Corporate Bond, Credit Risk, Credit Derivatives:

Introduzione a Corporate Bond, Credit Risk e

Credit Derivatives

 

 

 

 

Di Domenit

 

 

 

INDICE

  1. IL MERCATO ITALIANO DEI CORPORATE BOND
    1. Caratteri generali.
    2. Il mercato obbligazionario secondario dal 1974 al 1993.
    3. La situazione attuale.
    4. La securitisation.

  2. LA GESTIONE DEI RISCHI NELLE ATTIVITA FINANZIARIE: IL RISK MANAGEMENT
    1. Caratteri generali.
    2. Valore a rischio, VaR.
    3. Il "livello di sicurezza".
    4. Scelta e conversione dei parametri "orizzonte temporale" e "livello di confidenza".
    5. Il rischio di credito e il rating ufficiale.
    6. I derivati creditizi.

  3. DERIVATI CREDITIZI E RISCHIO DI CREDITO
    1. Introduzione.
    2. Il credit default swap semplice.
    3. Il credit default swap complesso.
    4. Il credit default swap con surrogazione.
    5. Il credit default swap con sub-participation.

APPENDICE - 1

    1. LA MISURAZIONE DEL RISCHIO DI CREDITO NEGLI ULTIMI VENTI ANNI

 

Cap.1 - IL MERCATO ITALIANO DEI CORPORATE BOND

1.1 Caratteri generali

I prestiti obbligazionari, o più semplicemente obbligazioni, in generale, possono definirsi come un contratto di mutuo instaurato tra un emittente (mutuario) e i sottoscrittori, o obbligazionisti (mutuanti).

In base alla classificazione giuridica italiana, le obbligazioni sono allora dei valori mobiliari con le seguenti caratteristiche di:

1 - tipicità e formalità: sono cioè titoli disciplinati dalla legge che prescrive anche le indicazioni che devono essere riportate nel certificato medesimo;

2- complessità, e ciò perché incorporano un diritto principale, al pagamento della somma indicata nel certificato, e uno o più diritti accessori, tra cui ha particolare importanza quello agli interessi.

Le obbligazioni poi, a seconda dell'emittente si dividono in:

- pubbliche: emesse dallo Stato e dagli enti pubblici in generale;

- private: emesse da aziende private se in forma di s.p.a. o s.a.p.a.; sono i c.d. corporate bond, secondo l'indicazione anglosassone.

I corporate bond, in Italia, possono essere emessi solo a determinate condizioni, tra cui:

1 - la necessità della delibera dell'assemblea straordinaria;

2 - la non emissione per un valore nominale superiore a quello del capitale sociale dell'emittente.

Sono due vincoli, che però secondo gli esperti sono anche tra le tante cause del mancato decollo del mercato dei corporate bond in Italia, a differenza di quanto invece succede in altri paesi industrializzati, ed in particolare negli Stati Uniti.

In generale poi, in Italia, un allargamento del mercato obbligazionario potrebbe avvenire anche nel momento in cui la nostra legislazione permetterà:

- lo sviluppo delle emissioni di titoli a medio e lungo termine da parte degli enti territoriali (regioni, provincie e comuni), delle loro aziende speciali, dei consorzi di bonifica, delle comunità montane,…

- lo sviluppo della securitisation, ovvero la cartolarizzazione dei crediti in portafoglio a banche, assicurazioni ed investitori istituzionali in generale.


1.2 Il mercato obbligazionario secondario dal 1974 al 1993

Le obbligazioni, una volta emesse, vengono scambiate su appositi mercato secondari, tra cui il più importante, in Italia, è sicuramente la borsa valori di Milano: mercato regolamentato che quindi offre prezzi ufficiali.

Accanto alla s.d. borsa valori, tuttavia, esistono anche mercati non ufficiali, alimentati dalle negoziazioni di intermediari ed investitori istituzionali, e che prendono il nome di mercati "over the country".

A questo punto possiamo allora vedere nello specifico quella che era la situazione del mercato obbligazionario italiano. Partiamo dalla analisi della tab. 1 ove sono riepilogati i dati per il periodo 1973-1993:

 

Tab.1 - Prestiti obbligazionari ordinari di emittenti diversi dal Tesoro, quotati alla borsa valori di Milano. 1974 - 93:

 

1974/1

1981/1

1985/1

1987/7

1990/1

1993/5

Valore nominale quotato in mld

28.980

56.715

67.633

66.458

74.686

67.299

In % del totale dei titoli quotati

86,7

58

29

15,8

12

7

Importo medio emissioni

56,9

71,5

61,5

63,2

68

75,2

Numero emittenti

128

103

81

75

80

76

Scambi

in mld

548

911

1.702

1.408

2.812

4.118

Scambi in mld sul totale negoziato

59,8

78

34,3

9,8

7,6

8,4

Fonte: Borsa valori di Milano; per gli scambi: Comitato direttivo degli agenti di cambio.

Pag.168 "La borsa ed il mercato mobiliare", Banfi, Dacrema - UTET


Dall'analisi della prima riga emerge che il mercato dei corporate bond italiano, in senso assoluto, dal 1974 al 1993 è cresciuto di molto, con un valore nominale delle emissioni praticamente raddoppiato: da 28.980 mld a 56.715. Soddisfacente, è anche la crescita dell'importo medio delle emissioni, passato da 56,9 mld a 75,2. Deludente invece, è il numero di emittenti sceso dai 128 soggetti del '74 ai 76 del '93.

Se però si considera la seconda riga, si vede che nel periodo considerato il peso dei corporate bond sul mercato obbligazionario complessivo è diminuito dall'86% al 7% e ciò perché "insabbiato" dalle continue emissioni di titoli dello Stato, necessari a quest'ultimo per finanziare il proprio fabbisogno e che attiravano enormi capitali da tutto il mondo per il loro elevato rendimento, anche a due cifre. Lo stesso George Soros, in una intervista del 20 settembre 1995 su "Il sole 24 ore" dichiarava "il mercato dei titoli di Stato italiani è sufficientemente ampio e importante, da rendere possibili operazioni da parte nostra". A conferma di ciò ci sono i dati delle righe 5 e 6, da cui si evince che se in assoluto gli scambi di corporate bond sono passati dai 548 mld del '74 ai 4.118 del '93 (+751,46%), in realtà il loro peso sul mercato obbligazionario complessivo è sceso dal 59,8% all’8,4% appena.

Tale grave situazione, è stata per la prima volta segnalata a livello istituzionale, nelle "considerazione finali" del '93 del Governatore della Banca d'Italia, A. Fazio, il quale già allora propose di costruire un mercato obbligazionario diviso in due parti: da un parte le obbligazioni pubbliche, e dall'altra le obbligazioni private, al fine di dare impulso e liquidità a quest'ultimo. A ciò, doveva poi inevitabilmente seguire, lo sviluppo della tematica della valutazione del rischio di credito degli emittenti e delle emissioni, nonché della loro copertura con i nuovi strumenti finanziari derivati: i derivati crediti o "credit derivatives", secondo la terminologia anglosassone.


1.3 La situazione attuale

Da oramai numerose ricerche emerge a chiare lettere che il mercato dei corporate bond italiano é rimasto alquanto indietro rispetto al resto di Europa, e nei prossimi anni subirà un notevole sviluppo, sia in termini di consistenza che di liquidità.

Del resto alcuni dei principali fattori che negli anni passati ne avevano soffocato la crescita, ora con la nascita dell'Unione Economica Europea, sono venuti meno:

1 - si è sviluppata una maggiore integrazione tra le economie dei paesi membri, che porta le relative azienda ad una maggiore competizione, e quindi alla ricerca di maggiori economie di scala, fusioni ed acquisizioni. Inevitabilmente, dovrà allora crescere il loro indebitamento a mezzo di corporate bond per salvaguardare la struttura finanziaria.

2 - il venir meno del rischio di cambio dell'area "euro", attirerà sempre più i capitali degli investitori istituzionali internazionali, ora più liberi di scegliere e spostare liberamente i propri investimenti;

3 - la convergenza dei tassi di interesse a breve termine nei paesi membri ed il loro generale abbassamento, fa si che i corporate bond non subiscano più una "sleale" concorrenza da parte dei titoli di Stato, ed in particolare dai loro elevati rendimenti.

I primi segnali di questa tendenza possono innanzitutto avvertirsi nella maggiore attenzione che le aziende italiane di ogni settore oramai, prestano alle emissioni obbligazionarie come mezzo di finanziamento alternativo e/o complementare all'aumento di capitale, al fine di realizzare importanti operazioni.

Si vedano per esempio:

1 - l'operazione di scalata a Telecom Italia da parte di Olivetti, che per finanziarla ha tra l'altro emesso un mega bond da 9,4 mld di €, il più grande mai emesso al mondo da una società non finanziaria, almeno fino allo scorso 23 giugno 1999;

2 - la maison di moda Gucci, che per fronteggiare una scalata ai suoi danno da parte del gruppo Arnault, ha raccolto mezzi finanziari emettendo un bond convertibile da 920 mln di €;

3 - la B.N.L. invece scommettendo su un rialzo dei tassi di interesse a lungo termine ha emesso un constant maturity swap da 175 mln di € (titolo alquanto innovativo per il mercato italiano).

Nonostante l'arretratezza del nostro mercato dei corporate bond, la RasFin Sim comunque, società del gruppo assicurativo Ras, ha tentato una loro prima classificazione utilizzando tre elementi: il settore d'appartenenza, la scadenza, il rating (Fonte Mf. del 10 aprile 1999).

In base al settore d'appartenenza emerge subito che le obbligazioni del settore telecomunicazione e utility sono le più difensive; hanno cioè rendimenti che non subiscono grosse perdite durante gli shock di mercato.

Rispetto alla scadenza invece è evidente come il rischio di credito di un corporate bond sia sempre maggiore di quello di una obbligazione pubblica, a parità di scadenza.

Infine, il premio per il rischio cresce al ridursi della qualità dell'emittente e cioè al crescere del rischio di credito.

Da una ricerca del gruppo Unicredito Italiano invece, emerge che le società private che in Italia possono emettere obbligazioni per un importo minimo di 200 mln di € sono almeno 418, di cui:

- il 65% ha un fatturato compreso tra 1 e 5 mld di €

- il 23% appartiene al settore industriale

- il 58% ha un livello di indebitamento medio inferiore al 50% del proprio capitale.

Per di più, la maggior parte dell'indebitamento di tali aziende è a breve temine e quindi presentano problemi di non equa struttura finanziaria e patrimoniale, facilmente riequilibrabile però proprio con l'allungamento della scadenza dei debiti tramite l'emissione di corporate bond.

Sempre secondo i dati della ricerca del Gruppo Unicredito Italiano allora, già per fine anno 2000, il mercato dei corporate bond italiano dovrebbe avere un valore di circa 35 mld di € e cioè più del doppio di inizio '99 (15 mld di €) e sei volte in più rispetto al triennio 1995 - 98 (6 mld di €).

I dati potrebbero poi essere maggiormente positivi se si considerassero anche le emissioni delle società non quotate, quelle quotate su altri mercati e quelle di aziende in via di privatizzazione come Enel e Autostrade s.p.a.


1.4 La securitisation

Uno dei fattori che può contribuire alla crescita del mercato obbligazionario italiano è la securitisation, ovvero l'emissione di obbligazioni garantite da attività creditizie cedute da istituti di credito e assicurativi.

In America, la securitisation è stata infatti già ampiamente utilizzata per alleggerire alcuni voci di bilancio in eccesso, e quindi migliorare sia il rapporto rischio/rendimento, che i ratios di bilancio. Le potenzialità del settore, anche il Italia, sono enormi. Oggetto di tali operazioni possono infatti essere quasi tutti gli asset creditizi, fino anche ai crediti al consumo, ai crediti commerciali e ai diritti di autore.

Attualmente in Italia è comunque allo studio del Parlamento una legge che dovrebbe dare al settore un assetto normativo e regolamentare omogeneo ed unitario, in linea con le disposizioni degli altri paesi europei, e capace di rendere facili e non costose tali operazioni.


 

Cap.2 - LA GESTIONE DEI RISCHI NELLE ATTIVITÀ FINANZIARIE: IL RISK MANAGEMENT

2.1 Caratteri generali

La capacità di gestire i rischi finanziari (di tasso, di cambio, di controparte, di concentrazione,…) è la più antica delle prerogative intrinseche dell'arte e della sensibilità del banchiere. Oggi, per via della globalizzazione dei mercati finanziari poi, la concorrenza tra gli operatori è cresciuta notevolmente, e quindi la gestione dei rischi ha assunto maggiore importanza, nelle attività del management di ogni azienda.

Il moderno risk management allora, interessa portafogli, comprendenti strumenti finanziari e/o attività di impresa illiquide, e strutturalmente esposti ai s.d. fattori di rischio. Esso consiste nell'identificazione dei fattori di rischio rilevanti, nel loro monitoraggio, e nella modificazione della posizione espositiva, mediante operazioni per il loro stesso trasferimento sui mercati finanziari e assicurativi o, meno frequentemente, mediante interventi correttivi sulle esposizioni originarie. Questa definizione, molto generale, può essere applicata a vari soggetti, di natura sia finanziaria, che non finanziaria. All'interno di un'impresa, il risk management può interessare la gestione finanziaria (è il caso più frequente), quella operativa, o anche assurgere a funzione di importanza strategica; esistono pertanto diverse accezioni di risk management.

Nell'attività di intermediazione finanziaria (quella che più ci interessa) possiamo distinguere due livelli di risk management:

Per quanto riguarda invece le imprese non finanziarie, la gestione dei rischi finanziari riflette l'ottica degli utenti finali, e svolge un ruolo di supporto al "core business", mentre nel caso precedente esisteva un legame inscindibile tra le due sfere di attività

Più in particolare, le banche e tutti gli operatori finanziari in generale, si stanno sempre più dotando di sofisticati strumenti per la misurazione e la gestione dei rischi finanziari. Attraverso le tecniche di ALM (Asset & Liability Management) è così oggi possibile determinare le esposizione complessive, mentre le metodologie VaR (Value at Risk) ci permettono di tenere costantemente sotto controllo, la massima perdita possibile, in un determinato intervallo di tempo. Gli operatori allora, riescono così sempre più ad investire i loro capitali in modo efficiente, e cioè tenendo sotto controllo il rapporto rischio/rendimento desiderato.

Quella che si sta percorrendo deve comunque ritenersi oramai una strada obbligata, da quando, dal 1 gennaio 1998, sono diventati obbligatori i requisiti patrimoniali sui rischi finanziari definiti dal Comitato di Basilea.

Ciò obbliga gli investitori finanziari ad una vera e propria rivoluzione, innanzitutto culturale ed organizzativa, specie nella gestione delle risorse umane e finanziarie. L'adozione delle metodologie del moderno risk management così, è un processo complesso e correlato a diversi fattori, tra cui è particolarmente importante la gestione dei rischi in modo integrato tra loro, e con la redditività aziendale. Ciò è possibile solo se preliminarmente si identificano, si definiscono, e si misurano tutti i rischi finanziari, in modo da poterli in ogni momento gestire e scambiare in modo controllato e consapevole.

Le aziende finanziarie dovranno allora attribuire sempre maggiore importanza ai fattori di redditività tipici dell'attività di intermediazione finanziaria e ai relativi rischi. Chiaramente, a livello pratico abbiamo che il ROE (return on equity, rapporto tra il risultato economico e il capitale investito) non è più un indice utile per la misurazione della redditività di una azienda. Esso infatti, per come è costruito, non tiene conto del grado di rischio che l'azienda corre per generare i propri profitti.

Ne consegue l'adozione di nuovi strumenti anche per la misurazione delle performance aziendali, ponderate col grado di rischio sopportato: il RAPM, risk adjusted performance measurement. Tali tecniche permettono così di:

1 - meglio diversificare gli investimenti, evitando le concentrazioni su poche attività;

2 - valorizzare le aree di business maggiormente produttive;

3 - misurare analiticamente le performance delle singole business unit, fino ad arrivare a ricomprendere l'analisi della redditività del singolo operatore.

 

2.2 Valore a rischio, VaR

Nella metodologia del moderno risk management, come visto, ha particolare importanza il concetto di "value at risk" ovvero valore a rischio, che consiste nella stima della potenziale perdita di valore che un portafoglio può subire per effetto di variazioni sfavorevoli in singoli o più fattori di rischio (considerati comunque sempre in maniera integrata e che si assumono come noti) in un determinato orizzonte temporale.

In particolare, la perdita potenziale dovuta ad un singolo fattore è determinata dal prodotto tra la sua "sensibilità" (indicatore di sensibilità), e lo shock estremo che lo stesso può subire. Tale shock, a sua volta si ottiene moltiplicando il valore corrente del fattore per la sua volatilità, a sua volta moltiplicata per un multiplo che determina l'intervallo di confidenza della stima.

In breve, e schematicamente, il processo di determinazione del VaR di un determinato fattore:






 

 

 


Nei modelli teorici più recenti, il VaR allora, esprime il capitale adeguato a coprire le perdite inattese di un portafoglio, senza pregiudizio alcuno per i finanziatori.

Il concetto di VaR comunque, non è sicuramente nuovo nell'ambito del risk management. Oggi è però usato in modo sistematico, e su ciò hanno sicuramente influito le raccomandazione del luglio 1993 del Gruppo dei Trenta (G30) sui principi teorici e pratici degli strumenti finanziari derivati. L'uso delle metodologie VaR, è così diventato un sforzo collettivo, da parte della collettività finanziaria (cfr. sia gli operatori del mercato che i suoi regolatori), per arrivare ad un metodo standardizzato di valutazione dei rischi, applicabile dalla singola obbligazione, ad un portafoglio di valori mobiliari, fino ad una grande azienda internazionale.

E' bene comunque precisare che siamo sempre in presenza di un metodo statistico, e quindi senza la completa precisione matematica.

Questi concetti poi, operativamente vengono tradotti in una numerosa famiglia di metodologie, in continua crescita, e tra le quali la più diffusa è il VaR basato sulla matrice di varianze e covarianze dei fattori da analizzare, su cui poi poggia il sistema RiskMetricsTM, elaborato dalla nota banca d'affari americana JP Morgan, presentato nel 1994, e oramai adottato dalle più importanti istituzioni finanziarie di tutto il mondo: Fitch IBCA, The Fuji Bank, The Nomura Securities, Arthur Andersen, Bank of America, Bank of Montreal, Bank of Tokio-Mitsubishi, Barclay Capital, Coopers&Lybrand, Deutsche Bank, Moody's Investors Service, Price Waterhouse, Royal Bank of Canada, Swiss Bank, Standard & Poor's, Union Bank of Switzerland….e il tutto in linea con i principi emanati dal s.d. Comitato di Basilea.

Naturalmente, altri dati importanti su cui si basa il RiskMetricsTM, sono la volatilità e la correlazione, calcolati giornalmente e mensilmente, su oltre 400 strumenti finanziari di interesse internazionale, e messi gratuitamente a disposizione del pubblico tramite un apposito database nel sito internet http://www.jpmorgan.com.

Altre metodologie per il calcolo del VaR sono poi il CreditRisk+ (elaborato dal Credit Suisse First Boston), Credit Portfolio View e KVM, e che oramai formano un insieme di importanti applicazione per la misurazione del rischio globale di un portafoglio, nonché per il rischio di credito in particolare.

In generale, i sistemi in questione riprendono le idee giuda di quella che è la moderna "teoria di portafoglio" di Markowiz, col compito di definire in una unica misura la rischiosità di un portafoglio, in sostituzione dei precedenti (anche farraginosi, per molti autori) dispositivi basati su più indicatori di sensibilità: duration, gamma, vega, delta….

Il VaR allora può oggi allora considerarsi il concetto alla base:

1 - del controllo integrato dei rischi di mercato nell'area delle aziende finanziarie;

2 - dell'Asset & Liability Management finanziario;

3 - del controllo del rischio di credito in particolare;

il tutto al fine di:

a - controllare i rischi finanziari visti finora ed il rischio di credito in particolare;

b - gestire le politiche di posizionamento, riposizionamento e copertura dei rischi finanziari in un portafoglio;

c - misurare le performance di un portafoglio, tenendo ora anche conto del rischio che si sopporta per realizzarle;

d - determinare il rischio incrementale, ovvero il rischio che comporta ogni variazione di portafoglio (acquisto/vendita nuovi titoli, riduzione grado di copertura con i derivati,…).

 

2.3 Il "livello di sicurezza"

Da un punto di vista pratico, per il calcolo del VaR, ha particolare importanza, come si evince dal precedente paragrafo, il concetto di "livello di sicurezza"; vediamo allora cosa è, e come si calcola.

Poniamo innanzitutto m come multiplo della deviazione standard del portafoglio che determina l'intervallo di confidenza della stima. A questo punto, possiamo definire "livello di sicurezza", la probabilità di ottenere perdite non eccedenti il VaR.

Per ridurre tale probabilità (e quindi la relativa dotazione patrimoniale) occorre aumentare il multiplo di m fino ad ottenere un intervallo di confidenza della ampiezza desiderata (a seconda della propensione al rischio).

Come nei procedimenti di stima della volatilità s , assumiamo che i fattori di shock (o rischio) si distribuiscano secondo una funzione normale, con media zero. Da ciò consegue che il rapporto tra lo shock x e la volatilità, si distribuisce secondo una funzione normale standard.

La probabilità di ottenere shock non superiori (in valore assoluto) ad una determinata soglia xe (supponiamo di volere che il rendimento della nostra obbligazione non scenda sotto di un certo livello) allora, è pari a:

N(xe/s ) - N(-xe/s )

dove N(.) è la funzione di probabilità cumulativa di una variabile casuale distribuita normalmente.

Se ad esempio xe = s , allora tale probabilità:

N(1) - N(-1) » 0,68

Graficamente, la probabilità di ottenere variazioni comprese nell'intervallo di confidenza risulta essere l'area sottostante la funzione di densità di xe/s , tra -1 e +1. Le aree tratteggiate invece, esprimono la possibilità di shock in assoluto, superiori al valore soglia.

Per xe = s , risulta essere 0,16 + 0,16 = 0,32 (cfr. figura sotto)

Se m = 1, allora la probabilità di subire perdite superiori al VaR è uguale a quella di shock di entità superiori a s , che però siano anche di segno sfavorevole; infatti:

Grazie alla simmetria della distribuzione normale, la probabilità di superare la soglia è uguale in entrambe le direzioni; in particolare per m = 1, è del 16%, corrispondente ad un livello di protezione pari all'84%.

Ne consegue una stima della perdita che prescinde dal segno della posizione.

Se per comodità, quindi, calcoliamo la perdita come probabilità di ottenere uno shock inferiore a - xe, si giunge alla seguente relazione tra "livello di sicurezza" e m:

livello di sicurezza = 1 - probabilità (x £ - m.s ) = 1 - N(-m.s /s ) = N(m).

Il segno della posizione è infatti ininfluente sul VaR, se si considera un unico fattore; è invece importante quando si aggregano più fattori di rischio e si possono determinare compensazioni o accumulazioni di rischio.

Il valore di m per alcuni intervalli di confidenza scelti a caso allora, risulta come dalla seguente tabella:

livello di sicurezza

multiplo della deviazione standard (m)

99,5

2,5

97,5

2

95

1,6

90

1,3

84

1

Ogni istituzione quindi, fisserà un determinato livello di protezione crescente, in funzione della propria avversione al rischio. Una m più elevata per esempio, porterà a requisiti patrimoniali più onerosi, e quindi a indici di redditività (risk adjusted) inferiori.

Ma vediamo ora un esempio su come calcolare in concreto il VaR di un portafoglio di obbligazioni da 100 mln di €, scegliendo 95% come intervallo di confidenza. Abbiamo così supposto, che dall'analisi della serie storica dei rendimenti della nostro portafoglio (si prenda per esempio l'intervallo 1953 - 95), vi sia solo il 5% di probabilità di avere un rendimento inferiore al VaR, fissato (sempre per esempio) all'1,6% (1,6 mln di €). Su 43 anni (516 mesi), la probabilità di ottenere un rendimento inferiore al VaR (5%) è di soli 26 mesi.

 

2.4 Scelta e conversione dei parametri "orizzonte temporale" e "livello di confidenza"

La scelta dei parametri "orizzonte temporale" e "livello di confidenza" è solitamente soggettiva, anche se è bene osservare alcune semplici notazioni. Per esempio nella scelta dell'orizzonte temporale, una trading bank che effettua operazioni su valute altamente liquide, avrà convenienza ad usare un orizzonte temporale giornaliero. Un operatore che invece riassetta il proprio portafoglio mensilmente, avrà utilità ad usare un orizzonte temporale di 30 giorni.

In generale infatti, si può dire che l'orizzonte temporale più adatto, è quello che coincide con il tempo necessario per la liquidazione del relativo portafoglio.

A proposito del "livello di confidenza" invece, la scelta dipenderà dal fine per cui è utilizzato. In generale, deve infatti riflettere il grado di avversione al rischio dell'operatore, nonché il costo della perdita.

Si noti poi che se i ritorni del nostro portafoglio si distribuiscono secondo una funziona normale, sui parametri in questione possono poi effettuarsi alcune operazioni di conversione.

Per passare per esempio da un orizzonte temporale ad un altro, la formula è la seguente:

VaR (T_days) = VaR (1_day) * SQRT (T)

SQRT=scarto quadratico medio

Per quanto riguarda invece il livello di confidenza, la conversione è possibile utilizzando le tavole dei valori della distribuzione normale standard. Ne consegue che da un VaR al 95% (tipico della JP Morgan) possiamo passare ad un VaR del 99% (tipico di Banker Trust), con la seguente formula:

VaR (99%) = VaR (95%) * 2,326 / 1,645

 

2.5 Il rischio di credito e il rating ufficiale

Da quanto visto finora, abbiamo oramai chiarito come il risk management sia quell'insieme di attività che si occupano della gestione dei rischi finanziari in una azienda. Tra questi, particolarmente importante per i nostri scopi, è il rischio di credito, ovvero il rischio legato alla eventualità di perdite, per effetto del deterioramento della qualità delle controparti contrattuali. Si manifesta nel caso di declassamento del merito di credito (espresso da un minor rating), per effetto di inadempienza da parte dell'emittente-controparte (mancato pagamento interessi e/o mancata restituzione capitale prestato, in principal modo), o per l'insolvenza della controparte.

In generale il rischio di credito, sia di un emittente che di una singola emissione, è sintetizzato da un apposito simbolo alfanumerico (Aa1, per esempio), emesso da apposite agenzie specializzate nella valutazione dei meriti creditizi. Questi prende il nome di rating ed è solitamente accompagnato da un’analisi che ne spiega le motivazioni.

E' quindi doveroso distinguere tra:

- rating di un emittente, conosciuto anche come "rating di controparte" ("counterparty risk rating" o "issuer credit rating"), che fornisce una valutazione globale della solvibilità di un determinato soggetto (banca, azienda, ente pubblico, paese, ecc…);

- rating di un’emissione, che valuta la capacità che il capitale e gli interessi di una specifica emissione vengano pagati puntualmente. Dal momento che le varie emissioni di un emittente hanno caratteristiche differenti (in termini di scadenza, garanzie, ecc..) può infatti darsi che sia più probabile che vengano pagate puntualmente alcune emissioni (per esempio quelle garantite da un collaterale o con scadenza più prossima) rispetto ad altre.

Il rating è dunque un elemento essenziale per l’investitore. Esso è indispensabile non solo per valutare se un dato titolo abbia un livello di rischio in linea con gli obiettivi di investimento prefissati, ma anche per stabilire il prezzo di acquisto. Semplificando, infatti, a titoli più rischiosi devono corrispondere "rendimenti effettivi a scadenza" maggiori per cui, dal momento che all’aumentare del prezzo del titolo diminuisce il suo rendimento e viceversa, il compratore fisserà un prezzo massimo di acquisto che gli assicuri un rendimento adeguato al grado di rischio corso.

Si può di conseguenza anche comprendere come il "downgrade" di un titolo, cioè il peggioramento del suo rating, è un evento negativo per i possessori in quanto si assisterà a una diminuzione del prezzo di mercato; implicazioni diametralmente opposte si realizzano invece nel caso di un "upgrade" (alias miglioramento del rating).

E’ poi importante sottolineare che il rating, e i successivi upgrade e downgrade, non costituiscono una raccomandazione né a vendere né a comprare titoli.

Le agenzie di rating infatti, provvedono poi anche a monitorare permanentemente il rating rilasciato al fine di comunicarne tempestivamente al mercato il miglioramento ("upgrade") o il peggioramento ("downgrade"). Un rating posto sotto sorveglianza si dice che viene inserito nella lista "CreditWatch": l’aggettivo "positiva" o "negativa" specifica a priori la possibilità che, alla fine del lavoro di analisi, si realizzi eventualmente un upgrade o un downgrade.

In base alle classificazioni effettuate da Standard & Poor's e Moody's, le due più grandi agenzie di rating al mondo, il merito credito può così classificarsi:

S&P

Moody's

Descrizione

AAA

Aaa

Emittente con il più elevato grado di affidabilità

AA+

AA

AA-

Aa1

Aa2

Aa3

Emittente con elevata affidabilità

A+

A

A-

A1

A2

A3

Emittente con buona capacità di far fronte al proprio impegno

BBB+

BBB

BBB-

Baa1

Baa2

Baa3

Emittente con adeguata capacità di far fronte al proprio impegno

BB+

BB

BB-

B+

B

B-

Ba1

Ba2

Ba3

B1

B2

B3

Emittente la cui capacità di far fronte al proprio impegno è resa incerta nel caso di avverse condizioni di mercato: BB+ (oppure Ba1) indica il più basso grado di incertezza che via via cresce, passando ai rating inferiori

CCC+

CCC

CCC-

Caa

Emittente con elevata probabilità di mancato rimborso delle obbligazioni: cresce via via il livello speculativo del titolo

C

Ca

Nessun interesse viene pagato

D

D

Emittente in stato di fallimento

 

Generalmente sono gli stessi emittenti che chiedono alle agenzie di rating, l'attribuzione di un apposito livello di merito di credito; prassi che però in Italia non si è ancora consolidata, forse proprio perché da noi, il mercato dei corporate bond non è ancora così efficiente, consistente e liquido, come quello degli altri paesi industrializzati, e degli Usa in particolare.

Ecco che allora, gli operatori italiani, spesso fanno riferimento ai c.d. "rating impliciti", non ufficiali come quelli emessi dalle s.d. agenzie specializzate, e che comunque derivano da approfondite analisi, di esperti del settore:

- sull'analisi dell'area di business dell'emittente, nonché sul suo posizionamento (business profile);

- sui dati fondamentali dell'emittente (financial profile).


2.6 I derivati creditizi

Da quanto visto finora emerge chiaramente come ogni credit asset presenti un certo livello di rischio di credito. L’obiettivo del moderno risk management in tale settore allora, è quello di coprire il proprio portafoglio in gestione, da tale rischio.

A tal fine, la moderna ingegneria finanziaria, offre oggi i derivati creditizi, ovvero strumenti finanziari innovativi e per alcuni versi rivoluzionari, almeno in Italia. La caratteristica principale dei derivati creditizi, o credit derivatives, secondo l'espressione anglosassone, è che permettono di trasformare il rischio di credito di un asset creditizio, in merce di scambio o prodotto di massa (commodity). Come ogni commodity allora, il rischio di credito viene scambiato in appositi mercati, regolamentati o "over di country", liquidi e concorrenziali, attraverso dealer specializzati e market maker, e assume le seguenti caratteristiche:

1 - è un prodotto con domanda elastica rispetto al prezzo;

2 - gli scambi, normalmente, avvengono richiedendo agli operatori margini unitari bassi, indipendentemente dai volumi scambiati;

3 - i metodi di pricing e gestione delle posizioni, non sono più basati su tecniche peculiari, internamente sviluppate da ogni azienda, ma sono basate su modelli e software di ampia diffusione;

4 - il periodo di detenzione delle posizioni è solitamente breve, e non necessariamente termina alla scadenza del relativo contratto.

Nei paesi finanziariamente più evoluti e sofisticati, i credit derivatives hanno oramai raggiunto un grado di sviluppo e standardizzazione tale da poter competere con contratti forward, swap e option. Sul solo mercato di Londra, secondo le stime di British Bankers Association, già entro il 2000, il controvalore degli scambi di credit derivatives, arriverà a oltre 1.200 mld di $.

Il meccanismo di queste operazioni costruite sul rischio di credito può sembrare complesso, ma in realtà, la formula, ridotta all'osso, è più o meno quella di un qualsiasi swap. Ecco un esempio: un'azienda esportatrice decide di coprire totalmente il rischio-Paese (rischio di insolvenza verso un determinato Paese) collegato a una serie di commesse per un importo prefissato. A tal fine paga un premio a una banca, e questa effettua un prestito bancario oppure un'emissione obbligazionaria con un rendimento equivalente al rischio-Paese suddetto. L'investitore istituzionale (fondo, compagnia di assicurazione o banca) che è interessato a sua volta ad aumentare il rischio-Paese in questione per elevare la performance di portafoglio: acquista il titolo oppure sottoscrive il prestito emesso dalla banca e in cambio si impegna ad effettuare il pagamento di interessi, o il rimborso del capitale nel caso di insolvenza del Paese. L'impresa esportatrice riceve questa garanzia, e così annulla il rischio.

Da ciò si evince anche che alla base dello scambio di derivati creditizi, c'è un diverso stato di aspettative e fiducia negli operatori, nonché un loro diverso obiettivo nel rapporto rischio/rendimento.

In Italia, il mercato dei credit derivatives é considerato tuttavia agli albori; secondo Alessandro Mitrovich della Chase Manhattan "è molto più facile vendere un rischio di credito che non comprarlo" ("Il sole 24 ore" del 27 marzo 1997). La domanda e l'offerta infatti non sono ancora equilibrate: i margini sono ancora molto ampi e le banche applicano commissioni elevate perché confezionano un prodotto che ritengono essere ancora troppo sofisticato. Proprio il costo, a detta degli esperti poi, è un altro fattore che frena la diffusione di questo strumento in Italia, anche se i credit derivatives non ha alcuna intenzione di entrare in competizione diretta con la S.a.c.e. (società per l'assicurazione dei crediti all'export): "il costo della vostra agenzia governativa - continua Mitrovich - è infatti ancora imbattibile; i credit derivatives allora, per il momento, si possono applicare all'export solo in due casi: 1) in sostituzione della Sace - nei casi in cui questa copertura non può essere utilizzata; 2) o come complemento alla Sace. Mai come alternativa". Il costo di un credit derivative è chiaramente legato alla valutazione di mercato del rischio di credito: ovvero al margine sopra il Libor pagato dall'emittente di obbligazioni. Se per esempio un eurobond di uno Stato emergente rende 200 punti base sul Libor sulla scadenza a tre anni, all'impresa esportatrice s.d., verrà richiesto il pagamento di un premio superiore al 2%, perché l'investitore acquirente del credit derivative pretenderà un rendimento più elevato di quello disponibile sul mercato dei bond.




 

Cap.3 - DERIVATI CREDITIZI E RISCHIO DI CREDITO

3.1 Introduzione

Dalla lettura del paragrafo precedente si evince come i derivati creditizi saranno uno degli elementi che segneranno la storia economica degli anni '90, come fecero i derivati finanziari (swap, option e financial future) negli anni '80.

Oramai da qualche anno si sta infatti assistendo alla diffusione di questa nuova famiglia di strumenti finanziari derivati - i derivati creditizi, appunto - che dal punto di vista economico, hanno per oggetto l'assunzione del rischio di credito, senza peraltro trasferire il credito sottostante, e senza ricorrere ad un garanzia reale o personale.

La parte che si assume il rischio, è indicata come "protection seller" (o venditore della protezione), mentre l'altra, come "protection buyer" (o compratore della protezione).

Si precisi anche, che il rischio di credito, ai fini dell'utilizzo dei derivati creditizi, va distinto in "rischio di controparte" e "rischio specifico". Il rischio specifico è una componente del rischio di mercato ovvero del rischio di perdite per sfavorevoli movimenti dei prezzi di mercato, includendo tassi di interesse, cambi e corsi azionari; e come noto poi il rischio di mercato si divide in generico (dovuto a movimento del mercato con direzione opposta a quella attesa) e specifico (dovuto a oscillazione sfavorevoli nella propria posizione di mercato per motivi attinenti l'emittente).

Il rischio di controparte invece, viene distinto in tre tipologie:

- rischio di credito pieno (crediti risk, secondo l'indicazione anglosassone), che consiste nel rischio che la controparte non adempia alla propria obbligazione quando dovuta, e non sia in grado di adempierla neanche in futuro per il proprio stato di insolvenza;

- rischio di consegna (delivery risk, secondo l'espressione anglosassone): esiste solo quando le parti hanno reciproche obbligazione da eseguire contemporaneamente, e quindi consiste nel rischio che una delle due non adempia all'obbligo di consegna o di pagamento reciproco;

- rischio di sostituzione (substitution risk) che è presente nei contratti a termine con prestazioni corrispettive, e che consiste nel maggior costo o nel mancato guadagno, che la parte solvente sopporta qualora la controparte è insolvente prima della scadenza pattuita. Chiaramente, in tal caso, la parte "in bonis" si asterrà dalla propria prestazione, e per procurarsi quanto avrebbe dovuto ricevere, effettuerà una nuova transazione sostitutiva, con relativi costi e/o mancati guadagni.

Passiamo così ora a vedere quelle che invece sono le ragioni della diffusione dei derivati creditizi.

Uno dei motivi fondamentali, va ricercato nella internazionalizzazione dei mercati finanziari, la quale ha fatto si che la concentrazione dei rischi di credito sul proprio mercato naturale, sia ora considerata un elemento negativo, e in misura maggiore rispetto al passato.

Altro importante ragione della diffusione dei credit derivatives, è quella legata alla crescente sofisticazione degli investitori istituzionali nell'analisi e nella gestione del rischio di credito (e dei rischi in generale), con approcci sempre più basati su tecniche e metodologie matematico/statistiche. A tal proposito bisogna ricordare che il Comitato di Basilea per la Vigilanza Bancaria (organo dipendente dalla B.R.I.), nel '96 (con decorrenza 1 gennaio 1998) ha approvato un documento col quale stabilisce i requisiti minimi di patrimonio che le banche devono avere per fronteggiare i rischi di mercato.

Del resto la diversificazione raggiungibile con gli strumenti tradizionali comporta inevitabilmente costi e rischi maggiori. Si pensi per esempio ai costi per la raccolta dei fondi necessari da impiegare nelle attività di investimento e copertura, alle spese di custodia, e ai rischi di mercato, di custodia (se il depositario diventa insolvente), di consegna, di cambio,…

Inoltre gli strumenti tradizionali consentono una limitata diversificazione, dato che i mercati finanziari, in diversi casi si presentano ancora segmentati, ed inaccessibili ad alcuni operatori; ciò lo si avverte maggiormente se si analizza il mercato dei corporate bond e quello dei prestiti bancari, con conseguenti inefficienze di prezzo nelle operazioni di raccolta. Vi sono poi casi in cui un operatore non è in grado di assumere rischi nei confronti di determinate controparti: si pensi per esempio ad una banca che per le sue modeste dimensioni non è in grado di contrattare direttamente con grandi gruppi industriali internazionali o in determinati mercati finanziari.

Orbene, i derivati creditizi consentono di diversificare efficacemente un portafoglio in relazione al rischio di credito, nonché a costi minori.

Altra importante caratteristica dei derivati creditizi, è che permettono di gestire con maggiore flessibilità la durata delle esposizioni creditizie.

La crescita del mercato dei derivati creditizi viene poi facilitata dal quel fenomeno oramai iniziato da qualche anno, secondo il quale le grandi aziende tendono a diminuire il numero di operatori bancari con cui trattare. Le banche allora, considerando l'obbligo di non poter perdere il cliente a favore della concorrenza, assumono rischi maggiori (concentrazione rischio di credito verso un numero minore di operatori e per quantità crescenti). In tale situazione emerge però l'utilità dei credit derivatives, che permettono di "assicurare" i maggiori asset creditizi concessi, e quindi di avere un minore rischio di credito, sia pure in modo artificiale. Alcuni autori infatti sostengono che i derivati creditizi abbiano creato una nuova famiglia di garanzie, quelle "sintetiche", che si aggiungono a quelle personali e reali.

Altri due importanti aspetti dei derivati creditizi sono che:

- offrono la possibilità di "vendere" di fatto anche posizioni illiquide o per le quali non vi è domanda sul mercato, grazie al trasferimento del solo rischio di credito;

- consentono di assumere posizioni speculative o di fare arbitraggi sul profilo creditizio di terzi;

Da un punto di vista operativo poi i credit derivatives, si dividono in sette fattispecie:

1 - credit default swap;

2 - credit default option;

3 - total rate of return swap;

4 - credit spread swap;

5 - credit spread option;

6 - credit linked note;

7 - credit linked warrant.

Queste a loro volta sono riconducibili a 4 gruppi:

a) contratti a fermo condizionati a verificarsi di un "credit event": credit default swap, credit linked note;

b) contratti di option condizionati al verificarsi di un evento: credit default option, credit spread option, credit linked warrant;

c) swap di pagamento: total rate of return swap,;

d) contratti differenziali semplici: credit spread swap.

 

3.2 Il credit default swap semplice

Con tale contratto finanziario, un soggetto (protection seller) che desidera avere una esposizione creditizia verso la società Alfa (rischio di riferimento) si impegna a pagare una somma di denaro a favore di un terzo (protection buyer), se entro un periodo di tempo concordato, la società alfa diviene insolvente. Di fatto allora, il protection seller si assume il rischio di credito della società Alfa, e su di esso riceverà un apposito premio.

Il credit default semplice allora, nella sua forma più essenziale, può essere definito come quel contratto in base al quale il promittente, dietro pagamento di un premio, si impegna ad eseguire un pagamento predeterminato in favore di un promissario, al verificarsi di un evento futuro ed incerto, che poi esprime il deterioramento del profilo creditizio di un terzo.

In particolare, il s.d. evento prende il nome di "credit event" e consiste in una delle seguenti situazioni:

1) dichiarazione di insolvenza del terzo, instaurazione di una procedura concorsuale nei suoi confronti, sua liquidazione o eventi simili (bankrupty event);

2) mancato pagamento di una obbligazione pecuniaria, non necessariamente assunta nei confronti del promissario (payment default);

3) diminuzione del suo rating creditizio (downgrading).

Generalmente però il credit event si considera avvenuto solo se esistono informazione pubbliche (public available information) che descrivono come accaduto l'evento dedotto in contratto e sempre che tali informazione non siano di origine tendenziosa (ossia originate da fonti con fini fraudolenti e speculativi). Le fonti vengono allora spesse volte, già definite nel contratto, e fanno riferimento a quotidiani a larga diffusione, o fonti equivalenti, anche elettroniche, come per esempio la Reuter.

Di norma però, il verificarsi del credit event, non è sufficiente a rendere dovuto il pagamento dedotto nel contratto; sarà invece necessario che l'evento sia "sostanziale", e cioè esista la c.d. "materiality". Al fine di ridurre infatti al minimo la discrezionalità delle parti sulla determinazione o meno dell'evento, spesso, ove è possibile, si ricorre alla quantificazione della materiality in termini di variazione del prezzo di un titolo di riferimento (emesso dal soggetto-rischio di riferimento) oltre un livello concordato.

Altro importante elemento della fattispecie è l'importo "nozionale" (del rischio di riferimento), la cui funzione è quella di consentire esclusivamente la determinazione dell'ammontare al verificarsi del credit event. Infatti, il quantum del pagamento che il promittente si obbliga ad eseguire può essere:

1- l'importo nozionale;

2- una percentuale dell'importo nozionale;

3- la differenza tra l'importo nozionale (o una percentuale, che rappresenta il valore di mercato di un determinato credito nei confronti del soggetto-rischio di riferimento, al momento della conclusione del credit default swap) e un importo che rappresenta il valore di mercato di un determinato credito nei confronti del soggetto rischio di riferimento, dopo il verificarsi del credit event.

In alcuni casi si prevede anche che il promissario possa scegliere tra uno dei s.d. metodi.

A fronte del impegno assunto, il promissario si obbliga comunque a pagare un premio, di norma rateizzato ed il cui ammontare è una funzione della probabilità del verificarsi dell'evento, del quantum dovuto dal promittente e delle condizione di mercato.

 

3.3 Il credit default swap complesso

In diversi casi, il credit default swap contiene un'ulteriore obbligazione in capo al promissario: qualora il quantum dovuto dal promittente al verificarsi dell'evento creditizio corrisponde all'importo nozionale del contratto (questo non è comunque l'unico caso), il promissario si obbliga a "trasferire" un credito pecuniario (credito da trasferire) verso il soggetto-rischio di riferimento, uguale a quello del pagamento ricevuto in base al credit default swap, per consentire al promittente la possibilità di recupero (almeno parziale) dell'esborso effettuato. Tale credito, con ogni probabilità, avrà una valore di mercato inferiore al nominale, dato che si è verificato un credit event.

Il credito da trasferire può essere un titolo obbligazionario, o anche un altro credit asset, sia esso esigibile o meno, scaduto o meno, ma che può essere comunque trasferito al promittente che eseguito il pagamento a favore del promissario.

Normalmente, il titolo di riferimento (che come visto serve a determinare la materiality dell'evento) ed il credito da trasferire, coincidono; ma ciò non è un obbligo. Infatti, oltre alle considerazioni secondo cui può mancare l'impegno al trasferimento di un credito, al fatto che il promissario può non essere creditore del terzo, e alla situazione secondo cui il contratto di credit default swap si esaurisce col pagamento del quantum dovuto senza la possibilità di recupero da parte del promittente, la funzione del titolo di riferimento, è sempre quella di consentire la oggettiva misurazione della materiality del credit event, mentre quella del credito da trasferire è permettere il recupero, almeno parziale, dell'esborso effettuato dal promittente.

La forma tecnica del trasferimento poi, dipenderà dalla natura del credit asset da trasferire e del quantum pagato dal promittente.

Supponiamo allora che quest'ultimo abbia pagato l'importo nozionale; nel caso si tratti di un titolo obbligazionario, il promissario è obbligato a trasferire la proprietà del titolo e a consegnarlo al promittente. In altre parole, il promissario, al verificarsi del credit event, trasferisce al promittente la proprietà di un titolo, che chiaramente (per il verificarsi del credit event) avrà un valore di mercato inferiore a quanto pagato dal promittente.

Se il credito da trasferire fosse invece un mutuo o un leasing o un qualsiasi altro credit asset, il "trasferimento" potrà avvenire in diversi modi: dalla cessione del credito, alla surrogazione per pagamento (che come noto non comporta il trasferimento della titolarità del credito), alla creazione di una "sub-participation" (metodo ampiamente utilizzato sui mercati finanziari internazionali per il trasferimento del rischio di credito, senza trasferire anche diritti e obbligazioni). In tali casi le parti possono poi anche concordare che il trasferimento sia "undisclosed" al debitore, e cioè avvenga a sua insaputa. La ragione di ciò è puramente commerciale, e quindi da ricercare nell'esigenza del promissario di non far conoscere al terzo (rischio di riferimento) il fatto di aver ceduto il rischio di credito nei suoi confronti.

Se infine supponiamo che il promittente abbia pagato un importo inferiore a quello nozionale, avremo che il trasferimento del credito non è previsto. Nei rari casi in cui fosse invece previsto, varranno "mutatis mutandis" le considerazioni già viste, col limite che il trasferimento avverrà pro-quota.



3.4 Il credit default swap con surrogazione

Al fine di consentire al promittente di recuperare , almeno in parte, il pagamento che è tenuto ad eseguire al verificarsi del credit event, il credit default swap complesso può anche presentarsi con l'ulteriore obbligo del promissario si surrogare il promittente al momento del pagamento; è il c.d. "credit default swap con surrogazione".

 

3.5 Il credit default swap con sub-participation

Tale forma di credit default swap, prevede che il promittente si obblighi ad effettuare, al verificarsi del credit event, un deposito presso il promissario, la cui restituzione (ed il pagamento dei relativi interessi) è subordinato al verificarsi di una condizione, che consiste nella ricezione, da parte del promissario, dei pagamenti a lui dovuti dal soggetto-rischio di riferimento. In tal caso, al pagamento del promittente non si accompagna alcuna surrogazione, ma questi, grazie alla sub-participation creata, è in grado di recuperare l'esborso effettuato se il promissario vede soddisfatte le proprie ragioni di credito nei confronti del soggetto-rischio di riferimento.


 

APPENDICE 1

LA MISURAZIONE DEL RISCHIO DI CREDITO NEGLI ULTIMI 20 ANNI

Introduzione

L’attività di misurazione del rischio di credito, negli ultimi venti anni, si è sviluppata a ritmi notevoli, per via di diversi fattori, che la hanno poi resa sempre più importante che in passato. Tra questi abbiamo:

1 – il crescente numero di fallimenti a livello mondiale;

2 – la tendenza alla disintermediazione nella gestione, nella concessione, e nel controllo di asset creditizi di elevato importo, e di ottima qualità;

3 – la diminuzione del valore dei capitali reali investiti in diversi mercati;

4 – il notevole incremento degli strumenti finanziari "fuori bilancio", utilizzati per coprire il rischio di credito, e soggetti essi stessi a tale rischio.

A ciò è poi seguito:

  1. lo sviluppo di nuovi e più sofisticati modelli di controllo dei crediti, e del relativo rischio di default (insolvenza);
  2. il passaggio dal controllo del solo rischio di credito su asset individuali, a sistemi per la misurazione del rischio di credito e di concentrazione su interi portafogli;
  3. lo sviluppo di nuovi modelli per "prezzare" il credit risk;
  4. lo sviluppo di modelli per meglio misurare il rischio di credito sugli strumenti fuori bilancio.



1.2 Misurazione del rischio di credito

1.2.1 Sistemi esperti e analisi soggettive

E’ probabilmente non errato dire che, negli ultimi venti anni, la maggior parte delle istituzioni finanziarie hanno effettuato analisi di tipo solo soggettivo per ciò che riguarda la misurazione del rischio di credito dei propri portafogli. Generalmente infatti, tali analisi si fondavano solo sulle informazioni disponibili sui "borrower" (i debitori), sulla loro reputazione commerciale, sulle loro capacità di generare profitti in modo sicuro, e così via, con la conseguenza, però, di tendere ad essere sempre più pessimisti del dovuto, e comunque presupponendo sempre la serietà e la affidabilità del tutto.

Ecco allora la necessità di muoversi verso analisi con basi più obiettive.

 

1.2.2 "Accounting-Based credit scoring system"

In generale, un primo gruppo di sistemi di misurazione del rischio di credito di tipo oggettivo, sono quelli "accounting-based", e cioè basati sui dati del bilancio d’esercizio, dove le decisioni degli investitori istituzionali vengono prese solo dopo l’analisi ed il confronto di diversi indici di stima dei potenziali debitori, e della loro valutazione di credito.

In particolare, nei c.d. modelli "multivariate", le variabili chiave di stima sono combinate e "pesate" in modo tale da produrre una misurazione più oggettiva possibile del credit risk, o della probabilità di default di un asset o di un borrower. In questo modo, se un prestito candidato raggiunge un livello di credit risk sopra una determinata soglia, o benchmark, ritenuta non più accettabile in base ai livelli di rischio/rendimento prefissati, viene respinto, o al massimo gli si concede una ulteriore analisi di approfondimento.

Attualmente, gli approcci metodologici multivariate per la misurazione del credit risk sono almeno quattro:

1 – il modello della probabilità lineare;

2 – il modello LOGIT;

3 – il modello PROBIT;

4 – l’analisi discriminante.

In base al numero di articoli apparsi sul "Journal of Banking & Finance" (JBF), prestigiosa rivista del settore, oramai da tempo, si può affermare che l’analisi discriminante è l’approccio dominante, seguito dal modello LOGIT. In particolare, nel 1977, Altman, Haldeman e Harayanan svilupparono il modello "ZETAâ DISCRIMINANT", basato sulla ricerca di una funzione lineare di stima del credit risk e delle variabili di mercato, che meglio lo riescono ad identificare.

Il modello LOGIT invece, in linea generale, usa un insieme di variabili da stimare per prevedere la probabilità di default del borrower, assumendo che questa sia distribuita secondo la funzione normale, e che quindi la probabilità cumulativa di default sia compresa tra 0 e 1.

A testimonianza della valenza dei due modelli in questione, sul Journal of Banking & Finance sono apparsi importanti studi e ricerche, tra cui citiamo quelle che fanno riferimento a:



1. 3 Altri e più nuovi modelli di misurazione del rischio di credito

I metodi di cui si è accennato nel paragrafo precedente, nonostante lo sviluppo che hanno registrato, sono comunque stati oggetto di alcune critiche, tra le quali:

Una classe di modelli per la misurazione del credit risk con una forte base teorica invece, sono quelli "risk of ruin", basati sul principio secondo cui una azienda fallisce quando il valore di mercato dei suoi asset scende al di sotto di un determinato livello. A tal proposito si vedano in particolare, i modelli di Wilcox (1972), Scott (1981), e Santomero e Vinso (JBF, 1977).

Più nello specifico, Scott osservò che i risk of riun model hanno diversi punti in comune con i modelli di pricing di Black&Sholes, Merton e Hull & White (JBF, 1995).

Nel modello di Black, Sholes e Merton, la probabilità che una azienda (o un asset) vada in bancarotta, infatti, dipende in modo rilevate dal valore di mercato dei suoi asset, nonché dalla loro volatilità. I risk of riun model allora, hanno così guadagnato una sempre maggiore attenzione, specie nel settore commerciale, dove un esempio è il KMV model (1993), nel quale gli input cruciali per la stima della probabilità di default sono proprio il valore di mercato degli asset, e la loro volatilità implicita.

Le maggiori ansie per tali modelli invece, riguardano la possibilità verificare:

Una seconda e più nuova classe di modelli per la misurazione del rischio di credito poi (anche essa con solide basi teoriche), è quella che cerca di calcolare la probabilità implicita dei default di un asset dalla struttura per scadenza dei tassi di interesse, privi di rischio e rischiosi. Una delle più recenti versioni di questo approccio è quella di Johknart (JBF, 1979) poi rielaborata da Iben e Litterman (1989).

In particolare, tali modelli, partendo dalla struttura per scadenza dei tassi di interesse forward dei bond, risk free e risky, riescono ad estrapolare la relativa probabilità di default, ai valori correnti di mercato, e a seconda della scadenza.

Le più importanti assunzioni sottostanti questi modelli sono però considerate alquanto discutibili da alcuni autori; in particolare per ciò che riguarda:

1 – la teoria sui tassi di interesse considerati;

2 – i bassi costi di transazione ipotizzati;

3 – la relazione che può essere estratta dalla struttura per scadenza dei tassi di interesse.

Terza categoria di modelli di misurazione del rischio di credito sono i c.d. "capital market based model", basati sul modello dei tassi mortality di Altman (1988-89), e sull’approccio "again" di Asquith, Mullins e Wolff (1989). Sono modelli che calcolano il valore attuale della probabilità di default, in base ai dati storici (passati) sui fallimenti dei bond.

Tali approcci sono quelli poi adottati, con alcune modifiche, dalle più importanti agenzie di rating mondiali, quali Standard & Poor’s e Moody’s in testa.

Sono modelli in ogni caso limitati dalla mancanza di data base sufficientemente ampi sui fallimenti dei credit asset nel tempo. Secondo McAllister e Mingo (1994), a tal fine servirebbero database con almeno 20.000–30.000 "nomi". Ciò spiega l’interesse delle grandi banche Usa allo sviluppo e alla condivisione di tali database, come per esempio sta facendo la Robert Morris Associates di Philadelphia.

Altro approccio ancora alla misurazione del rischio di credito, è quello basato sulle reti neurali, che come il modello discriminante si basa sul concetto secondo cui le variabili considerate per la previsione dei fallimenti sono funzioni collegate in modo lineare ed indipendente. Più in particolare, possiamo dire che i modelli neurali di analisi del rischio di credito, esplorano le correlazioni "nascoste" tra le variabili da studiare. Sull’argomento importanti studi sono stati effettuati da Altman, Marco e Varetto per l’Italia (JBF, 1995), Coast e Fant per gli Usa (1993), e Trippi e Turban (1996).

La maggiore critica rivolta all’approccio "neural network" è quella secondo cui è un modello basato su un teoria "adhoc", e quindi difficilmente comparabile; infatti, a tal proposito, Altman (1995), conclude che l’approccio in questione non è materialmente migliore dell’analisi discriminante.

 

1. 4 La misurazione del rischio di credito sugli strumenti fuori bilancio

Negli ultimi venti anni, gli strumenti finanziari fuori bilancio come swap, forward, option e future, hanno avuto un notevole sviluppo, specie nei portafogli degli investitori istituzionali; sull’argomento si vedano le ricerche di Jagtiani, Saunders e Udel (JBF, 1995), Brewer e Koppennaver (JBF, 1992) e Saunders (1997).

Parallelamente si sono sviluppati le attività riguardanti il loro rischio di default.

La probabilità di default di uno strumento finanziario fuori bilancio può innanzitutto essere misurata con gli stessi metodi con si misura quella di strumenti "on-balance", dato che per il default è richiesta sempre la stessa condizione, ovvero una controparte in difficoltà finanziarie.

Le differenze comunque non mancano:

1 – innanzitutto è importante vedere se il contratto "off-balance" (fuori bilancio) è "out of the money", oppure "in the money"; situazione non presente negli strumenti "on-balance";

2 – ad alcuni livelli di probabilità di default poi, la relativa perdita in caso di default è generalmente minore se si tratta di strumenti finanziari fuori bilancio. Su un prestito on-balance, il creditore può perdere capitale ed interessi, mentre nel caso di un "interest rate swap" sullo stesso prestito, le perdite sono limitate al suo valore attuale, differenza tra il flusso finanziario fisso e quello atteso, dello swap (o più in breve il premio pagato per la sua sottoscrizione).

 

1.5 La misurazione del rischio di concentrazione

Gli investitori istituzionali, in modo sempre più rilevante, hanno riconosciuto anche il bisogno di misurare il rischio di concentrazione, ovvero il rischio che si sopporta per la eccessiva esposizione verso un numero limitato di soggetti (o gruppi connessi di soggetti) o aree geografiche, o settori economici, e così via.

I primi approcci sul problema erano basati su:

Importante articolo sull’argomento poi, è quello scritto nel 1994 sul JBF da Bennett, avente ad oggetto il "rating migration" sugli asset bancari. In particolare, Bennett mise in luce il bisogno di un comune risk rating per tutti gli asset in questione, inclusi corporate e government bond, crediti al consumo, crediti commerciali, e altri credit asset, al fine di poter fare utili confronti, ed avere in modo veloce ed efficace, importanti informazioni sulla capacità di credito e di merito creditizio, di un emittente e/o di un asset.



1.6 Analisi dei portafogli con titoli a reddito fisso

Inizialmente, la teoria di portafoglio di portafoglio di Markowiz era applicata esclusivamente alle azioni ed infatti i suoi concetti sono oramai applicati da tutti gli operatori del mercato (Elton e Gruber, 1995). Ciò è stato agevolato dal fatto che per il settore azionario sono disponibili già da molti anni, serie storiche di dati sui relativi tassi di rendimento, che poi servono per calcolare il rendimento atteso, la varianza di tali rendimenti, e le correlazioni tra i rendimenti dei titoli.

Oggi invece molto si discute dell’applicazione della teoria di portafoglio anche al settore dei titoli obbligazionari pubblici e privati. In questo settore però, fino ad oggi le pubblicazioni sono ancora alquanto limitate, frammentate, e non testate.

L’obiettivo della effettiva riduzione del rischio è comunque tra le maggiori preoccupazioni degli investitori istituzionali, e dei soggetti addetti alla regolamentazione del mercato, che infatti stanno effettuando notevoli investimenti nella ricerca e nello sviluppo del settore. I recenti fallimenti in Usa, Giappone, Europa e Australia poi, essendo proprio dovuti a perdite che gli operatori hanno subito nel settore obbligazionario, ha aumentato l’attenzione.

Obiettivo di questa sezione allora è delineare un metodo che eviterà le insidie in questione, tramite un efficace ed empirico approccio di portafoglio. L’esempio che vedremo è su corporate bond, ma la metodologia è valida per ogni credit asset.

 

1.6.1 "Return-Risk framework"

Il metodo di media-varianza classico così come è, non può essere applicato al settore delle strategie di lungo termine di portafogli di titoli obbligazionari.

L’investitore in titoli obbligazionari infatti, è esposto a rischi diversi rispetto a quelli del settore azionario, ed in alcuni casi maggiori, specie in caso di default dell’emittente. Nel lungo periodo poi, si nota una varianza dei rendimenti obbligazionari maggiore di quella dei titoli azionari.

 

1.7 "Return Measurement"

Nel calcolo dell’interesse da ricevere, gli investitori istituzionali dovrebbero innanzitutto sottrarre la perdita attesa nel caso di default dell’emittente. Bisognerebbe poi considerare anche le variazioni nei tassi di interesse, che però, dati i nostri scopi, non ci interessano, e quindi li supporremo casuali, ovvero che si compensano tra loro nel tempo.

Si assumerà anche, che gli investitori possono stonare capital gains e losses, dalle curve dei rendimenti e dal prezzo dei bond scambiati.

Il tasso di interesse annuale atteso quindi è dato dalla seguente equazione:

(1) EAR = YTM – EAL

dove:

EAR = expected annual return (tasso di interesse annuale atteso)

YTM = yield to maturity (rendimento a scadenza)

EAL = expected annual loss (perdita annuale attesa).

EAL lo si ricava dai precedenti lavori di Altman sui tassi di "mortality" dei bond, e sulle "losses" degli stessi. Ogni bond è qui analizzato in base al suo rating iniziale, il quale chiaramente implica un determinato tasso di default per i dieci (o più) anni successivi.

Le successive tabelle 1 e 2 mostrano rispettivamente, il tasso di mortality cumulativo dall’emissione, e quello di mortality losses cumulative, nel periodo 1971–94. La tabella 3 invece mostra la annualizzazione dei s.d. tassi; così per esempio un BB Bond a 10 anni (rating S&P) ha una perdita annuale attesa di 91 p.b. per anno.

Se i BB bond di nuova emissione hanno un tasso di interesse del 9%, con uno spread del 2% sui titoli di Stato (risk free), 7%, allora il tasso di interesse atteso è dell’8,09% annuo (dedotta la perdita s.d.), od anche ha un risk premium di 109 p.b. sui titoli risk free. Chiaramente, se il periodo di tempo considerato, anziché l’anno è il trimestre, allora il tasso di interesse in questione diventa del 2,025% ogni 4 mesi (si applica chiaramente la formula dell’interesse equivalente).

Si noti, quindi, come la nostra misurazione del tasso di interesse atteso sia focalizzata innanzitutto sui cambiamenti del rischio di credito, e sulle implicazioni derivanti dalla curva dei tassi d’interesse.

Nel caso di commercial loan, il problema è un po’ più complesso; infatti, spesso, questi non hanno un rating ufficiale, e così le banche sono costrette ad utilizzare sistemi di risk rating interni. Sistemi che per quanto difesi da Altman, presentano per i più diversi punti criticabili, specie nel calcolo della correlazione rischio/rendimento tra due asset in portafoglio.

Il tasso di ritorno atteso su un portafoglio di n titoli (Rp), è quindi basato sui tassi di ritorno attesi di ogni asset, ponderati, naturalmente, per le quantità (Xi) presenti nello stesso portafoglio:

(2) Rp = å Xi * EARi

 

1.7.1 Rischio di portafoglio e frontiera efficiente

Il metodo di media varianza classico è formato, come noto, da tre equazioni. Viste la prima e la seconda, la terza:

(3) Vp = å i å j Xi* Xj*s i*s jr ij

dove:

Vp = varianza di portafoglio;

Xi = porzione di portafoglio investita nel bond i;

s i = deviazione standard dei ritorni del bond i;

r ij = coefficiente di correlazione tra i rendimenti dei bond i e j.

Si noti che affinché le correlazioni viste possano considerarsi significative, e si possa calcolare media e varianza, deve supporsi noto il ritorno su tutti gli asset almeno a 60 mesi (o 20 trimestri).

La tabella 4 mostra una frontiera efficiente ove è massimizzato il ritorno atteso per dati livello di rischio, o è minimizzato il rischio (la varianza dei ritorni) per dati livelli di ritorno, per un ipotetico portafoglio di bond ad alto rendimento.

L’obiettivo è massimizzare l’HYPR (high yield portfolio ratio, rapporto rendimento-varianza, o indice portafoglio ad alto rendimento, per dati livelli di rischio o rendimento). Si noti che un portafoglio con HYPR del 5%, può essere migliorato fino al 6,67% di rendimento con rischio costante, o essere portato ad un livello di rischio minore dell’1,5% (da 8%) con rendimento costante (15%).

Il rapporto HYPR è una variazione dell’indice di Sharpe, inizialmente introdotto nel 1966 dallo stesso Sharpe per misurare il c.d. "premio per il rischio" negli investimenti rischiosi e poi ripreso da molti altri studiosi come Reilly (1989), Morningstar (1993), e lo stesso Sharpe nel 1994, per essere esteso a più applicazioni, anche se le sue maggiori applicazioni sono state nel settore degli "equity mutual fund".

La sola applicazione, tra l’altro mai pubblicato, dell’indice di Sharpe su portafogli di titoli a reddito fisso e derivati, fa riferimento a McQuown (1994), e a Kealhfer (1996), che utilizzarono un modello di risk of default, sviluppato poi da KMV (cfr. paragrafi precedenti), basato (indirettamente) sul livello di varianza degli asset creditizi, e sulla correlazione tra gli stessi, nonché per quelli che potenzialmente possono entrare nel portafoglio. Modello questo, che ha diversi punti in comune con quello di Altman.

La tabella 5 mostra una frontiera efficiente su un portafoglio di 10 corporate bond ad alto rendimento, utilizzando i ritorni semestrali del periodo 1991–95. Come si vede c’è un considerevole miglioramento nel return-risk trade-off: i punti indicati dalle frecce sono due portafogli "efficienti", ovvero preferiti dagli investitori, a parità di livello di propensione al rischio.

Si noti anche il collegamento tra il tasso di interesse risk-free all’1,4% (circa) trimestrale e la linea tangente la frontiera efficiente, che indica le varie porzioni tra i titoli rischiosi, e quelli non rischiosi. La frontiera efficiente calcolata senza alcuna restrizione, come per esempio il numero di emissioni in portafoglio, implica solo 8 dei 10 titoli in esame. Se invece poniamo il vincolo di non investire più del 15% del capitale su ogni singolo titolo, allora quelli considerati possono anche scendere a 7 (cfr. tab.8).

 

1.7.2 Rischio di portafoglio e frontiera efficiente usando una misura del rischio alternativa

La realtà del mercato di bond e loan, per quanto in linea con quanto visto, richiede anche il bisogno di analizzare un elevato numero di asset in questione, che però di fatto, poi, preclude l’uso del classico metodo di media–varianza per una insufficienza di serie storiche disponibili sui rendimenti di credit asset, e che non permette di calcolare le correlazioni tra i rendimenti degli stessi, e la varianza di portafoglio. Stesso problema nel caso in cui, invece di usare le correlazioni dei rendimenti, vogliamo usare le correlazioni tra le duration di ogni bond con gli altri, e con l’indice globale dei bond.

Altri due importante problemi sono il cambio delle scadenze nei singoli bond, per renderle omogenee al nostro periodo di analisi e l’esclusione dei bond falliti in passato.

TABELLA 1

MORTALITY RATES BY ORIGINAL RATING: ALL RATINGS OF CORPORATE BONDS*

1971 – 1994

Years After Issuance

Rating

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

AAA

Yearly

0

0

0

0

0,08

0

0

0

0

0

Cumulative

0

0

0

0

0,08

0,08

0,08

0,08

0,08

0,08

AA

Yearly

0

0,05

1,06

0,09

0

0

0,01

0

0,06

0,04

Cumulative

0

0,05

1,11

1,2

1,2

1,2

1,2

1,2

1,26

1,3

A

Yearly

0

0,19

0,07

0,21

0,06

0,06

0,2

0,19

0

0

Cumulative

0

0,19

0,26

0,47

0,53

0,59

0,78

0,98

0,98

0,98

BBB

Yearly

0,41

0,25

0,32

0,55

0,89

0,39

0,09

0

0,59

0,23

Cumulative

0,41

0,66

0,97

1,51

2,39

2,77

2,86

2,86

3,44

3,66

BB

Yearly

0,5

0,58

4,15

4,84

1,13

0,33

0,94

0,23

0,64

0,58

Cumulative

0,5

1,08

5,19

9,78

10,79

11,26

13,64

13,87

14,55

15,21

B

Yearly

1,59

7,12

6,8

7,29

3,4

3,4

2,8

2,13

2,83

3,43

Cumulative

1,59

8,6

14,82

21,02

23,71

28,21

30,22

31,7

33,63

35,91

CCC

Yearly

8,32

10,69

18,53

10,26

9,18

5,56

2,49

2,97

12,28

1,35

Cumulative

8,32

18,13

33,30

40,14

45,63

48,66

49,94

51,42

57,39

58,31

*Rated by S&P at issuance

Fonte: E.Altman e A.Saunders "Credit risk measurement: developments over the last 20 years"



TABELLA 2

MORTALITY LOSSES BY ORIGINAL RATING: ALL RATINGS OF CORPORATE BONDS*

1971 – 1994

Years After Issuance

rating

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

AAA

Yearly

0

0

0

0

0,08

0

0

0

0

0

Cumulative

0

0

0

0

0,08

0,08

0,08

0,08

0,08

0,08

AA

Yearly

0

0,02

0,21

0,03

0

0

0,01

0

0,04

0,02

Cumulative

0

0,02

0,23

0,26

0,26

0,26

0,26

0,26

0,3

0,32

A

Yearly

0

0,03

0,05

0,2

0,26

0,29

0,4

0,52

0,52

0,52

Cumulative

0

0,19

0,26

0,47

0,53

0,59

0,78

0,98

0,98

0,98

BBB

Yearly

0,27

0,1

0,21

0,26

0,36

0,3

0,06

0

0,41

0,14

Cumulative

0,27

0,37

0,58

0,84

1,19

1,49

1,55

1,55

1,95

2,08

BB

Yearly

0,26

0,26

3,34

2,14

0,7

0,33

0,94

0,23

0,64

0,58

Cumulative

0,26

0,51

3,84

5,9

6,56

6,86

7,774

7,95

8,54

9,07

B

Yearly

0,83

5,12

5,02

5,95

2,44

3,93

2,06

1,64

1,98

1,59

Cumulative

0,83

5,9

10,63

15,95

18

21,22

22,84

24,11

25,61

26,79

CCC

Yearly

7,22

8,87

15,3

6,82

6,76

3,29

2,49

0,91

8,35

1,25

Cumulative

7,22

15,45

28,39

33,27

37,78

39,83

41,33

41,87

47,47

47,61

*Rated by S&P at issuance

Fonte: E.Altman e A.Saunders "Credit risk measurement: developments over the last 20 years"



TABELLA 3

ANNUALIZED CUMULATIVE DEFAULT RATES AND ANNUALIZED CUMULATIVE MORTALITY LOSS RATES

1971 – 1994

ANNUALIZED CUMULATIVE DEFAULT RATES

rating

Year

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

AAA

0

0

0

0

0,01

0,01

0,01

0,01

0,01

0,01

AA

0

0

0,27

0,27

0,22

0,19

0,16

0,14

0,13

0,12

A

0

0,05

0,08

0,11

0,1

0,09

0,1

0,11

0,1

0,09

BBB

0,04

0,27

0,26

0,33

0,37

0,4

0,44

0,39

0,35

0,37

BB

0

0,35

1,26

1,44

2,1

1,91

2,02

1,81

1,68

1,59

B

0,99

2,14

4,61

5,01

5,14

4,71

4,58

4,25

3,97

4,09

CCC

2,24

8,35

11,75

10,50

9,87

9,78

8,82

8,07

7,21

8,35

 

 

ANNUALIZED CUMULATIVE MORTALITY LOSS RATES

rating

Year

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

AAA

0

0

0

0

0

0

0

0

0

0

AA

0

0

0,05

0,06

0,05

0,04

0,05

0,05

0,05

0,05

A

0

0,01

0,01

0,04

0,05

0,04

0,05

0,05

0,05

0,05

BBB

0,03

0,15

0,15

0,2

0,19

0,2

0,24

0,22

0,19

0,21

BB

0

0,2

0,86

1,01

1,22

1,11

1,09

0,98

0,94

0,91

B

0,42

1,23

3,29

3,64

3,81

3,46

3,36

3,12

2,91

2,89

CCC

1,51

7,19

9,79

8,69

7,82

7,57

6,87

6,13

7,06

7,25

Fonte: dati calcolati dalle tabelle 1 e 2



 




Dall’analisi di Altman sulle serie storiche dei ritorni e delle duration dei bond esistenti a fine 1995, emerge però, che la varianza dei rendimenti e delle duration, non sono indici appropriato della rischiosità dei singoli asset, e dell’intero portafoglio.

Una misura alternativa per il calcolo del rischio allora, criticata però da alcune banche e manager del settore, è quella di considerare la perdita inattesa nel caso di default, ovvero il tasso di interesse "promesso" su ogni emissione, meno la perdita attesa sulla stessa. Il rischio quindi, è il peggioramento (il c.d. "downside" o "downgrade"), e/o nella eventuale sottovalutazione, della stima delle s.d. perdite. Per contro però, si consideri che un tale metodo, per molte banche è utile a determinare un livello appropriato di riserve da accumulare contro le perdite in questione (si veda l’approccio RAROC, return adjusted return on capital).

L’approccio di Altman (1993) per determinare la perdita inattesa utilizza quindi, è una variazione dello Z-SCORE Model, ed è chiamato Z’’-SCORE Model; questi assegna ad ogni credit asset che può entrare nel portafoglio, un rating equivalente a quello che normalmente si assegna ai bond, e che possono essere usati per stimare la relativa perdita attesa. Quindi se noi consideriamo la deviazione standard delle perdite attese, abbiamo una procedura per stimare le perdite inattesa.

Come detto allora, useremo il modello Z’’-SCORE indicato nell’equazione (4), con gli equivalent rating della tabella 6:

(4) Z’’-SCORE = 6,56X1 + 3,26X2 + 6,72X3 + 1,05X4 + 3,25

dove X1= working capital / total assets;

X2 = retained earnings / total assets;

X3 = ebit / total assets;

X4 = equity (book value) total liabilities.

 

1.8 Rischio di portafoglio

La formula per misurare il rischio del nostro portafoglio è:

(5) UALp = å i å j Xi * Xj * s i * s j * r ij

UAL è la perdita inattesa sul portafoglio, consistente nella misura della perdita inattesa su ogni asset (s i , s j) e sulla correlazione della perdita inattesa, nel periodo di tempo considerato.

Queste perdite inattese, sono basate sulla deviazione standard delle perdite annuali attese, calcolate in base ai rating bond equivalenti trimestrali.

 

1.9 Risultati empirici

Ottimizzando il portafoglio con i s.v. 10 credit asset, tramite il modello Z"-Score, e considerando invece che i ritorni attesi, le perdite attese e non attese, vediamo, dalla tabella 7, una frontiera efficiente comparata ad un "equal weighted portfolio".

Come prima osservato, la frontiera efficiente indica un HYPRs considerevolmente migliore. Per esempio, il return/risk ratio di sopra (0,5), può essere migliorato dall’1,6 (2/1,25) al 2% di rendimento trimestrale, e all’1% con lo stesso livello di rischio (3,75%).

La tabella 8 invece, mostra il "peso" di ogni bond inserito in portafoglio, usando sia i ritorni che il rischio (perdita inattesa), e considerando il vincolo del 15% massimo per ogni titolo. Questo risultato è per l’1,75% trimestrale di ritorno. Si noti poi che vengono utilizzati solo 8 dei 10 titoli in questione.

Questi risultati sono conformi a quelli che vengono fuori usando il modello Z"-SCORE. Il nostro piccolo esempio dimostra dunque risultati incoraggianti, ed indica che questo tipo di approccio di portafoglio è potenzialmente completo per gli asset a reddito fisso.

Importanti fattori da considerare comunque, sono il ruolo, e le scelte del credit risk management, in tutto il processo.

Chiaramente, i risultati raggiunti e visti in queste pagine, sono solo il punto di partenza per il problema; per un loro maggiore approfondimento empirico sono richiesti esperienze e confidenza col settore.

 

TABELLA 6

U.S. BOND RATING EQUIVALENT, BASED ON Z" SCORE

U.S. equivalent rating

average z" score

sample size

AAA

8,15

8

AA+

7,6

-

AA

7,3

18

AA-

7

15

A+

6,85

24

A

6,65

42

A-

6,4

38

BBB+

6,25

38

BBB

5,85

59

BBB-

5,65

52

BB+

5,25

34

BB

4,95

25

BB-

4,75

65

B+

4,5

78

B

4,15

115

B-

3,75

95

CCC+

3,2

23

CCC

2,5

10

CCC-

1,75

6

D

0

14

Average based on over 750 U.S. industrial corporate with rated debt outstanding; 1994 data.

Fonte: In-Depth Data Corporation, in E.Altman e A.Saunders "Credit risk measurement: developments over the last 20 years"

 

 





TABELLA 8

Return = 1,75% Constrained to 15% maximum weights

Company ticker

Weights using Zeta Scores

Weights using returns (quarterly)

AS

0

0,1065

BOR

0,0776

0

CGP

0,15

0,15

CQB

0,15

0,15

FA

0

0

IMD

0,15

0,1351

RHR

0,15

0,1209

STO

0,15

0,15

USG

0,15

0,15

WS

0,024

0,0376

Fonte E.Altman e A.Saunders "Credit risk measurement: developments over the last 20 years"

 

1.10 Sommario e conclusioni

In questo appendice abbiamo allora cercato di raggiungere due risultati. Nella prima parte abbiamo tracciato lo sviluppo delle tecniche di misurazione del credit risk negli ultimi 2° anni, e abbiamo mostrato come molti di questi sviluppi hanno poi avuto un notevole seguito.

Nella sezione IV invece, abbiamo sviluppato un nuovo approccio alla misurazione delle scelte rischio/rendimento per un portafoglio di asset creditizi rischiosi, come bond e loan. In particolare è stato evidenziato che questo nuovo approccio aggiunge molte promesse alla risoluzione del difficile problema della stima della composizione di portafoglio di asset creditizi rischiosi.

 



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