tappa d'obbligo per riagganciare la fiducia nel mondo. Naturalmente, il più delle volte, l'immagine, la banda sonora e quella cromatica, se proprio non corrispondono, variano soltanto per sfumature.

Ma talvolta, quale divario! Per di più, questo tipo di selezionatore, proprio per la sua estrema sensibilità, non è di facile lettura. Spesso non c'è soltanto il normale divario tra ciò che si dice o si fa in quel momento e ciò che si pensa, rivelato da suono e colore. Lo stato d'animo non è mai lineare, ma si muove generalmente lungo capricciose linee sinusoidali, come la superficie marina sotto l'azione di venti opposti, e occorre molta pratica per una lettura corretta dei valori espressi dal selezionatore, quando si contorce su se stesso, o s'impenna, e i picchi si susseguono in serie velocissime, tali che par di essere sottoposti a un crudele supplizio di fitti colpi di spillo. Non esiste una spettroscopia cerebrale immobile come gli spettri elettromagnetici emessi da atomi e molecole, sempre uguali a se stessi. Di questo flusso straordinario, che a chi lo studi sembra davvero essere l'autentico creatore del mondo, si possono soltanto ottenere sequenze, analizzarle elettronicamente, ricavarne dati statistici, a volte in sintonìa con le nostre impressioni, a volte assolutamente diversi e tali da farci seriamente meditare. Come ci conosciamo poco, com'è difficile liberare la verità; com'essa, se mai esiste, è mutevole! Tutto questo, dunque, sollevò in me per qualche tempo notevoli perplessità e mi tenne a disagio. Mi sembrava di sacrificare la mia autonomia interiore, di correre il rischio di invischiarmi a poco a poco nei tormenti dell'anima, estranei fino a quel momento alla mia serena contemplazione della vita e del mondo. Il mio progetto puntava ad altro. Intuivo allora, se pure confusamente, che le sue prospettive erano tali che per esse avrei potuto pagare ogni prezzo, anche quel rischio.

Avevo letto, in un altro libro disperato, quest'altra affermazione: "La vita umana si svolge una volta sola e quindi noi non potremo mai appurare quale nostra decisione sia stata buona e quale cattiva, perché in ogni situazione possiamo decidere una volta soltanto". E anche: "La vita che scompare è simile a un'ombra, è priva di peso, è morta già in precedenza e che sia stata terribile, bella o splendida, quel terrore, quello splendore, quella bellezza non significano nulla". Affermazioni di questo genere andrebbero lette in età avanzata, quando appaiono tanto vere quanto banali e impressionano soltanto gli sbadati. Ma lette a vent'anni, com'era capitato a me, turbano profondamente perché negano ogni valore di ciò che a vent'anni è il valore per eccellenza: la vita da vivere. Ma come! Domani vedrò la donna che amo, vincerò la battaglia, taglierò quel traguardo, e tutto ciò non significa nulla? Scherziamo? Come non ribellarsi? Queste affermazioni, quindi, mi spinsero anch'esse a continuare. Documentare ogni mio atto voleva dire fissarlo; e se lo fissavo in una serie di impulsi capaci di restituirmelo nella sua interezza, sì, certo, ombra era e ombra restava: ma coi suoi contorni esatti sullo schermo o nello spazio magico dell'ologramma e ripetibile a volontà. La mia vita così non si svolgeva "una volta sola", ma tutte le volte che io avessi voluto. Poi, come sempre, è questione d'intendersi. Ma se la vita è un'ombra, ripetere quest'ombra non è ripetere la vita? Se mai c'era da chiedersi se ne valesse la pena: questa sì era domanda legittima. A vent'anni, mi parve di sì. Non è di tutti il rimpianto del passato? La nostalgia del tempo perduto per sempre? Lo sforzo dell'affettuosa memoria per trattenerne i palpiti? Quale esercizio più candido, più puro, che riaffondare con la memoria in quell'attimo di suprema bellezza che non manca mai nella nostra esperienza? Quale sogno più dolce? Ma poi, perché chiamarlo sogno, quando può incidere ancora nella nostra quotidianità al punto da indirizzarla, al punto da essere esso stesso la nostra quotidianità, al punto da ridiventare presente? Fu a questo stadio della mia meditazione, che un giorno ebbi un'intuizione che mi tolse ogni dubbio. Mia sorella Elly era provvista, l'ho già detto, di facoltà memoriali sorprendenti, meditava spesso il fenomeno della memoria, la sua natura, le sue possibilità, lo spazio enorme che occupava nella sua vita. Diceva: "L'uomo è memoria"; diceva: "Tutto è memoria"; ripeteva spesso: "L'intelligenza, la genialità sono le foglie dell'albero della memoria, tanto più saldo quante più ha radici." E scherzava con mio padre e diceva: "I circuiti dei tuoi elaboratori non avranno mai l'efficacia delle mie radici, perché essi sono paralleli e le mie radici invece a ramificazioni: tu colleghi i tuoi sistemi tra loro, è vero, ma la mia più remota radichetta confluisce dal tronco a raggera, fino alle foglie più lontane." E una volta aveva detto: "Tutta la mia vita è presente nella memoria, cioè fuori del tempo e quindi anche fuori della morte." Ebbene, stavo appunto rivedendo la sequenza di Elly nell'atto di pronunciare questa frase, intenzionato a isolarla, a farne un PR a sè, per poterlo rivedere con facilità e capirlo, perché non l'avevo capito. Che voleva dire fuori del tempo e quindi fuori della morte? Non era morta, purtroppo? Che era rimasto della sua memoria? Come andava quindi intesa questa sua affermazione?

E allora ragionai pressappoco così: Elly intendeva dire che se tutto è presente perché in ogni atto del presente confluisce ogni atto del passato, che poi insieme saranno matrice del futuro, non sarà allora che nelle cose c'è un'essenza che si ripropone a ogni nostro atto, e che questa essenza è fuori del tempo, cioè eterna, quindi anche fuori della morte? Ora io non so davvero se ci sia questa essenza (anima, idea? come chiamarla?). Quel che so di certo è che qualcosa deve esistere e può esistere, come, per esempio, certamente esiste qualcosa in un'opera d'arte, che fa sì che essa, sempre e in ogni luogo, appaia diversa e uguale. Uguale, perché è quella che è e non certo un'altra; ma diversa, nello stesso tempo, perché quando si misura col mio sentimento d'oggi - come appunto accade quando la contemplo - mi appare sempre arricchita (o impoverita), ora perché mi mostra qualcosa che m'era sfuggito, ora perché esalta il mio stato d'animo attuale e lo rinnova, ora e sempre perché si confronta con la mia esperienza, oggi altrimenti articolata di ieri, più sensibile o più ottusa, ma insomma, diversa. Non è questa diversità nell'uguaglianza che distingue l'opera d'arte vera da quella falsa? Che regge al tempo di fronte all'effimero?

Ma come catturare questa morgana? C'erano forse riusciti i tanti che spesero infinite fatiche in questa ricerca e per essa sacrificarono persino la loro vita, nell'isolamento dal mondo, o macerati in un carcere, massacrati dalle folle o inchiodati su di una croce? E se ci fossi riuscito io, coniugando l'intera mia vita nelle mie apparecchiature, selezionando e selezionando fino a coglierne l'essenza non più nel magma confuso dei ricordi, ma nelle strutture implacabili dei miei circuiti? Perché non tentare? E mi dissi: tra cinquant'anni, se ancora vivrò, se avrò avuto costanza, non avrò a disposizione il più straordinario documento di tutti i tempi? Trasformando l'effimero in eterno, non avrò in mano un campo di ricerca mai posseduto da alcuno? Non potrà accadere così che a me riesca ciò che non è riuscito a nessuno, cioè di giungere a una conclusione fondata su basi scientifiche e inoppugnabili e non sui labili sostegni di una esperienza fatta di fragili ricordi, da cui ancor più fragili intuizioni? E non potrebbe accadere altresì che io giungessi in questo modo a cogliere almeno uno dei tanti perché, il più solenne, il perché della morte? Rivedevo la sequenza della cerimonia del trapasso dei miei. Quale serenità è in essa! E tuttavia, perché il celeste della banda cromatica svaria a quel modo nel violetto, perché s'incupisce a momenti fino a quelle striature cupe di catrame traversate persino da strisce di rosso? Da chi provengono quelle sbavature gialle e grige che all'improvviso si spandono sullo schermo? Da chi dei miei? O da me stesso, dalle mie sorelle, dal medico, da chi? Perché il celeste della serenità è in quella sequenza così spesso offuscato da sbocchi di vomito? Se dunque l'idea del mio esperimento sorse in me per un atto d'amore verso i miei, poi ben presto divenne l'ostinata intenzione di ottenere il paradigma della mia vita (della mia, nella quale riassumere le altre), da poter coniugare per giungere nel fondo, per coglierne l'essenza (la mia, che non poteva essere di natura diversa da quella di tutti), la verità segreta che abita sconosciuta in ciascuno di noi dall'origine del mondo, fuori del tempo, al di là della morte.

E così non ebbi più dubbi. In questi cinquant'anni, non ne ho più avuti. Tuttavia ho corso anche rischi. Cominciò tempo fa. Tra i momenti più belli del mio recente passato, m'accorsi un giorno che il più stupefacente, contro ogni aspettativa, era la sequenza di una semplice gita di montagna. Dopo una dura salita lungo un sentiero scosceso fiancheggiato da un torrente dall'acqua densa e spumeggiante, ero giunto tra vecchie case abbandonate, un antico insediamento minerario ormai inutilizzato da tempo. Superate le poche costruzioni cadenti, tra alcuni enormi massi erratici ricoperti di muschio, come tra le quinte di un palcoscenico, m'era apparsa all'improvviso una valle d'incantevole bellezza. Vorrei indicare il luogo, ma qualcuno potrebbe conoscerlo e ritenerlo meno bello di quanto apparve a me. Preferisco quindi idealizzarlo e invitarvi a immaginare la più bella valle montana che mai vi sia capitato di vedere. L'effetto era stato veramente stupefacente, generando nella banda cromatica - nonostante le difficoltà della registrazione all'aperto e da lontano dei miei soliti accompagnatori - il più puro colore celestiale, forse il più puro in senso assoluto. Ma poi, nella mia memoria, quel magico momento si era appannato per uno stupido incidente sopravvenuto proprio all'apparizione di quella meraviglia; e l'incidente, che mi era profondamente dispiaciuto, mi aveva quasi cancellato dalla mente quell'impressione; sicché, quando ebbi di nuovo sotto gli occhi il PR della sequenza con quel suo celestiale colore, fu una sorpresa, una scoperta.

Era allora con me, quella mattina, un amico che adoravo. Incantato, mi ero rivolto a lui, che mi seguiva, per dirgli di quell'incanto, e lui mi aveva risposto come non avrebbe dovuto, con frivola sbadataggine; e io, potendo a mia volta ribattergli in cattiveria, oppure giocare d'ironia e salvare l'incanto e l'amicizia, non so perché gli avevo stupidamente ribattuto in cattiveria, col risultato di produrre tra noi un guasto che solo in più giorni si era poi potuto riparare. Per questo avevo dimenticato la meraviglia della mia valletta solitaria e l'emozione profonda che ne avevo provato. Così fu una scoperta, come ho detto, ritrovarmela una sera sullo schermo, al punto che la ricercai altre volte, e sempre, ogni volta, provando il dispetto della sua sciocca conclusione. Un tale dispetto, che una sera, all'improvviso, presi una decisione molto grave, quella di correggerla: correggere la sequenza, intendo. Fu una tentazione irresistibile. Del resto non si trattava di una sequenza importante, fondamentale, ma soltanto di un breve episodio superato. Così, là dove ribattevo all'amico con cattiveria, non mi fu difficile, imitando la mia stessa voce emozionata dallo spettacolo della valle e ansante ancora per la dura salita, sostituire la mia risposta cattiva con quella ironica che avrei dovuto dare e non avevo dato; e intervenni anche sul colore, da livido addolcendolo su quel tono meraviglioso di cielo sereno. Un vero e proprio falso, ma con una intenzione precisa: recuperare un momento di beata felicità guastato dall'imprudenza del vivere, correggerne l'errore, raddrizzarne l'imperdonabile stortura. Ora, nella sequenza così manipolata, la valle mi si apriva davanti agli occhi, io ne decantavo l'effetto all'amico, egli rispondeva frivolo, io rintuzzavo ironico e pacificato sullo sfondo azzurro della banda.

Un falso, certo. Ma dopo che più e più volte l'ebbi goduto così rifatto, finii col considerarlo vero, quale non era stato certamente, ma quale sarebbe dovuto essere. E se era così che sarebbe dovuto essere, perché non doveva essere stato così? Forse perché non era stato così? E con ciò? Che differenza faceva? Se il passato è finito, mi dissi, se il passato è nulla, se ciò che ne avanza è soltanto un'immagine, correggendo l'immagine so bene che non correggo il passato; ma che me ne importa se ormai è nulla? E le conseguenze reali che esso ebbe nella mia vita? posso correggere quelle conseguenze? No, certamente, o almeno non sempre. Ma potrei correggerle ora nei loro effetti. Non sarebbe già tanto? La sequenza così corretta era bellissima: uno stupendo momento di pacificazione con la natura e l'universo. Perché lasciare che tutto questo restasse guasto e corrotto da un attimo di cattiveria? Pensai anche di aver agito come l'artista che spesso trasfigura in poesia la più banale impressione; ma poi mi parve persino di aver fatto di più, perché la mia scena poetica era incastonata in una realtà inconfutabile, di cui avevo drizzato la stortura. Nella mia ingenuità, arrivai persino a pensare che neppure Dio può tanto. Può egli far sì che un sasso caduto dalla montagna non sia caduto? Non può. La sua onnipotenza ha un limite, questo appunto. Io invece avevo raccolto il sasso e l'avevo riposto sulla montagna, avevo corretto il fatto. Diceva l'antico: non puoi bagnarti due volte nello stesso fiume, e io, invece, ecco, mi ci bagnavo due volte. Qualcuno stupirà della mia ingenuità di allora, tanto più grave perché non ero più un ragazzo. Del resto io stesso l'ho chiamata poco fa un grave rischio.

Tuttavia... E un altro rischio corsi. Il PR 302 documenta un'ora d'amore, il momento supremo d'un abbraccio e altre cose ancora sulle quali non voglio soffermarmi, perché è assurdo che io racconti episodi della mia vita, quand'essa è documentata qui come nell'inventario di un notaio, se mai è possibile un brutto paragone come questo in cui è come accostare il fuoco al ghiaccio. La sequenza non è molto lunga, ma terribile. Protagonista è una donna; e io la distrussi, ne feci strame (anche questo è documentato, naturalmente, ma non ho mai più osato rivederlo). Ne feci strame, la portai alla dissoluzione. È inutile che me ne chieda il perché. Lo feci e basta. Ossessionato dal rimorso, che in certe ore della giornata mi rendeva abulico come un automa e mi bagnava la fronte di sudore freddo, "ma perché" mi chiedevo "l'ho fatto?" E richiamavo la sequenza, come a richiamare la morta dalla sua palude. Fate uno sforzo, per piacere, immaginate che cosa possa significare per la mente turbata, per il cuore gonfio, resuscitare la morta compagna nell'impressionante ectoplasma dell'ologramma, riaverla tra le braccia, riudirla parlare soavemente, rivederla ridere, e non per parabole sbiadite dal tempo e trasfigurate dalle correzioni inconsce della memoria, ma vera, che respira, che geme, gli occhi scintillanti d'amore, le mani trepidanti sulla nostra pelle, il grido della passione, il calore, la dedizione, la resa. Ne avevo orgasmi terribili che mi schiantavano, mi lasciavano disfatto, gli occhi pieni di lacrime. Anche qui baravo nel mio solitario, quando, giunto a questo punto, la mano calava furiosa sul pulsante a fermare la sequenza. "Basta, non più!" e non proseguivo oltre, non ho mai proseguito oltre, per non sprofondare nell'orrore, finché cadevo per ore e ore in un sonno di piombo, come di morte.

Da qui, come più dubitare che tutto è presente? e non soltanto nell'eredità genetica che avanza nel sangue coi suoi soffi potenti a ogni battito del cuore, ma per me anche qui, nella sua gloria e nella sua miseria! Gioco rischioso davvero! Poi, certo, bastava che partissi per un viaggio, che mi allontanassi per qualche tempo dall'elaboratore, che accumulassi nuove esperienze, e l'ossessione era vinta. Ma da lontano, che nostalgia struggente, che ritorni improvvisi, precipitosi, inspiegabili agli occhi di chi m'era vicino. Quante volte mi dissi: "Ritornando, rivedendo, chissà che non scopra il perché, finalmente!" In realtà ricercavo quel volto, anzi, quei volti, tutto perpetuamente presente: i molti amori riflessi di un amore solo. È comprensibile che la tentazione finisse col travolgermi e per lungo tempo fui probabilmente e seriamente ammalato: una pazzia lucida e fredda, gestita con metodo, se così posso dire. Riordinai il mio passato, ne feci un modello esemplare, temperando le punte più aspre delle passioni, dando colore agli abbattimenti, sì che esso ora scorreva sotto i miei occhi solenne e silenzioso come un grande fiume. Prima o poi avrei scoperto il segreto di quel fluire, la sua essenza eterna. I miei interventi sul realmente accaduto, i miei falsi, non erano a capriccio, ma tesi a questo solo fine, secondo un piano di riordinamento programmato a questo traguardo. Di tutti i momenti significativi della mia vita passata, ebbi così l'originale e la copia corretta, quello che era stato e quello che sarebbe dovuto essere. Il gioco per poco non mi condusse a una pazzia irreversibile.

Uscii a fatica da questo stato, che poi chiamai la mia "crisi di sdoppiamento". Mi aveva portato al punto da non saper più distinguere il reale dal falso, da confonderli nella memoria, che ora rimuoveva l'uno ora l'altro, distinguibili ormai soltanto nel codice di richiamo. Quali sensazioni provai a sentirmi doppio! Smarrimento, confusione profonda, ma anche l'ebbrezza della non-coscienza, del non sapere più. Finché non reagii, estrapolando dall'ordine delle sequenze i falsi, riportando tutto allo stato primitivo. C'erano voluti anni, ma il delirio era passato. Solo la coscienza del mio passato non tornò più. Era accaduto come a chi per la vergogna rimuove dalla mente l'errore. L'ha appena commesso, che già si volge e dice: "Che cosa ho fatto di male?" Comunque continuavo a cercare. Passai intere giornate a rivedere e selezionare, a selezionare e rivedere, per capire, per trovare nella mia realtà - la realtà di tutti - la chiave di lettura di tanti moti del cuore, di tante cadute, di tanti risorgimenti. E così m'accorsi, rivedendo le sequenze degli ultimi tempi, che i momenti enucleabili s'erano andati riducendo a pochissimi, il resto occupato dall'immagine di me nell'atto di rivedere me stesso: la mia immagine che addizionava emozione a emozione, quando accadeva che osservando un episodio del mio passato e le reazioni di allora, reagivo sulla banda sonora e cromatica con nuovi colori e nuovi picchi sonori, accumulando sensazioni di sensazioni, dentro le quali, con sgomento, anziché trovare un filo, trovavo soltanto matasse aggrovigliate, dove l'unica certezza era quella di non averne nessuna. Tuttavia è pur vero che le lordure rosse, che sempre più di frequente, a mano a mano che invecchiavo, sbrodolavano il mio schermo e lo invadevano di macchie repellenti, non mi impressionavano più. Tra l'altro, se le confrontavo con quelle degli anni passati, specialmente con quelle che di tanto in tanto irrompevano nei PR della mia giovinezza, queste non erano poi nemmeno tanto rosse; spesso apparivano slavate, come se la banda cromatica si fosse logorata nel tempo e quella sonora avesse perduto l'impeto d'una volta, coi suoi picchi che erano come pugnalate e ora tendevano a perdere le punte, a smussarsi. Se mai qualcosa mi impressionava, era proprio questo ottundimento della capacità di impressionarmi.

Non avrei mai immaginato, cinquant'anni prima, che il risultato del mio esercizio quotidiano, anziché raffinarmi la sensibilità, finisse con lo snervarmela a questo modo. Avevo l'impressione che la banda cromatica, per esempio, a furia di perdere vivezza, avrebbe finito col ritornare azzurra, celeste, cobalto. Avevo l'impressione che si facesse sempre meno repellente. Dal rosso al marrone, dal marrone al giallo, al verde, all'indaco, al violetto. La sequenza è canonica. E del resto, non è il violetto il colore della morte? Stupefacente conclusione: se l'essenza è violetto, che significava? Che l'essenza della mia ricerca era la morte? C'era bisogno di tanta fatica per giungere a tanto risultato? Naturalmente non mi sfuggiva che questo modo di ragionare era errato per l'errata impostazione dei termini. L'equazione "violetto = morte" non ha fondamento alcuno. Ma avrei potuto esporre i due termini così: "colore uniforme = morte", e già il discorso sarebbe stato più corretto. Se è vero che la vita è nella varietà e la morte nella uniformità, che la vita è movimento e la morte stasi, ecco che allora la mia equazione avrebbe cominciato a poggiare su basi diverse, forse non scientifiche, ma certamente accettabili. Grama conclusione, comunque. Guardavo le mie apparecchiature e la duplicità ritornava ad assillarmi. L'essenza che avevo tanto cercato non poteva essere la morte: non c'era morte nel mio elaboratore, ma vita presente. E allora? M'accorgevo con un brivido di estraniarmi anch'io, come faceva Elly, come facevano mio padre e mia madre. Elly, alla mia domanda: che cosa vedi?, aveva risposto: è il mio segreto.

Ora anch'io guardavo alla mia vita estraniato da essa, fuori di essa. Ne vedevo le sequenze come fossi un altro a guardarmi vivere, come fossi il mio cane che mi guarda e non capisce. In giardino, osservavo il pipistrello notturno volare contro la luna e sbandare fulmineo, come impazzito, quando il suo radar, evidentemente, investiva uno stormo di moscerini. Ma io non vedevo nulla nel buio, sicché il suo volo pareva un agitarsi demenziale senza senso. Così agli altri, così io a me stesso: mi sfuggivano i legami, le sequenze si confondevano insieme: ognuna, presa di per sè, conseguente; insieme, dementi, assurde. Tanti anni prima avevo interpretato la realtà in modo diametralmente opposto: spesso folle nell'atto singolo, ma conseguente, logica nell'insieme. E ora... Ecco il segreto di Elly. Mi stancai, di colpo. Non guardai più. Ridussi il riordino del materiale a pochi minuti, poi lo lasciai a sè, al suo disordine. Questo accadde circa un anno fa. Mi stancai. Ora guardavo il mio elaboratore come un nemico. Era davanti a me, in mia balìa. Distruggere tutto? Non sarebbe stato come un suicidio? Fu lo scorso anno che, giunto a questo punto delle mie riflessioni, posi l'alt allo scrivere, abbandonai le pagine che precedono. Cercando un'ipotesi di essenza, avevo concluso che il termine della ragione è la non ragione. Mi fermai. Poi, il mese scorso, mi decisi. Il codice per accedere alla mia banca di dati era, per sicurezza, il risultato di una complessa equazione differenziale, trascritta e incorniciata alla parete del mio studio, dove è stata appesa per anni. Pochi sarebbero riusciti a risolverla e comunque difficilmente avrebbero potuto immaginarne l'uso. La formula risultante non aveva l'aspetto di un codice di accesso a un elaboratore, nè io ne avevo mai rivelato il segreto ad alcuno.

E c'era di più. L'equazione, sviluppata, portava a due soluzioni parziali. Utilizzando l'una, si accedeva all'utilizzazione dei dati (era questa che usavo tutti i giorni e che quindi conoscevo a memoria); utilizzando l'altra, si sarebbe immesso nell'elaboratore un impulso smagnetizzante, programmato in modo da portare a zero ogni PR (le migliaia di PR), e farne unità mute e inerti. Non ricordavo a memoria questa seconda soluzione non avendola utilizzata mai, come si può capire. Non l'avevo neppure mai cercata, perché mi sarebbe sembrato di allestire un'arma. E che altro sarebbe accaduto se l'avessi utilizzata? Un finto suicidio? Un presuicidio, o soltanto un atto di liberazione? Il mese scorso, in una sera grigia e insonne - avevo anche bevuto più del solito - quasi senza rendermene conto, impostai sul piccolo elaboratore l'equazione chiave di accesso, ricavai la seconda soluzione, trasferii la formula ricavata sull'elaboratore generale. Come il disperato preme il grilletto dell'arma puntata alla tempia, così io premetti il pulsante operativo. Non ero disperato, ma il gesto non fu dissimile. Una leggera pressione, e l'immensa congerie dei PR fu ammutolita per sempre. Andai a letto e dormii a lungo. Al mattino feci smontare i sensori, gli impianti laser, i rilevatori sonori e cromatici. È difficile dire che cosa provassi: un'impressione di sollievo, certamente, ma anche la sensazione di galleggiare sul nulla. Vi sono professioni religiose che credono sia questo che si prova dopo morti. Io però ero vivo, perché attesi ancora alle mie occupazioni abituali: feci infatti colazione, uscii nel parco, e per togliermi dalla casa e dall'andirivieni dei miei, occupati nelle opere di smantellamento, mi feci accompagnare sul terrazzo eliporto del museo paleografico, dove visitai una mostra che non mi interessava; quindi pranzai al club, lessi fino a sera tardi. A un mese da allora, quel senso di galleggiamento persiste. Inutilmente ho allontanato da me molti dei miei uomini, quelli invecchiati, per non dire rimbecilliti, con me, ridotti ad essermi affezionati con l'ottusità della bestia. Ne ho tenuti pochi, che vedo soltanto quando esco e nemmeno allora; perché, dopo aver tanto visto, ora ho l'impressione di non vedere più.

La mia vita era là dentro, nella macchina, tanto più congrua di quanto non sia per gli altri la loro nella loro memoria. Non giaceva confusa e incerta, velata dal tempo, distorta e rimossa, ma ordinata e presente nelle sue sequenze; tuttavia staccata da me, come dire che non aveva più a che fare con me, che poteva essere così mia come d'un altro. Ora nella mia memoria non c'è più nulla, era tutto là, lontano, negli infiniti PR. Ora che sono ammutoliti, non è neppure là. E dove allora? In me non è rimasto niente. Il mio medico mi ha detto: "Abulìa, mancanza di volontà". Ho alzato le spalle. Ma ora, passeggiando tra i cipressi, nel grande viale illuminato perpetuamente dal cicaleccio degli uccelli, credo di cogliere anche in questo un'ombra di vero. Mancanza di volontà. Ha ragione anche lui. Comunque ho smesso di cercare. Come un filosofo antico, sono approdato con la vecchiaia allo scetticismo. Tutto è mutato, nulla è mutato. Cinquant'anni fa non lo avrei creduto possibile. Sembra contraddittorio, ma non lo è. È proprio così: tutto è mutato, nulla è mutato. E il mio esperimento non è valso a niente. Giustamente, dunque, da principio, m'era parso velleitario, poi mi illusi per lungo tempo che avrebbe cambiato il mondo. Ne parlo spesso con l'unica sorella che m'è rimasta, la maggiore, molto anziana ormai. "Vedi" le dico "abbiamo sconfitto il rigetto biologico, ripulito l'atmosfera usando energia di fusione, riportato finalmente un pò di silenzio coi motori telealimentati, e le nostre aeromobili attraversano lo spazio mute come meteore. Abbiamo eliminato dal paesaggio i tralicci di ferro con le loro ragnatele di rame e qualche pompa di benzina dalle strade; ma non per questo si può dire che il mondo sia diventato diverso da quell'assurdo che è". Di notte, esco spesso nel parco quando c'è la luna. Nonostante le nostre basi istallate tra i sassi e la polvere, non è mutata per nulla, è sempre bella. La guardo. Mi viene in mente una leggenda dei boscìmani dell'Africa australe: narra che la Luna, impietosita degli uomini, mandò loro a dire: "Non temete; come io muoio e morendo vivo, così anche voi morirete e morendo vivrete". E ne incaricò la Lepre. Ma non sapeva quanto la Lepre fosse burlona. Essa infatti disse agli uomini: "La Luna manda a dirvi che come muore e morendo perisce, allo stesso modo morirete anche voi." Non appena la Luna lo seppe, montò in collera e con una stanga di legno spaccò il labbro alla Lepre. Da quel giorno la Lepre ha il labbro spaccato, ma gli uomini credono a lei.

 

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