Assemblea-dibattito in tema di flessibilità, nuovo mercato del lavoro e

riforma del Welfare State

CONTRO IL WELFARE DEI MISERABILI

 9 ottobre 1999, Centro Congressi Cavour, Via Cavour n.50

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Relazione Introduttiva
di

Luciano Vasapollo[1]

 

1.      La società dell'accumulazione flessibile: un modello di sviluppo a bassa occupazione ed alta flessibilità

    Sono circa venti anni che si assiste ad un intenso processo di finanziarizzazione che sta mutando lo stesso modo di presentarsi del modello di sviluppo capitalistico e che spiega cosa sia realmente la globalizzazione.

Il contenuto effettivo della globalizzazione è dato non dalla mondializzazione degli scambi ma da quella delle operazioni riguardanti i movimenti del capitale, tanto sotto la forma industriale che finanziaria. All’origine della crescita della sfera finanziaria esistono dei flussi verso questo settore di frazioni di ricchezza che sono nate all’interno della sfera di produzione reale e che, prima di essere travasati nelle diverse forme e trasferiti verso la sfera finanziaria avevano assunto la caratterizzazione di ricchezza determinata nella sfera della produzione reale. Questi flussi sono all’origine di meccanismi di accumulazione perversi, che fanno si che le economie nazionali siano finalizzate al dominio del capitale finanziario diventando parte del rapporto di competizione internazionale tra poli imperialisti, mediati da compromessi all'interno delle organizzazioni sovranazionali del capitale finanziario (G8, BM, FMI, OCSE, BEI, BRI, ONU). Questi processi di globalizzazione a connotati finanziari perseguono semplicemente la loro logica interna tendente alla massimizzazione delle rendite finanziarie senza avere effetti propulsivi sull’economia reale; rendite finanziarie che si assommano a profitti industriali sempre più alti dovuti a immensi incrementi di produttività del lavoro. Tali incrementi in quanto non redistribuiti socialmente hanno accresciuto le quote di ricchezza destinate al fattore capitale, assumendo sempre meno la forma di  investimenti capaci di creare occupazione a vantaggio sempre più di dividendi, interessi e capital gain da destinare a speculazione finanziaria o ad investimenti esteri in paesi a basso costo di manodopera.

Tutti i  parametri macroeconomici rispecchiano quanto sostenuto in precedenza confermando l'andamento dei primi anni '90, con in generale tassi di disoccupazione maschile e femminile che aumentano fortemente e retribuzioni dirette e indirette (in termini salariali e di prestazioni sociali) che si incrementano in modo assai lento, senza assolutamente rispondere ad una equa redistribuzione ai fattori produttivi capitale e lavoro degli incrementi di valore aggiunto e di produttività, segnando, infatti, una forte carenza redistributiva verso le forme di remunerazione  al fattore lavoro.

Per avere un quadro di confronto fra USA e altri paesi a capitalismo avanzato dei più importanti indicatori macroeconomici si veda la Tab.1, in cui si possono leggere i diversi ritmi di crescita complessivi dell'economia.

Tab.1 Indicatori economici (variazioni percentuali sull'anno precedente)

Voci

Stati Uniti

Giappone

Canada

Germania

Francia

Regno Unito

 

1989

1995

1998

1989

1995

1998

1989

1995

1998

1989

1995

1998

1989

1995

1998

1989

1995

1998

PIL

3,4

2,3

3,9

4,8

1,5

-2,8

2,5

2,6

3,0

....

1,7

2,3

4,3

2,1

3,2

2,1

2,8

2,1

Consumi privati

2,3

2,7

4,9

4,8

2,1

-1,1

3,6

2,1

2,7

....

1,9

1,8

3,1

1,7

3,8

3,3

1,7

2,7

Invest.priv.fissi lordi

1,7

5,5

11,4

8,2

1,7

-8,8

5,9

-2,5

4,2

....

-0,7

1,8

7,9

2,5

4,1

5,9

2,9

8,3

Occupazione

2,5

2,7

2,6

2,0

0,1

-0,6

2,1

1,6

2,8

1,4

-0,2

0,4

1,5

0,8

2,1

2,9

1,7

1,2

Guadagni orari

2,7

2,4

4,2

5,6

2,9

-0,8

5,4

1,4

2,1

4,2

4,1

1,7

5,1

1,6

1,9

8,8

4,5

4,5

Costo lav.unità prod.

2,1

1,8

1,9

0,8

-2,2

6,1

4,5

-0,3

2,8

1,0

-0,3

-2,9

-0,2

-2,3

-2,6

4,9

3,8

4,9

Tasso disoccupaz.

5,3

5,6

4,5

2,3

3,2

4,1

7,5

9,5

8,3

7,1

9,5

11,1

9,4

11,6

11,8

6,2

8,0

4,7

                                           

E' importante notare ovunque il trend a ribasso sia dei consumi e degli investimenti sia dell'occupazione e dei guadagni orari; inoltre agli incrementi  di produttività continuano a corrispondere aumenti nei tassi di disoccupazione. Si tratta in pratica dell'esplosione di un nuovo modello economico che ha colpito fortemente l’andamento occupazionale e dei salari, contraendo la domanda complessiva e associando crescita a disoccupazione.

Ad esempio, per il 1998 i paesi dell’area dell’euro hanno registrato un incremento del PIL del 2,9% contro l’aumento del 2,5% del 1997; anche se tale performance è stata la più alta degli ultimi dieci anni, all’incremento del prodotto nell’Unione Europea non è però corrisposto un miglioramento dell’andamento del mercato del lavoro che segnala ancora oltre il 10% medio del tasso di disoccupazione, cioè circa 19 milioni di disoccupati, per non parlare degli altri 13/14 milioni di disoccupati invisibili che “sfuggono” alle rilevazioni delle statistiche ufficiali.

Anche per il 1999 le prospettive di sviluppo non possono certo definirsi buone, anche perché i vari organismi internazionali stimano un rallentamento del PIL mondiale che dovrebbe segnalare complessivamente una crescita non superiore al 2%, con  un risultato inferiore nell’area dell’Euro (area nella quale la Germania e l’Italia potrebbero segnare uno sviluppo ancora più incerto) ed un ulteriore ristagno dell’economia giapponese, insieme ad una situazione fortemente critica per l’America Latina. Pertanto anche per il 1999 la domanda mondiale dovrebbe essere sostenuta soltanto dagli Stati Uniti, che si ipotizza raggiungeranno un incremento del PIL superiore al 3%, ma con le stesse logiche di dominio colonialista ed imperialista che caratterizzano la loro politica economica, la quale anche per il 1998 ha evidenziato in tal modo una fase espansiva, che dura ormai da oltre otto anni, raggiungendo un aumento del prodotto del 3,9% dovuto ad una alta dinamica degli investimenti, in particolare in attrezzature informatiche e  in quel macrosettore che può individuarsi come area produttiva dell’economia di guerra, ed anche a continui aumenti della produttività. Allo stesso tempo gli ultimi dati sulla disoccupazione forniti in questi giorni dall’Eurostat e riferiti a Luglio 1999 confermano i tassi di questi ultimi anni: mentre  il tasso di disoccupazione dell’UE-15 è del 9,3% rispetto al 9,9% dello stesso mese dello scorso anno, nella zona euro-11 il tasso è rimasto invariato al 10,2% come lo stesso mese dell’anno scorso; e ciò senza considerare i “trucchi statistici” che inglobano ogni forma di sottoccupati e di lavoratori flessibili e intermittenti fra gli occupati.

Per quanto riguarda in particolare l'Italia, la Tab. 2 evidenzia una economia sicuramente in difficoltà, in particolare con forme dirette o indirette di contrazioni del reddito. Ad esempio, a fronte di un sempre alto tasso di disoccupazione (costantemente superiore al 12% negli ultimi anni) e a bassi incrementi occupazionali (dovuti esclusivamente a forme di lavoro atipico, interinale, part-time, LSU, ecc.) si  realizzano nel contempo scarsi incrementi dei consumi privati, a causa di una contrazione dei redditi da lavoro e una scarsa propensione agli investimenti privati interni, anche perché i capitali fuggono sempre di più all'estero alla ricerca di paradisi fiscali, di speculazione finanziaria e di costi del lavoro sempre più bassi. Sempre con riferimento all’ultima rilevazione Eurostat (riferita a Luglio ’99),  l’Italia (con il 12,1%) risulta essere dopo la Spagna (15,7%) il paese in Europa con il più alto tasso di disoccupazione, e prima in assoluto nel record negativo della disoccupazione giovanile (32,6% sono i senza lavoro italiani sotto i 25 anni), senza considerare che tale percentuale tocca picchi del 60% in molte aree del meridione dove il tasso di disoccupazione medio supera il 25%.

 Tab.2 Indicatori economici  dell'ITALIA (variazioni percentuali sull'anno precedente)

Voci

1989

1992

1995

1996

1997

1998

PIL

2,9

0,8

2,9

0,9

1,5

1,3

Consumi privati

3,5

1,3

2,2

0,5

2,6

1,7

Invest.priv.fissi lordi

4,2

- 1,4

6,0

2,3

0,9

3,5

Esportazioni

9,0

6,5

12,7

1,5

5,0

1,2

Importazioni

9,1

4,7

10,4

- 1,3

10,0

6,1

Occupazione

0,1

- 0,9

- 0,5

0,4

...

0,5

Retribuz. Addetto

6,6

6,9

3,4

5,5

3,5

2,4

Costo lav.unità prod.

7,2

2,5

1,1

6,0

1,3

- 3,0

Tasso disoccupaz.

10,2

8,8

12,0

12,1

12,3

12,3

 

Si realizza invece, nel contempo un enorme incremento in Italia dei profitti. Infatti, va evidenziata la tendenza alla crescita del margine di profitto negli anni successivi al 1992 dovuta soprattutto alla svalutazione della lira, alla diminuzione dei costi di produzione (principalmente il lavoro) e all’aumento dei prezzi dei prodotti destinati all’esportazione. Sempre in questi anni si è realizzato un incremento del 5,5% della remunerazione lorda del capitale in termini di valore aggiunto, ciò è stato dovuto soprattutto  ad uno sviluppo della produttività del lavoro (14%) rispetto a quello del costo del lavoro unitario (5%).

L’ultimo rapporto di Mediobanca del 1999, che analizza i dati  aggregati di 1755 società italiane (un campione altamente significativo che rappresenta oltre il 40% del fatturato complessivo), dati riferiti all’anno 1998, mette in evidenza quanto già si è sostenuto. Infatti le imprese italiane hanno raggiunto nel 1998 un vero e proprio record per i profitti, con un incremento del 53% rispetto all’anno precedente degli utili netti. Ma ciò è avvenuto senza un corrispondente aumento del fatturato, con investimenti che continuano ad essere inferiori a quelli di dieci anni fa e a scapito dell’occupazione, che prosegue il suo trend ormai pluriennale al ribasso. 

Per evidenziare soltanto alcuni dati si tenga conto che, per lo stesso campione di imprese e rispetto all’anno 1997, gli utili netti nel 1998 si sono incrementati di 8.000 miliardi di lire, passando da 15.000 miliardi di lire a 23.000 miliardi (nel 1996 gli utili netti erano 10.000 miliardi di lire). In particolare tale incremento complessivo del 53% è avvenuto con pesi diversi rispetto alle tipologie d’impresa: ad esempio l’utile netto delle imprese pubbliche è aumentato del 36% mentre quello delle private del 32%, ed il settore terziario ha evidenziato il miglior risultato con un incremento annuo del 70%. Nel 1998 il giro di affari complessivo ha segnato un incremento totale del fatturato soltanto dell’1% sull’anno precedente, con un 6,9% di incremento del giro di affari nel terziario e una diminuzione dello 0,3% per il totale dell'industria. Inoltre si tenga conto che il mercato interno ha segnato un aumento delle vendite soltanto dello 0,4%, contro il 6% del 1997 a conferma di una domanda interna molto debole, mentre le esportazioni sono cresciute del 2,7%, dato inferiore al 1997 anche a causa di  una maggiore dinamica e aggressività da parte dei paesi asiatici. Si noti che il forte incremento dei profitti non è stato, quindi, dovuto a particolari incrementi delle vendite, cioè del fatturato, né a particolari risultati positivi nell’andamento del valore aggiunto, nonostante il netto calo dei prezzi dei prodotti di base e delle materie prime, con un abbattimento sostanziale nel prezzo del petrolio. Se a ciò si aggiunge una buona tenuta del Margine Operativo Lordo Globale, ciò sta a significare che  l’incremento degli utili netti, e quindi dei profitti,  è derivato da una forte compressione del costo del lavoro, diminuzione dovuta anche ai continui incrementi di produttività senza corrispondenti aumenti salariali. Infatti  per il 1998 nell’industria si è avuta una diminuzione del costo del lavoro dello 0,2% e dell’1,7% nel terziario, a ciò si aggiunga che si è verificata una diminuzione dell’1,4% medio nel costo del denaro e  l’abolizione dei contributi delle imprese al Servizio Sanitario Nazionale, oltre a una diminuzione complessiva delle imposte sul reddito. Si segnala, infatti, una riduzione dell’aliquota fiscale media di circa tre punti percentuali per il settore dell’industria (che passa dal 53 % al 50%) e di circa l’11% nel terziario (un’aliquota media che passa dal 54% al 43%) e ciò grazie all’introduzione dell’IRAP e della riforma tributaria che ha favorito fortemente le grandi imprese.

Tale quadro sta anche a dimostrare una continua tendenza verso i  processi di finanziarizzazione dell’economia, in quanto se è vero che i profitti si sono realizzati anche a causa dei minori oneri finanziari e della minore incidenza tributaria, è anche vero che l’elevato importo dei profitti è stato solo in parte correlato a incrementi di valore aggiunto. Pertanto è desumibile che una parte degli utili netti sia da attribuire ad operazioni di rendita finanziaria e ciò è anche confermato dalla mancanza di seri programmi di investimenti, nonostante la riduzione del costo del denaro. Il vantaggio derivato dal calo dei tassi di interesse non ha comportato, quindi, consistenti programmi di investimento interni; infatti gli investimenti tecnici e finanziari delle imprese private italiane continuano ad andare più all’estero  che al mercato interno, ciò a conferma del processo intenso di internazionalizzazione che da qualche anno sta interessando le imprese italiane. Tant’è che nel 1998 gli investimenti tecnici delle società del campione sono aumentati globalmente del 5,4%, rimanendo ancora più bassi del 18% di quelli di inizio decennio. Va anche segnalato che per ogni 100 lire di investimenti realizzati nel 1998 ci sono state  quasi 39 lire di disinvestimenti; ciò a dimostrare il continuo processo di esternalizzazione produttiva e di delocalizzazione internazionale che fanno sì che le imprese italiane si concentrino soltanto sulla parte del ciclo produttivo ad alti margini e sulle lavorazioni ad alto valore aggiunto, dismettendo le funzioni aziendali e le fasi del ciclo  non strategiche a scarso contenuto di know how e quindi realizzabili in quei paesi dove più basso è il costo del lavoro e scarsi sono i diritti del lavoro.

Con il quadro rappresentato si evince chiaramente che i vantaggi di cui hanno potuto usufruire le imprese italiane sono rimasti esclusivamente nelle tasche degli imprenditori, dei manager, degli azionisti i quali non hanno “socializzato” in alcun modo le condizioni ottimali di crescita di questi ultimi anni ,e in particolare del 1998, anno in cui si sono registrati i migliori risultati dell’ultimo decennio. Alla crescita dei profitti e della produttività, infatti, non è corrisposto nè incremento salariale, nè miglioramento della qualità delle condizioni di lavoro, nè diminuzione di orario di lavoro, nè aumenti della spesa sociale (sia in termini quantitativi sia qualitativi), nè infine vi è stato incremento occupazionale.

Infatti, sempre in riferimento al campione di Mediobanca, si ha che negli ultimi tre anni sono stati espulsi dal processo produttivo 58.518, lavoratori di cui 19.867 nel 1998, 16.573 nel 1997 e circa 22.000 nel 1996; evidenziando così un intenso processo di deindustrializzazione nel nostro Paese, poiché dei 58.518 posti di lavoro persi ben 54.928 sono in imprese industriali mentre i restanti  3.590 sono lavoratori espulsi dai processi produttivi delle imprese terziarie. Solo nel 1998, sempre in riferimento al campione di Mediobanca di 1755 imprese, si rileva che mentre le imprese terziarie registrano un aumento di 1.400 unità di lavoro essenzialmente nel comparto delle telecomuncazioni per lo sviluppo della telefonia mobile (anche se si tratta spesso di contratti part time e di formazione),  le imprese industriali invece evidenziano una perdita di 21.667 posti di lavoro.

Si consideri, inoltre, che il lieve incremento registrato nelle retribuzioni dirette è stato ampiamente bilanciato, sempre nel 1998, dall’abolizione degli oneri a carico delle imprese per i contributi al Servizio Sanitario Nazionale e all’incidenza dell’imposizione fiscale che, come si è detto precedentemente, è fortemente variata in senso favorevole alle imprese, soprattutto per quelle di grande dimensione (si parla infatti che con l’introduzione dell’IRAP e della DIT, la Dual Income Tax, le grandi imprese e le banche abbiano risparmiato oltre 10.000 miliardi); va infine considerata anche la diminuzione degli oneri finanziari grazie al calo dei tassi di interesse.

In pratica il capitalismo italiano continua ad intascare profitti senza creare opportunità di occupazione, ristrutturando per seguire esclusivamente un’ottica di competitività internazionale basata su processi di delocalizzazione produttiva all’estero, decrementi occupazionali all’interno del Paese, supersfruttamento del lavoro con incrementi degli straordinari e dei ritmi, uso di lavoro nero e precario e con scarsi diritti riconosciuti ai lavoratori, in particolare le nuove figure del lavoro atipico, con flessibilità del salario e del lavoro, con tagli continui alla spesa sociale, quindi con salari reali, diretti e indiretti, sempre a minore capacità di acquisto. Il tutto finalizzato a determinare utili che, nonostante le condizioni favorevoli di cui si è detto, non vengono utilizzati in investimenti produttivi nel Paese ma inseguono la speculazione finanziaria e l’investimento produttivo estero, percorrendo traiettorie verso i paesi dove si può avere un lavoro specializzato a basso costo e a basso contenuto normativo.

Per realizzare siffatte trasformazioni diviene necessario agire secondo il cosiddetto principio sociale della flessibilità,  utilizzando a tal fine strutture istituzionali che impongono nel sociale il  principio del minimo costo e massimo beneficio e realizzando, in chiave sempre più strategica, la logica del massimo grado di adattabilità alle esigenze di un mercato, che è anche mercato del vivere sociale.

La flessibilità come principio del vivere sociale significa precarietà e ciò è possibile a partire dalla estensione della flessibilità tecnologica che consente contemporaneamente sia di incrementare la produttività sia di creare flessibilità nella produzione, producendo così una notevole contrazione del volume della forza lavoro e una diminuzione del tempo di lavoro necessario alla produzione. Il lavoro non è disponibile per tutti, e la flessibilità dei rapporti lavorativi  rende lo stesso vivere precario e instabile anche per coloro che ancora godono del posto di lavoro più o meno stabile. Quindi ogni forma di garanzia dell’epoca fordista viene completamente eliminata dalla trasformazione produttiva del nuovo modello capitalistico post-fordista dell'accumulazione flessibile.

La crisi del sistema lavoro ha modificato sensibilmente  la società attuale in quanto si è verificata una disoccupazione strutturale, la fine della fabbrica come centro della produzione, la trasformazione immateriale del lavoro e l’aumento di forme di lavoro subordinato e non normato, sviluppatesi soprattutto tra le fila del nuovo esercito postindustriale di riserva, producendo un travaso dal mondo dei garantiti a quello dei non garantiti.

In un tempo in cui le macchine vanno a sostituire la forza lavoro, si intensificano gli interventi tesi a restaurare ambiti di  supersfruttamento ancora in una società salariale che intensifica quelle forme contrattuali atipiche (part-time, formazione-lavoro, a termine, ecc.). Il nuovo modello capitalistico sta portando alla scomparsa del lavoro regolamentato e a tempo indeterminato. ma non del lavoro salariato e subordinato. Questo è dovuto principalmente al nuovo sistema economico, che produce quote sempre più elevate di ricchezza con quote sempre più basse di lavoro; ai processi di informatizzazione che producono un grande risparmio di forza lavoro, permettendo così la diminuzione dell’organico dei lavoratori permanenti a tutto vantaggio di coloro che lavorano in modo precario e a tempo parziale e creando un esercito di lavoratori di riserva in pianta stabile. La disoccupazione, la flessibilità e la precarizzazione  di salari e delle forme di lavoro diventano così fenomeni strutturali.

Il superamento dell’era fordista pone il nostro Paese in una fase di ridefinizione del capitalismo con caratteri post-industriali superando nei fatti le logiche interpretative di tipo industrialista ed “operaista”, per passare ad una gerarchizzazione dei modelli dello sviluppo basata principalmente sulle modalità di trasformazione sociale ed economica che vedono emergere sempre più nuove soggettualità non garantite. Si tratta di una popolazione direttamente o indirettamente legata alla nuova impresa a diffusione sociale nel territorio, la fabbrica sociale generalizzata, determinando una specifica forzata capacità autocontenitiva in relazione a domanda e offerta di lavoro realizzata tramite marginalizzazione, precarizzazione, deregolamentazione ed espulsione dei soggetti economici e produttivi non compatibili.  E’ questo ormai di un popolo di disoccupati nuovi ed ex lavoratori dipendenti  di fatto precarizzati, non più garantiti nella continuità del lavoro, espulsi dall’impresa madre e assoggettati a una nuova forma di lavoro a cottimo, a supersfruttamento; si tratta spesso di nuove forme di lavoro subordinato, di lavori atipici, fuori dalle garanzie normative e retribuite sociali e assicurative del lavoro dipendente. Si veda come esempio eclatante l'istituzionalizzazione del precariato all'interno della Pubblica Amministrazione con l'impiego a salario e garanzie fortemente ridotti dei Lavoratori Socialmente Utili.

Anche l’enorme aumento delle aperture di partita IVA, cioè i nuovi lavoratori autonomi, i nuovi piccoli imprenditori, altro non sono che il risultato della scelta del capitale di espellere manodopera, di creare un indotto a carattere prevalentemente terziario mal retribuito, senza il carico contributivo, di sollecitare un generalizzato ricorso a forme più o meno nascoste di cottimo corporativo da contrapporre ad ogni forma di rigidità del lavoro e retributiva, rendendo tutto flessibile e compatibile al sistema della centralità dell’impresa e del profitto, adattando l'intero corpo sociale, attraverso le funzioni del Profit State, all'organizzazione della fabbrica sociale generalizzata.

 2. Dal Welfare State al Profit State

Negli ultimi venticinque anni il modello capitalistico a base keynesiana, in tutti i suoi diversi modi di presentarsi, si è dissolto cancellando lo stesso concetto proprio di civiltà; lo sbriciolamento della intera struttura produttiva preesistente distrugge le stesse forme di convivenza civile determinate dal modello di mediazione sociale di forma keynesiana.

In ogni caso qualsiasi sia il modello di capitalismo di riferimento, è chiaro che ormai vi è un'univocità d'intenti attraverso processi di finanziarizzazione e nuove modalità di sfruttamento del lavoro e di ristrutturazione del mercato che determinano esclusivamente processi espansivi dei profitti aziendali. Questo è possibile grazie ad una puntuale funzione manageriale imprenditoriale che sfrutta e si avvale del modello concertativo con un intervento diretto del Profit State, cioè  uno Stato come portatore di cultura e di interessi di impresa finalizzati ad un successo misurato non tanto e non solo nella capacità di utilizzo di tecniche, strumenti e comportamenti innovativi, quanto nell'imposizione di modelli comportamentali che sappiano esprimere il più alto livello di coerenza con la programmazione strategica di fondo della cultura d'impresa da trasmettere nel sociale.

Il mutamento più profondo si è verificato nel sistema lavoro e nel sistema di protezione sociale. Oggi prevale sempre più e comunque l'economia finanziaria speculativa a danno del fattore produttivo lavoro, sia in termini di attacco al salario diretto e alle condizioni di vita dei lavoratori con aumento dei ritmi, sempre più scarse garanzie e tutele, flessibilità e precarizzazione, sia comprimendo il salario indiretto attaccando sempre più la sfera dei diritti universali attraverso un forte ridimensionamento dello Stato sociale.

La trasformazione è sia di tipo quantitativo con una disoccupazione elevatissima, sia di tipo qualitativo, infatti non si può più considerare la fabbrica il luogo della concentrazione del lavoro e della produzione, né lo Stato è la forma di mediazione e regolamento del conflitto di classe. L’intero ciclo produttivo ha scavalcato le mura della fabbrica generalizzandosi alla società intera, lo Stato diventa Profit State in quanto si fa portatore nel sociale nelle sue diverse forme della cultura del mercato e degli interessi dell'impresa.

Lo Stato sociale si trasforma in Stato-impresa, in Profit State che assume come centrale la logica di mercato, la salvaguardia  e l’incremento del profitto, trasforma i diritti sociali in elargizioni di beneficenza, effettua comunicazione sociale che fa assumere il profitto, la flessibilità, la produttività come nuove forme di “divinità sociale”, come la filosofia ispiratrice dell’unico modello di sviluppo possibile. Il Profit State continua a omaggiare di condizioni favorevolissime gli imprenditori e a operare sconti eccezionali al profitto e ciò non si traduce neppure in  miglioramenti di spesa sociale ( anche perché diminuisce il peso contributivo delle imprese), né in incrementi di investimenti sul mercato italiano, né in riduzione di orario di lavoro, né in incrementi di salario e in operazioni redistributive a favore del lavoro, né, aumenta l’occupazione.

Da quanto esplicitato precedentemente sul ruolo attivo svolto dal Profit State nei nuovi processi di accumulazione flessibile, nella ristrutturazione capitalistica dell'era post-fordista, si capisce immediatamente il perché lo Stato sociale, garante dell’equilibrio tra capitale e lavoro fino agli anni '70 (sistema che nella propria struttura integrava le istituzioni del lavoro, la partecipazione dei lavoratori alla produzione, le organizzazioni di massa) sia stato travolto dalla trasformazione produttiva. La politica dello Stato sociale, fondata sulla struttura stabile della produzione, è venuta meno e la sua organizzazione, con tutte le varie forme di protezione sociale ad essa collegate, da vent’anni stanno subendo un progressivo processo di insabbiamento. Tale politica si è accompagnata alle ipotesi che la disoccupazione non dovesse avere cause strutturali e che quindi i processi di sviluppo sostenuti dovessero essere non assecondati in quanto causa di forte inflazione. L'inizio degli anni '90 infatti si caratterizza per un una vera e propria rinuncia alle politiche di sviluppo da parte dei governi e del nuovo pensiero economico liberista. Pertanto l'obiettivo del sistema capitalista così configurato non è più quello della piena occupazione e contemporaneamente inizia un vero e proprio percorso di abbattimento dello Stato sociale visto come un persistere di elementi di "socialismo" derivanti da quel consociativismo che aveva permesso di  attenuare il conflitto di classe nei decenni in cui il movimento operaio aveva espresso tutta la sua forza.

Lo Stato sociale impostato nel dopoguerra nei paesi occidentali era basato su un modello il cui funzionamento può essere schematizzato nel modo seguente: lo sviluppo dell’economia garantiva occupazione e posti di lavoro; lo sviluppo progrediva regolarmente, in modo che il mercato potesse essere in grado di risolvere il problema dell’occupazione, mentre lo Stato interveniva in modo residuale per coprire le temporanee interruzioni o condizioni marginali della forza lavoro e per assicurare le condizioni di pace sociale attraverso forme di "solidarietà" nei momenti in cui veniva meno il rapporto con il mercato, a causa di temporanea disoccupazione, malattia, vecchiaia, esigenze di formazione. Tale modello era incardinato su un’organizzazione sociale basata sul lavoro fordista a pieno tempo degli uomini, e sulla disponibilità delle donne a garantire le attività di riproduzione, rispetto alle quali l’intervento dello Stato era puramente residuale; su una determinante forza contrattuale espressa in termini di alta e vincente conflittualità da parte del movimento operaio. Tale modello era possibile anche per una visione lungimirante, in chiave antioperaia, dei governi conservatori e moderati, i quali ritenevano che non esistendo alcuna spontaneità del sistema verso il pieno impiego, allora l’onere di mantenere la  stabilità della domanda e della piena occupazione dovesse essere a carico di uno Stato che doveva svolgere una funzione di supplenza rispetto agli imprenditori privati.

Tale modello è oggi definitivamente scomparso. Davanti all’attuale pochezza e al servilismo dei governi socialdemocratici, parlare di tale lungimiranza fa sembrare la politica economica dei vecchi conservatori come fosse l’economia e il potere dei Soviet.

Ormai i mutamenti dovuti al ciclo post-fordista dell'accumulazione flessibile che determinano anche la crisi fiscale dello Stato, fanno sì che i costi del Welfare non siano più compatibili in un sistema di alta competitività internazionale; in cui non c’è spazio di mediazione con i bisogni collettivi irrinunciabili. Per porre rimedio a questa situazione di profonda crisi nella quale lo Stato non può più aiutare la massa sempre più ampia di disoccupati e lavoratori precari, non è più compatibile con i modi dell'accumulazione capitalistica uno Stato che possa garantire una rete di protezione sociale minima per tutti e per le varie fasi della vita; non è più possibile garantire uno stabile rapporto di lavoro, affiancato da un’efficace offerta di servizi di base e da politiche di sostegno verso chi è più debole.

Scelte di politica economica che rientrano in un più generale progetto basato su una completa ricomposizione dei conflitti e delle tensioni sociali attraverso una ristrutturazione delle relazioni economiche ed industriali basate sulle logiche del capitalismo selvaggio. Tutto ciò si realizza attraverso modalità del consenso che si diffondono tramite politiche di  un nuovo consociativismo che attraversa e coinvolge il sistema dei partiti, i sindacati confederali, le associazioni imprenditoriali,  le istituzioni bancarie-finanziarie e il connesso sistema delle comunicazioni di massa. Se il consociativismo nasce e si sviluppa già a partire dagli anni ‘70 ,è negli anni ‘80 e negli anni ‘90 che la tendenza aclassista della cogestione e concertazione delle organizzazioni storiche dei lavoratori trova la sua massima espressione e punto di non ritorno. Il Welfare garantiva  un rapporto tra economia, politica e società come progetto di governo politico della crisi con proposte di Welfare compatibile, e tendenti a definire quel patto sociale incentrato sul debito pubblico che sosteneva il vecchio modello di Stato. Al crescere del debito era inevitabile che emergesse il problema della solvibilità delle casse dello Stato e quindi dei limiti da porre a questa espansione. I governi dei paesi occidentali, che avevano digerito solo parzialmente la stessa rivoluzione keynesiana, hanno pertanto dovuto comnciare a confrontarsi con la questione del blocco della spesa pubblica. Ma non appena questo blocco è stato operato, a partire dagli anni ‘80, la disoccupazione ha cominciato a crescere ovunque vertiginosamente. L’improduttività dello Stato ha generato una vera e propria ridefinizione politica, economica e sociale di stampo restauratore, contro quella che, a causa del capovolgimento, è stata presentata come una vera dissipazione delle risorse.

Sebbene nell’immediato l’urgenza della riforma del Welfare sia di natura finanziaria, il progetto neoliberista contiene ben più che l’intento di risanamento del bilancio. Nonostante i ripetuti attacchi, il Welfare State sopravvive come residuo logoro ma ancora simbolico dell'epoca keynesiana; finché questa anomalia non verrà rimossa, la rivoluzione liberista post-fordista dell'accumulazione flessibile resterà incompiuta, perché la politica sociale deve in ogni caso stare al passo con i tempi dei nuovi processi di accumulazione del nuovo ciclo capitalista e non deve ostacolare lo sviluppo dell'egemonia sociale dell'impresa a cui serve un Welfare State ridimensionato e disponibile.

Si definisce il nuovo ruolo del Profit State, attraverso, ad esempio le soluzioni tecnocentriste che si vanno delineando nell’ Europa di Maastricht. Esse prospettano la ricomposizione di un blocco di forze economico-sociali, la cui affermazione non può non produrre la conseguenza di abbandonare gli esclusi e le aree geografiche più esposte all’emarginazione, tentando nel contempo di diffondere la cultura rampante e autoaffermativa del mercato per creare quel consenso al nuovo blocco neocentrista che si cerca di strutturare intorno al pensiero unico neo-liberista, tanto ben interpretato dai governi di centro-sinistra ad impostazione socialdemocratica.

3. Alcuni dati sulla spesa sociale in Europa: il ridimensionamento del Welfare

Il messaggio sociale che viene quotidianamente trasmesso in tutta Europa, anche se con modalità a volte diverse, è sempre basato sulla considerazione dogmatica della validità dei criteri di efficienza dell’impostazione capitalistica americana, realizzando così un vero e proprio darwinismo economico attraverso ogni forma di flessibilità sociale, del lavoro e salariale, finalizzata all’abbattimento di ogni comportamento che si riveli rigido, conflittuale, non omologabile alle compatibilità del profitto, alle leggi di un mercato sempre meno regolato e sempre più selvaggio, e ciò si accompagna a continui tagli alla spesa pubblica in tutta Europa .

Di seguito si presentano alcuni dati a titolo esemplificativo per evidenziare il continuo ridimensionamento del Welfare in Europa;  va ricordato che i dati sulle protezioni sociali per i paesi dell'UE sono  comparabili in quanto le metodologie adottate  sono molto simili fra loro.

Va rilevato che anche se l'Europa spende una quota superiore al Giappone e agli Stati Uniti per la sicurezza sociale, vi sono al suo interno differenze sostanziali tra i vari paesi. Ad esempio, si registra una notevole flessione per le spese inerenti le prestazioni  di protezione sociale e le spese sanitarie, ed in particolare dal 1995 in poi in tutti i paesi dell'UE. Per quanto riguarda gli assegni familiari i dati testimoniano che paesi come il Lussemburgo, la Finlandia, il Belgio contribuiscono maggiormente nelle indennità; invece tra i paesi che contribuiscono in misura inferiore troviamo la Spagna, la Grecia, Il Portogallo.   Ad esempio il valore degli assegni familiari segue una tendenza che cresce fino al 1993 per poi diminuire nel 1994; l'Italia con l'Olanda è tra i paesi che registra quote di spesa più bassa fra i paesi dell'UE. Per la spesa sanitaria si registrano i  valori più bassi dell’area comunitaria europea in Grecia ed in Irlanda mentre le quote più alte sono da imputarsi alla Francia e la Germania; l'Italia che ha evidenziato  valori crescenti dal 1986 al 1994 ha registrato nel 1995 e 1996 una consistente diminuzione.

Il paese che impiega meno risorse economiche per la protezione sociale (in % del PIL) è la Grecia che nell'arco degli anni 1985-1994 non ha mai superato il 16,1%; anche il Portogallo si attesta su valori bassi ma va rilevato che presenta una tendenza alla crescita (nel 1985 il valore  era del 14,1%, nel 1994 è arrivato al 19,5%). L'Italia oscilla intorno a valori del 25%,  mentre la Danimarca e l'Olanda sono i paesi che impiegato le maggiori risorse per la spesa sociale (rispettivamente nel 1994 il 33,7% ed il 32,3%). Si può osservare, però, come l'Italia sia seconda solo all'Olanda come più basso incremento della spesa pro capite per la protezione sociale fra il 1990 e il 1995.

I dati riguardanti gli ultimi anni confermano il fatto che l'Italia risulta essere tra i paesi che destinano quote minori di reddito alla protezione sociale seguita solo dall'Irlanda, la Grecia e il Portogallo.  A conferma della mancanza di una corretta e coerente politica sociale che colloca l’Italia come fanalino di coda rispetto a paesi come Francia, Germania, Regno Unito per non parlare dei paesi del Nord Europa, basta considerare che nel nostro Paese le tre maggiori voci della sicurezza sociale, la previdenza (pensioni), l'assistenza (famiglia, lavoro, servizi sociali) e la sanità (ospedali, assistenza sanitaria) hanno rappresentato nel 1997 il 24% del PIL (valori a prezzi correnti); valore che risulta essere in termini assoluti il più basso almeno dal 1990 ad oggi e che evidenzia la tendenza alla forte compressione.

La nuova fase dell'economia di ristrutturazione capitalistica che stiamo vivendo in Italia, con i processi di globalizzazione e di sviluppo esasperato dei mercati finanziari  che incidono fortemente sugli assetti produttivi e occupazionali ha visto anche una drastica riduzione delle forme di Welfare, come ad esempio la riforma del sistema assistenziale che ha accentuato le differenze tra classi sociali. Ricordando che per assistenza si intendono tutti gli istituti che tutelano il diritto dei cittadini all’abitazione, alla maternità e alla famiglia e che hanno la funzione di sostegno dei redditi e della disoccupazione è interessante notare che l’Italia risulta essere uno dei paesi (con il Portogallo, la Spagna e la Grecia)  in cui la spesa assistenziale è  tra le più ridotte tra i paesi europei.

La Tab.3  seguente conferma che l'Italia negli anni 1985- 1994 oltre ad aver ridotto ancora di più la spesa destinata alla assistenza (che già risultava estremamente bassa), non ha modificato sostanzialmente la sua composizione, e dopo tale data la situazione è ulteriormente peggiorata.

 Tab. 3. Spesa sociale per assistenza

 

 

 

1985

 

 

 

 

1994

 

 

 

Abitaz.

Disocc.

Famigl.

Matern.

Totale

Abitaz.

Disocc.

Famigl.

Matern.

Totale

Belgio

0.00

57.71

39.84

2.45

100.00

0.00

57.64

38.40

3.97

100.00

Danimarca

6.47

55.46

32.49

5.59

100.00

7.99

54.45

32.47

5.10

100.00

Germania

5.08

42.45

47.37

5.10

100.00

3.93

52.54

39.47

4.05

100.00

Grecia

22.15

34.71

32.68

10.47

100.00

14.68

58.67

15.00

11.64

100.00

Spagna

0.44

87.45

6.79

5.31

100.00

1.70

89.78

4.10

4.42

100.00

Francia

13.26

30.35

47.92

8.47

100.00

15.13

38.86

39.25

6.76

100.00

Irlanda

13.61

49.51

30.11

6.77

100.00

9.60

51.30

32.87

6.24

100.00

Italia

0.38

36.84

55.87

6.90

100.00

0.21

41.30

51.20

7.28

100.00

Lussembur.

1.08

11.97

73.26

13.69

100.00

1.04

14.07

75.92

8.97

100.00

Olanda

5.79

57.21

35.35

1.64

100.00

6.21

61.90

28.62

3.27

100.00

Portogallo

0.08

25.88

64.02

10.02

100.00

0.15

52.64

40.17

7.04

100.00

Regno Unito

20.19

38.57

36.77

4.47

100.00

27.31

28.24

39.58

4.86

100.00

 

A ciò si aggiunge che, a differenza di altri paesi dell'Unione Europea, in Italia non è previsto alcun sistema di sostegno diretto alla disoccupazione e all’inserimento al lavoro (reddito sociale garantito) per chi non ha lavoro e vive in condizioni di estrema povertà, non potendo essere annoverato tra queste forme di sussidio il cosiddetto Minimo vitale attualmente in via di sperimentazione.

I risultati di un'inchiesta svolta tra i paesi dell'UE dalla OECD Employment Outlook nel 1996, rilevano che in Italia (includendo la Cassa Integrazione Guadagni e il prepensionamento) circa l'80% dei disoccupati non riceve alcuna forma di sussidio economico. E' interessante osservare che la Spagna, paese con il maggiore tasso di disoccupazione all'interno dell’Unione Europea, presenta sussidi alla disoccupazione complessivamente tre volte superiori a quelli del nostro Paese. Si rileva in Italia, in sostanza, la totale mancanza di assistenza finale oltre il primo intervento per la perdita del lavoro (ed anche per questo primo intervento i tassi medi di copertura sono molto bassi e non omogenei tra i vari settori).

Nel 1996 gli interventi sul mercato del lavoro hanno rappresentato per il nostro Paese l'1,8% circa del PIL, a fronte del 3,8% della Germania, del 3,3% della Francia, del 3,6% della Spagna e del 2,2% del Regno Unito. Sempre in Italia nel 1997 si sono ridotte le spese per gli ammortizzatori sociali : rispettivamente del 4,6% per l'indennità ordinaria di disoccupazione e del 2,5% per la Cassa Integrazione Guadagni. Anche per quanto riguarda gli oneri sociali si è accentuata in questi ultimi anni la quota a carico dei lavoratori per il finanziamento della sicurezza sociale.

Tab.4 Prestazioni di protezione sociale per disoccupazione e promozione dell’occupazione

in % del totale delle prestazioni.

 

1985

1994

Variazione

BELGIO

13,3

11

- 2,3

DANIMARCA

15,3

15,3

-

GERMANIA

6,3

9,2

+ 2,9

GRECIA

2,4

2,7

+ 0,3

SPAGNA

19,1

18,1

- 1

FRANCIA

6

8,1

+ 2,1

IRLANDA

16

17,2

+ 1,2

ITALIA

3,4

2,5

- 0,9

LUSSEMB.GO

1,3

2,3

+ 1

OLANDA

11,6

10,4

- 1,2

PORTOGALLO

2,6

5,8

+ 3,2

REGNO UNITO

10,8

5,8

- 5

  

Nella Tab.4 sono rappresentati rispetto al totale delle prestazioni gli andamenti dell'ammontare delle prestazioni sociali a favore dei disoccupati che evidenziano differenze sostanziali tra i  vari paesi. Ad esempio in Italia, in Belgio e nel Regno Unito si è avuta nel periodo 1985-1994 una diminuzione elevata di tali spese sociali, in altri paesi come la Francia, il Portogallo e la Germania si registra una tendenza all'aumento. Se poi ci si sofferma ad analizzare la spesa a favore dei disoccupati e la spesa per gli incentivi all’occupazione (sempre in termini di percentuale del PIL) ci si accorge che l'Italia, in particolare in questi ultimi anni, risulta essere uno dei paesi che ha speso meno per le prestazioni sociali a favore dei disoccupati, anche se il tasso di disoccupazione è stato superiore alla media europea. 

Per quanto riguarda il problema disoccupazione l’Italia ha scelto la strada, già dal 1991, di aumentare la contribuzione alle imprese a CIG e solo in parte i sussidi di disoccupazione; ha operato delle restrizioni all’utilizzo della cassa integrazione straordinaria, delle indennità di inabilità e dei prepensionamenti.

Inoltre, in tale ottica orientata a favorire le politiche di flessibilità e privatizzazione del Welfare è stato introdotto il lavoro interinale ed è stato privatizzato il collocamento (dal 1997), si è operato per il decentramento e privatizzazione dei servizi per l’impiego a livello regionale e provinciale dal 1997; sono state proposte delle riforme dei LSU ma ancora tutte orientate a forme di istituzionalizzazione del precariato e del lavoro nero, con incentivi alle imprese e nessuna garanzia per i lavoratori. Si tratta di 140.000 lavoratori dai 30 ai 50 anni, la stragrande maggioranza dei quali con pochi anni di contributi versati, con basso livello di scolarizzazione, espulsi dal ciclo produttivo, o giovani provenienti direttamente dalle liste di disoccupazione, che pur supplendo da anni alle carenze d’organico della Pubblica Amministrazione, percependo neppure 800.000 lire al mese, non hanno neppure il riconoscimento del posto di lavoro. E il Governo D’Alema invece di disdire questa vera e propria istituzionalizzazione del lavoro nero assumendo a pieno salario e pieni diritti i LSU nel pubblico impiego, d’accordo con Confindustria e sindacati confederali, prepara lo “svuotamento” del bacino LSU, non dando loro alcuna collocazione stabile sul mercato del lavoro, anzi regalando 18 milioni di incentivi alle imprese per ciascun LSU assunto con contratto a tempo determinato, anche per pochi mesi, passando per le angherie del moderno caporalato delle agenzie del lavoro interinale.

 

4. L'abbattimento dello Stato sociale in Italia: il Profit State si impone attraverso il Welfare dei miserabili

L’esperienza di Stato sociale in Italia è stata opera di un ceto politico dirigente di estrazione medio-borghese che ha determinato la forma assistenzialistica e la degenerazione dei meccanismi dell’inclusione gestiti attraverso il clientelismo per controllare il conflitto di classe. Mentre si cerca di soffocare il conflitto fra lavoro e capitale consentendo  attraverso il Profit State una rappresentazione sociale dell’impresa, la pratica della solidarietà, ispirata e diretta dallo Stato sociale fordista, si svuota progressivamente di ogni significato a mano a mano che l’ideologia e l’attuazione della privatizzazione generalizzata distrugge gli strumenti di potere economico e di legittimizzazione morale che avevano consentito il compromesso sociale con la spesa pubblica.

La crisi odierna del Welfare State è legata ad una realtà in cambiamento nel ruolo dello Stato, giacché la straordinaria fase di trasformazione che sta vivendo l’economia da industriale a post-industriale reclama una maggiore flessibilità del mercato del lavoro, rendendo inadeguata la forma-Stato legata al ciclo fordista. Cambiando anche il ruolo e  le figure tipiche del lavoratore industriale di massa, per cui è prevista una intermittente permanenza nel mercato del lavoro con scarsissime prospettive di mantenere il "posto a tempo indeterminato", si determinano e si aggiungono nuovi e  gravi problemi a quelli che già caratterizzavano il sistema di protezione sociale tradizionale. Nel caso italiano, non è più compatibile neppure la torsione “clientelare-assistenziale” che era stata impressa allo Stato sociale nazionale, a causa del suo particolarismo categoriale. La crescita delle prestazioni era avvenuta in Italia attraverso una contrattazione politica e corporativa che ha visto confrontarsi, da un lato, le singole categorie preoccupate di migliorare la propria condizione senza riguardo per le altre, dall’altro i partiti politici intenzionati ad incrementare il proprio consenso sociale, dando luogo ad un sistema di assistenza di fatto corporativo, clientelare e disegualitario.

L'accumulazione flessibile tende sempre più a manifestarsi anche come fine progressiva e reale riduzione dei vantaggi assicurati dal Welfare, ma soprattutto, come progressivo impoverimento dei ceti tradizionali protetti, a partire dall’intera area del pubblico impiego, dei quadri intermedi del terziario, degli artigiani e piccoli commercianti ovvero di quei ceti professionali la cui identità e sicurezza veniva assicurata dalla presenza e da una determinata gestione più o meno garantita dalla protezione sociale e dei servizi pubblici.

Lo Stato nella sua funzione di garante della sicurezza sociale (nel campo della sanità, dell’istruzione, della previdenza e assistenza, nella tutela delle fasce più deboli della popolazione) necessita oltre che di un equilibrato sviluppo economico anche di alti livelli di occupazione e di un ponderato prelievo fiscale.  Con l’inizio degli anni ’90 si accentuano nel nostro Paese scelte verso forme di capitalismo con connotati di vero e proprio darwinismo sociale. Tale decisione, che impone il definitivo passaggio dal capitalismo italiano, fondato su un modello di economia mista, a forme neoliberiste, da capitalismo selvaggio, basate su ipotesi economiche monetariste, è dovuta ad una scelta europeista acritica del potere politico, economico e finanziario del nostro Paese che accetta, si sottomette ed anzi si fa promotore delle compatibilità monetariste dell’Europa di Maastricht, l’Europa voluta e imposta dai grandi capitali finanziari.

I governi di matrice di centro-sinistra  stanno definitivamente smantellando ciò che rimaneva dello Stato sociale e delle conquiste prodotte dalle lotte sindacali degli anni Sessanta e Settanta, le quali avevano garantito migliori livelli di vita per tutti. Il perché della crisi strutturale del Welfare State risiede  nel fatto che gli schemi di protezione dai rischi sociali (disoccupazione, vecchiaia, invalidità, ecc.) sono entrati in contraddizione con lo sviluppo del bisogno di controllo sociale prodotto dalla sottomissione completa alla cultura d'impresa del Profit State. L’impianto delle proposte politico-economiche si incentra, allora, con sfumature diverse, su politiche di tagli alla spesa pubblica, su incentivi e trasferimenti sempre più cospicui alle grandi imprese, su riforme istituzionali e costituzionali di stampo presidenzialista e sempre più autoritario, di soffocamento delle minoranze e delle diverse incompatibilità, mettendo persino in discussione il diritto di sciopero, ostacolando addirittura anche diritti democratici elementari come la legge sulle Rappresentanze Sindacali Unitarie.

È evidente che la crisi dello Stato sociale e la determinazione dei modi di presentarsi del conflitto sociale devono essere assunte come questioni centrali per riflettere sulla crisi dell’idea di sviluppo e per elaborare una prospettiva di cambiamento radicale del modello di sviluppo. Bisogna, infatti, capire che la riforma del Welfare è semplicemente il modo di essere istituzionale nell'assecondare i nuovi processi di accumulazione flessibile; è il Profit State che cerca di confrontarsi con le nuove strategie di inclusione e di esclusione espresse dalla globalizzazione del mondo di produzione capitalistico e del mercato. L’affermazione delle culture e dei nuovi orizzonti finanziari, che hanno segnato la metamorfosi dei sistemi economici e sociali del mondo capitalistico, ha prodotto profonde trasformazioni nell’immaginario collettivo derivanti dall'imposizione nella cultura sociale delle idee-forza nate sul terreno più propriamente economico produttivo del nuovo ciclo post-fordista, istituendo l’immagine dominante del  mercato globale e della singolarità senza legami sociali, senza la solidarietà di classe.

Nascono in realtà delle nuove “soluzioni compatibili” con il nuovo ciclo post-fordista dell'accumulazione flessibile. Secondo tale impostazione si lanciano messaggi sulla fine del lavoro per giustificare il fatto che il nuovo modello di accumulazione flessibile vuole sviluppo accompagnato da disoccupazione strutturale, e si sentono così assurdi discorsi contro modelli basati sull'occupazione a tempo indeterminato, contro modelli di piena occupazione ai quali si ipotizza che si possa spontaneamente ritornare grazie  alla continua diminuzione della popolazione attiva. Un bel modo per giustificare l'attuale sottoccupazione e precarizzazione del lavoro. Gli stessi principi vengono utilizzati per  ridimensionare il Welfare, utilizzando a tal fine dei veri e propri "accrocchi sui dati ufficiali" (ufficialmente chiamati livellamento delle cifre) per dimostrare ad esempio la bassa crescita dell'inflazione, o per esempio per scoprire che disoccupazione sta diminuendo (e questo solo perché con l'innalzamento dell'obbligo scolastico a 15 anni, i quindicenni non saranno più considerati disoccupati, oppure perché con una popolazione che invecchia diminuisce il peso dei giovani che sono coloro che hanno il tasso di disoccupazione più alto), fino ad arrivare ai “regali statistici” al Governo D'Alema relativi al calcolo sui 500.000 posti di lavoro in più di cui  lo stesso "Sole 24 ore" ci dice che oltre 200.000 sono posti virtuali semplicemente dovuti alle  modifiche delle modalità di calcolo. I tanto decantati nuovi posti, i 500.000 incrementi occupazionali di D'Alema, che imitando Berlusconi ce ne promette un milione per fine legislatura, sono poco più di 300.000, quasi tutti lavori atipici, area del lavoro nero, a tempo determinato, interinali, intermittenti, LSU, part-time; e non viene detto quanta espulsione di lavoro a tempo pieno e indeterminato (il"posto fisso"  tanto odiato dal Governo) si sia nel contempo realizzato. E quel lievissimo decremento nel tasso di disoccupazione non si dice che è evidenziato attraverso gli "aggiustamenti" nelle modalità di rilevazione da parte dell'ISTAT, veri e propri "giochetti" sui dati per favorire l'immagine della politica economica del Governo.

E’ in questo contesto di “soluzioni compatibili” che si configurano gli attacchi allo Stato sociale anche nel nostro Paese, in una rincorsa all’individualismo utilitarista anglosassone, a quel modello di capitalismo selvaggio e alle politiche monetariste diventate ormai ideologia egemone. Si vanno in questo modo disarticolando e travolgendo anche gli stessi principi di civiltà come quelli di tolleranza e di solidarietà tra gruppi diversi e tra generazioni diverse, principi guida in un Paese come il nostro in cui significativo e fondamentale è stato, sul piano del condizionamento delle scelte di politica economica e sul piano culturale, il contributo delle tradizioni e della forza del movimento di opposizione di classe e operaio.

La politica economica neo-liberista portata avanti dai governi di centro-sinistra ha realizzato nel nostro Paese un quadro macroeconomico che evidenzia tendenze recessive, contrazione e precarizzazione dell’occupazione, diminuzione dei salari reali, diminuzione dell’inflazione dovuta soprattutto al forte calo della domanda, all’aumento delle fasce di povertà e dei tassi di disoccupazione. La risposta alle tragiche conseguenze della globalizzazione capitalistica non è indirizzata al mantenimento dei principi solidaristici e all’attuazione di serie politiche indirizzate  a delle congrue prestazioni sociali ma alla creazione di un impianto incentrato  su politiche di tagli del Welfare che vanno a colpire sempre più gli strati più disagiati della popolazione. Per raggiungere questo scopo si è impostata una politica di risparmi in settori fondamentali quali la previdenza e la sanità, utilizzando come  obiettivi prioritari la mobilità, la flessibilità del lavoro, le privatizzazioni e i tagli indiscriminati alla spesa sociale, la stessa privatizzazione del Welfare.

Sono diversi i metodi con i quali è possibile attuare la cosiddetta privatizzazione del Welfare; si pensi in primo luogo alla vendita di beni di proprietà pubblica (le imprese e le abitazioni di edilizia popolare); ed ancora la cessione ad organismi privati della fornitura dei servizi essenziali anche attraverso la possibilità di rimpiazzare il servizio pubblico con quello privato (ad esempio le pensioni sociali sostituite dalle forme assicurative private). E' prevista in pratica una riforma di tutti gli strumenti delle politiche del lavoro (con l'introduzione di lavori atipici, interinali, flessibili e di contratti di solidarietà, una riqualificazione della formazione professionale e una riorganizzazione in chiave ancora più precarizzata dei lavori socialmente utili, una riorganizzazione degli uffici di collocamento a livello locale); si discute da tempo, inoltre, una ristrutturazione del settore assistenziale, attraverso un sistema di protezione sociale tendente alla valorizzazione del volontariato e del settore no profit e di soccorso ai soli “miserabili”. L’irrigidimento dei criteri di ammissibilità ai servizi,  significano ristretti margini di fruizione per costringere il cittadino a trovare forme di sostegno nel settore privato.

Sindacati confederali, imprenditori e Governo propongono in continuazione messaggi apocalittici sull’abbattimento della spesa sociale poiché questa non è più finanziabile a causa della tendenza demografica ad un invecchiamento della popolazione, e quindi della conseguente elevata incidenza della spesa pensionistica e sanitaria.

Le proposte  consociative di abbattimento dello Stato sociale sono basate sulla personalizzazione, o meglio “familiarizzazione” e privatizzazione del sistema di protezione sociale, in particolare sul passaggio  al mercato della sanità e della previdenza, perché è la centralità d’impresa e del mercato che deve ormai contagiare l'intero tessuto sociale. In tal senso, ad esempio, fingendo di introdurre sussidi alla disoccupazione, si è impostata una politica di risparmi in settori fondamentali quali la previdenza e la sanità, utilizzando come  obiettivi prioritari la mobilità, la flessibilità del lavoro, le privatizzazioni e i tagli indiscriminati alla spesa sociale. In questo modo si riducono i sussidi dei servizi sociali e sanitari attraverso un aumento dei ticket o comunque attraverso l’attuazione di normative che propongono una sanità sempre meno pubblica e più privata, con l’introduzione di forme di assicurazione sanitaria integrativa, con nuove regole di accesso al mercato della distribuzione dei farmaci o ancora con la gestione privata, inizialmente in via sperimentale, di alcuni ospedali molto grandi e con la riduzione delle esenzioni. Le principali misure previste nel settore della sanità sono chiaramente ispirate al criterio della privatizzazione; si propone sostanzialmente una sanità sempre meno pubblica e più privata.

Anche per quanto riguarda il sistema pensionistico la constatazione di una “forte prevalenza di anziani”  nel nostro Paese porta alla personalizzazione e privatizzazione del sistema di protezione sociale arrivando ad optare per un passaggio al mercato della previdenza. Pertanto dal coro consociativo si ascoltano messaggi univoci che parlano di una quota sproporzionata della spesa previdenziale rispetto agli altri paesi europei,  con lo scopo di distruggere le pensioni di anzianità, allungando la vita di lavoro  secondo i principi  di flessibilità e compatibilità d’impresa; senza però chiarire che in Italia vengono conteggiati, nella quota destinata alla spesa per pensioni, anche i trattamenti di fine rapporto che negli altri paesi non esistono; inoltre si inserisce nel computo delle pensioni anche quella parte di costo di carattere assistenziale come le integrazioni al minimo e quelle non coperte da contribuzione. Non si dice, inoltre, che nel resto d’Europa oltre il 10% del salario è destinato a fondi pensione a carattere integrativo che in Italia a tutt’oggi hanno uno scarso peso. Tutto ciò porta ad invertire l’ordine del problema, cioè in Italia la spesa per pensioni è largamente inferiore a quella della media europea. Il dibattito sulle pensioni è quindi un dibattito falso che nasconde una vera e propria lotta per l'egemonia nel mercato assicurativo e dei fondi pensione.

La strategia del Governo D'Alema e della CGIL è quella di realizzare un sistema contributivo per tutti allargando enormemente la forbice tra gli ultimi stipendi percepiti dal lavoratore e una pensione sempre più misera che si andrà a percepire. Se si considera che si vuole un mercato del lavoro sempre più flessibile, precario e intermittente,  con quindi sempre più bassi contributi versati, allora si deve dire la verità: adottando il sistema contributivo si otterrà una pensione da miserabili dopo una vita di lavoro con stipendi e redditi da miserabili. Il tutto è in effetti finalizzato al ricorso ai fondi pensione integrativi, realizzando così un'altra verità: per sperare di avere una pensione di vecchiaia più alta bisognerà ridurre i già precari redditi durante la vita lavorativa per sottoscrivere un fondo pensione. Comunque vadano le cose, il reddito calcolato sull'intero arco di vita risulterà fortemente dimensionato.

Non contenti di ciò Governo, imprenditori e sindacati confederali sferrano un duro attacco alle liquidazioni spostando parte del salario differito (TFR) in busta paga con un forte appesantimento fiscale sulle tasche dei lavoratori, tranne che questi ultimi non si dicano immediatamente disponibili a trasferire obbligatoriamente, per non essere penalizzati fiscalmente, questa parte del loro salario nella bolla speculativa finanziaria dei fondi pensione. In tal modo ciò che il capitalismo perde in termini di prestiti forzati da parte dei lavoratori, realizzati con l'accantonamento delle loro liquidazioni, lo stesso capitalismo se lo riprende con gli interessi, avendo a disposizione enorme liquidità, che è salario dei lavoratori, immediatamente disponibile per i processi di finanziarizzazione dell'economia capaci di creare grandi e facili profitti.

Il rafforzamento, quindi, del mercato finanziario, dei facili profitti senza investimenti produttivi, delle rendite finanziarie, avviene non solo sull'attacco al salario diretto, al salario indiretto ma anche al salario differito, sviluppando il grande bluff dei fondi pensione, controbilanciato da un peggioramento delle condizioni di vita di tutti i lavoratori, occupati e non.

Anche l’impostazione globale delle politiche del lavoro è fortemente ispirata dalle logiche contributive ed assicurative che non fanno altro che produrre diminuzione delle tutele, realizzando un lavoro e un salario flessibile, senza norme, a basse garanzie complessive. Un ruolo fondamentale è ormai svolto dalla precarizzazione, del lavoro e delle retribuzioni, e dalla mobilità (sono ormai milioni gli occupati che hanno cambiato settore lavorativo essendo costretti ad accettare spesso forme di flessibilizzazione del salario).

Ciò che domina ormai per la scena economica è l’abbattimento di qualsiasi rigidità di costi e di normative, per favorire l’impresa. A questo proposito l’iniziativa più innovativa che si sta sperimentando in Italia recentemente è quella del reddito minimo di inserimento che ha preso la sua ispirazione, almeno negli intenti, da altre forme di redditi minimi europei. Negli ultimi mesi si sta discutendo dell’opportunità dell’allargamento e superamento della fase sperimentale dell’istituto del minimo vitale , inteso come strumento universalistico a sostegno dei redditi, e, in prospettiva, della completa riorganizzazione del settore.

E' in tale contesto di dibattito sulla riforma del Welfare e sulla determinazione di misure contro la povertà che si inserisce il Decreto legislativo 18 giugno 1998, n. 237. Il minimo vitale o reddito minimo di inserimento è una misura che prevede un sussidio economico integrativo per i non abbienti, ed è una prestazione legata al bisogno ed alla volontà di reinserimento professionale.

Questa proposta si avvicina molto a quelle formulate da varie correnti di pensiero sul reddito incondizionato e universale, visto come “un nuovo diritto di libertà” su cui costruire il nuovo Welfare postfordista, e, ancora molto vaga e da verificare, non può essere considerata come un tentativo reale per rafforzare lo Stato sociale affidandogli un ruolo primario di riequilibrio delle disuguaglianze e delle esclusioni create dal nuovo mercato del lavoro. Ciò, oggi,  può avvenire esclusivamente mediante misure di garanzia reali del reddito. Infatti nella realtà, con il decreto legislativo n.237 del giugno 1998 del Ministro Livia Turco,  i propositi di soccorso al reddito per precari e disoccupati sono quasi inesistenti. L’attuale normativa, di tipo ancora sperimentale,  si basa su un reddito minimo di inserimento destinato a persone esposte al rischio di marginalità sociale, di importo pari a 500 mila lire (per quelli che si trovano al di sotto della linea di povertà); questo viene distribuito in alcune zone particolarmente disagiate, previo accertamenti e verifiche da parte dei Comuni che potrebbero portare alla sospensione dell’erogazione, e in cambio della disponibilità dei beneficiari a svolgere programmi di integrazione sociale.

Tale proposta nelle intenzioni appare formulata con il tentativo di attenuare la trappola della povertà e di risolvere la situazione italiana in termini di spesa sociale, la quale pur avvicinandosi  alla media europea, si presenta passiva rispetto ai fenomeni di esclusione sociale. I microassegni, che verranno distribuiti nelle poche zone disagiate del Sud, non potranno  combattere la corsa al ribasso nelle retribuzioni, alla flessibilità salariale e ridare poteri agli occupati nelle trattative di lavoro, anzi  faranno sì che diventi accettabile qualsiasi offerta di lavoro. In questo senso tale proposta si inserisce in una logica caritatevole e assistenziale, una carità minima garantita che non solo non mette in discussione i meccanismi dell'accumulazione post-fordista attraverso processi redistributivi ma, nei fatti, agevola e asseconda la ristrutturazione del mercato del lavoro basato sempre più su flessibilità, precarizzazione e marginalità ed esclusioni socio-economiche che si allargano sempre più.

Anche la riforma del collocamento è indirizzata a sempre più intensi processi di privatizzazione con la nascita di agenzie specializzate nel nuovo “caporalato” attraverso il lavoro interinale. Il nesso inscindibile tra lavoro e formazione diventa la formazione che si modella sugli interessi delle aziende. La ricerca, la formazione, la scuola, il rafforzamento della conoscenza collettiva sono ormai orientati alla determinazione di un sistema formativo subalterno agli interessi degli industriali, sempre più privatizzato; si veda in tal senso il finanziamento pubblico alle scuole private, l'inserimento nell'Università di corsi che con miseri cofinanziamenti di privati pretendono una formazione ad hoc basata sulle compatibilità d'impresa, differenziando gli accessi degli studenti al mercato del lavoro; tutto ciò ha unito le istituzioni, i docenti, soprattutto quelli di sinistra, molti ex sessantottini,  e quasi tutti i partiti in un coro osannante di una superiore e omologata formazione privatistica.

Anche per l’assistenza le scelte sono finalizzate al trasferimento della spesa per sanità e previdenza alla spesa più propriamente di natura assistenziale. Nascono così proposte di un selezionato nuovo assistenzialismo clientelare a carattere caritatevole indirizzato ai nuovi miserabili alla parte più marginale della società. Si propongono forme di accesso ad alcuni servizi sociali in base a processi individuali che favoriscono la connessione e la ricomposizione istituzionale e compatibile delle forme di dissenso sociale. E’ questo il vero significato di proposte che sollecitano lo sviluppo di un sistema fondato sulla carità minima garantita agli esclusi.

Proposte finalizzate al controllo delle fasce più deboli della società, rendendole ricattabili e condizionate  dal potere, innescando senza dubbio fattori che favoriscono la conflittualità orizzontale fra le varie componenti sociali, ostacolando la ricomposizione di classe, favorendo invece la nascita di veri e propri assistiti sociali, funzionali ad un regolamento al ribasso del conflitto sociale e politico. Si realizza così anche un uso strumentale del Terzo Settore finalizzato alle regole dell'efficienza capitalistica con l'utilizzo dell'economia non profit, della cosiddetta economia sociale e dell'autorganizzazione che si sostituisce al ruolo dello Stato sociale, comprimendo e canalizzando i conflitti nell'ottica di uno Stato basato  esclusivamente sulle regole dell'economia del profitto affiancate da elargizioni caritatevoli compatibili con il sistema.

A partire da tale impostazione ne deriva che bisogna prestare particolare attenzione quando, seguendo alcune impostazioni di carattere economico-sociale, e apparentemente solidaristico, il governo, i sindacati confederali, molte associazioni del volontariato cattolico e non, propongono o accettano una diversa e "moderna" visione del Welfare. In tale logica cade, purtroppo, anche chi a sinistra, molto spesso in buona fede partendo da una rivendicazione al diritto alla autorganizzazione sociale e alla flessibilità autoregolamentativa dei propri tempi di lavoro e di vita, propone alcune forme di lavoro minimo garantito, di reddito universale non legato al conflitto capitale-lavoro e ad intaccare i processi di accumulazione capitalistica. Tali proposte di per sé eticamente comprensibili poiché basate sui concetti di libertà civile  di ogni individuo all'esistenza, al diritto al lavoro e alla cittadinanza, non tengono però conto dell'attuale nuovo carattere dell'accumulazione capitalistica, proprio in cerca di forme "minime" di lavoro sempre più flessibile e a tempo determinato, non tengono conto del carattere di per sé già sociale del salario, ed entrano così di fatto nella logica dell'assistenzialismo, di carità garantita. Si tratta di proposte incentrate su un'autonomia soggettiva che, lungi dal liberare dalla coercizione delle logiche del mercato capitalistico del lavoro, cadono in rapporti subordinati di scambio che svuotano, delegittimano e ostacolano la riproposizione del conflitto di classe incentrato sulla battaglia per il superamento dell'organizzazione capitalistica basata sullo sfruttamento del lavoro, sia esso lavoro diretto nelle varie forme, sia esso lavoro anticipato che si trasforma in macchine ed innovazione tecnologica che determina nuovo sfruttamento. E’ per questo che, invece, il Reddito Sociale Minimo proposto dal CESTES, dall’Unione Popolare, dall’Associazione Progetto Diritti e da tantissime altre sigle dell’associazionismo di base, pone nella sua formulazione la centralità del conflitto capitale-lavoro, la socializzazione degli incrementi di produttività, la tassazione dei capitali, il tutto in modo da intaccare da subito i meccanismi di accumulazione capitalistica.

Anche la stessa ultima legge finanziaria del 2000 rispecchia la consueta filosofia di attacco alle condizioni di vita dei lavoratori nonostante sia stata presentata come "la finanziaria di sinistra per lo sviluppo e senza lacrime". Si tratta invece di una finanziaria che potenzia i percorsi di flessibilizzazione del lavoro imponendo nuovi tagli sul Welfare per centrare l'impegno assunto con l'Unione Europea di far scendere nel 2000 all'1,5% il rapporto fra deficit e PIL e al 112,9% il rapporto fra debito e PIL.

Evidenziamo anche qui delle palesi falsità: a) l'abbassamento dello scaglione IRPEF dal 27 al 26% comporterà circa 10.000 miliardi di tagli delle tasse, ma a partire dal 2000 a metà tra lavoratori e sgravi alle imprese; senza considerare che  il primo scaglione IRPEF, cioè quello fino a 15 milioni di reddito lordo risulta di fatto penalizzato ed inoltre i redditi da capitale continuano a pagare le stesse aliquote IRPEF, cioè del 12,5% fino ad un massimo del 19% e saranno beneficiati anche dal dimezzamento dell'IVA sulle costruzioni  edilizie, di altri sgravi sul settore edilizio, continuando la logica della "rottamazione", questa volta per favorire le imprese edili. Va inoltre considerato che per le imprese ci sono a disposizione altri 1000 miliardi per incrementare i fondi destinati alla superDit, continuando così a diminuire il peso fiscale delle imprese; b) dei 15.000 miliardi della manovra, 4.000 verranno realizzati come proventi dalla  vendita del patrimonio immobiliare dello Stato, dismissioni che saranno gestite direttamente dal Ministero del Tesoro e che potranno provocare gravi problemi a quegli affittuari a reddito basso che non saranno in grado di riscattare l'immobile nel quale vivono; c) gran parte dei 15.000 miliardi di tagli è concentrato sulla spesa corrente della Pubblica Amministrazione,  grandi risparmi sono previsti per gli acquisti di beni e servizi, e diminuiscono ancora i trasferimenti agli enti locali territoriali, il che significa minore quantità e qualità dei servizi pubblici per i cittadini. Ma i tagli maggiori riguardano ancora una volta la riduzione del personale della Pubblica Amministrazione, infatti nel 2000 questi dovranno essere almeno l'1% in meno rispetto a quelli in servizio al 31 dicembre 1997; a questo si aggiunga il blocco delle assunzioni e la mancanza di risorse sufficienti per gli aumenti pattuiti nei contratti del pubblico impiego, con un vero e proprio sostanziale blocco della contrattazione integrativa; e l'ultima ciliegina: dopo l'istituzionalizzazione del precariato nella Pubblica Amministrazione attraverso i LSU, con questa finanziaria si giunge a istituzionalizzare il lavoro interinale nella Pubblica Amministrazione accompagnato da un massiccio ricorso ai contratti a tempo parziale e a tipologie contrattuali flessibili; d) nella corsa al risanamento, o meglio dire all'abbattimento del Welfare, c'è anche il capitolo che riguarda le pensioni con la soppressione del fondo degli elettrici, il cui disavanzo dovrà essere ripianato dalle stesse società elettriche, e le società telefoniche si dovranno far carico del risanamento dei loro fondi pensione, così come sarà soppresso anche il fondo dei ferrovieri; tutto ciò se significherà problemi e decurtazioni sulle pensioni dei lavoratori allo stesso tempo però si tramuta in riduzione dei  contributi a carico delle imprese per assegni familiari e per la maternità per controbilanciare l'impegno delle imprese elettriche e telefoniche; anche in questo capitolo di spesa l'elemento di "sinistra" della manovra sarebbe rappresentato dal cosiddetto “contributo di solidarietà” del 2% da far pesare sulle pensioni d'oro, per l'eccedente di 142 milioni; si ricorda che la pensione minima continua a essere intorno agli 11 milioni di lire l'anno e che invece il contributo di solidarietà, della durata di solo tre anni, non colpisce i vitalizi, come quelli dei parlamentari o quelli erogati dalle casse professionali che non sono considerate pensioni; se si escludono tali vitalizi allora questo 2% di solidarietà da destinare all'incremento del fondo pensioni dei lavoratori atipici peserà mediamente solo per qualche decina di migliaia lire al mese sui "fortunati e nobili" interessati; e) e per i " miserabili" che risorse del Welfare rimangono? E' previsto che l'assegno di maternità per chi non ha garanzie previdenziali, cioè per chi vive in condizioni di vera e propria miseria, salga da 1 a 3 milioni di lire ma nel contempo le imprese avranno un alleggerimento del costo del lavoro del 2% proprio grazie alla fiscalizzazione di alcuni contributi di maternità. Infine, per l'occupazione sono previsti stanziamenti per 5.800 miliardi nel triennio, di cui 200 miliardi per i senza lavoro di Napoli e Palermo da destinarsi a forme caritatevoli di soccorso, appunto per miserabili, senza dar loro alcuna prospettiva di continuità nel rapporto di lavoro; 800 miliardi sono stanziati su un fondo unico per l'occupazione, che significa incremento dei contratti atipici e a tempo determinato volti a favorire la formazione di impresa con forti sgravi contributivi; altri 800 miliardi saranno destinati alla riforma degli ammortizzatori sociali che avverrà sempre in chiave di un'alimentazione di  quelle politiche attive funzionali alla flessibilità voluta dagli imprenditori; gli altri 4.000 miliardi arriveranno in forma indiretta ancora una volta alle imprese in quanto saranno destinati al cofinanziamento dei fondi comunitari già determinati come premio alle imprese.

Altro che manovra di "sinistra", si profila un orizzonte sempre più "sinistro" per i lavoratori, per le classi meno abbienti che vedranno sempre più tagliare il loro salario diretto e indiretto senza alcuna politica seria per l'occupazione, senza alcuna redistribuzione dei redditi a carico del capitale, con sempre più forti incentivi e sgravi alle imprese che si controbilanciano con la mancanza o l'intermittenza di redditi per le tasche della maggior parte dei cittadini, decurtati anche  di quel salario indiretto spendibile attraverso un Welfare che garantiva universalismo dei diritti e che invece si trasforma in un sempre più meschino “Welfare dei miserabili”.

In ultima analisi  siamo in presenza di parametri di efficienza e di efficacia competitiva del mercato, tipici indicatori della gestione d’impresa, che dovranno determinare le dinamiche evolutive dello Stato sociale. E’ la cultura d’impresa, è la moralità del liberismo, è la logica del profitto e del mercato che deve essere caricata sulle già deboli spalle degli ammalati, degli anziani, dei disoccupati, dei sottoccupati, dei precari, di tutti gli strati emarginati della società.

Si tratta cioè di un Profit State che assume in sé l' "onere" di un Welfare dei miserabili, abbandonando del tutto il dovere di protezione sociale per tutti i cittadini, abbattendo ogni forma di universalismo dei diritti.

Si incrementano così le vere e proprie forme di povertà ed emarginazione assoluta, la miseria di un sempre crescente numero di persone che non riescono ad accedere neppure ai livelli minimi di sopravvivenza, ad indispensabili cure mediche e ospedaliere, ad una pur minima dignitosa qualità complessiva della vita. Ecco cos’è il “Welfare dei miserabili”, degli esclusi, il passaggio dall’universalismo dei diritti alle garanzie caritatevoli per i miserabili.

5. Un Welfare della socializzazione della ricchezza per un modello di sviluppo delle socio-compatibilità solidali

 Si sviluppa nel modo visto in precedenza un sistema economico nel quale la spesa pubblica non è indirizzata ad un reale rafforzamento infrastrutturale del Paese e ad una efficiente produzione di servizi pubblici, anzi si realizza una società con maggiori differenziazioni sociali, in cui è sempre più ridotto il sistema di protezione sociale a favore delle fasce di cittadini più deboli, fasce che diventano sempre più grandi andando a comprendere anche quegli strati di società che fino a pochi anni fa erano considerate protette (lavoratori del pubblico impiego,  artigiani e commercianti), creando quindi nuove povertà, nuovi bisogni, ampliando in sostanza l’area dell’emarginazione sociale complessiva, accrescendo, appunto, i “miserabili”, che non essendo riconosciuti in quanto tali, solo perché, ad esempio, possono vantare un piccolo reddito da lavoro precario e intermittente, non avranno neppure riconosciuti i diritti minimi di cittadinanza.

E', invece, possibile voltare pagina definitivamente nelle scelte di politica economica e di politica industriale, perché le innovazioni tecnologiche permettono una più alta produttività di impresa che deriva esclusivamente dall’incremento di produttività del lavoro. Incrementi di produttività  che sono quindi ricchezza sociale nel suo complesso, e perciò tali incrementi di produttività devono essere finalizzati al miglioramento della qualità del lavoro, della qualità della vita, a partire dalla riduzione dell’orario di lavoro, alla redistribuzione degli aumenti di  produttività al fattore lavoro, e quindi ai disoccupati, e non solo ai profitti come è avvenuto in particolare in questi ultimi venti anni.

La società del terziario avanzato crea nuovi bisogni, ma con l’attuale modello di sviluppo crea nel contempo nuove esclusioni. Diventa allora strategico porre al centro del dibattito una progettualità complessiva per un diverso modello di sviluppo, solidale socio-ecocompatibile, in cui strategiche siano le compatibilità ambientali, la qualità della vita, il soddisfacimento dei nuovi bisogni, la centralità del lavoro e la valorizzazione del tempo liberato, la redistribuzione del reddito, del valore e la socializzazione dell’accumulazione, della ricchezza complessivamente prodotta.

Non si tratta, quindi, di riproporre semplici forme di intervento esclusivamente sul fronte della distribuzione del reddito ma rientrare con nuovi strumenti nel conflitto capitale-lavoro, che di fatto è più duro e diversificato di un tempo, a partire dalle nuove soggettualità del conflitto sociale riorganizzando l’unità di interessi del mondo del lavoro , la solidarietà e la forza che negli anni ’60 e ’70 la classe operaia si era data a partire dall’organizzazione in fabbrica. Per far ciò bisogna saper coniugare un forte, rinnovato e antagonista sindacalismo del lavoro ad un nuovo, e altrettanto antagonista, sindacalismo del territorio che rivendichi la redistribuzione sociale della ricchezza incidendo profondamente sui processi di accumulazione capitalistica,  a partire da una diversa politica fiscale redistributiva che finalmente colpisca e non favorisca in maniera indiscriminata il fattore capitale.

In questi ultimi venti anni il rallentamento dello sviluppo economico che ha causato una elevata crescita dei livelli di disoccupazione, ha fatto sì che si sia incrementato a dismisura il livello della pressione fiscale. Le conseguenze di questo incremento sono state avvertite soprattutto dai lavoratori in quanto non è stato possibile o non si è voluto cercare di aumentare il prelievo fiscale sul capitale, adducendo il fatto che i capitali sono sempre più mobili e convergono verso paesi nei quali il costo del lavoro è molto basso. Il sistema fiscale italiano insiste nell'assoluta persistenza di protezione dell'evasione e dell'elusione e di continui e massicci trasferimenti, agevolazioni ed incentivi alle imprese. Si consideri che negli ultimi anni mediamente oltre i due terzi delle società` di capitale denunciano un IRPEG negativa, e più del 25% dimostrano di realizzare un reddito imponibile al di sotto dei 20 milioni; senza considerare che la stragrande maggioranza dei lavoratori autonomi denunciano redditi inferiori ai loro dipendenti; l’evasione fiscale e contributiva tocca ormai i 350.000 miliardi annui. All'opposto invece i lavoratori dipendenti, i pensionati e i redditi da famiglia in genere sono giunti a carichi contributivi ormai insostenibili. Ed allora bisogna trovare politiche, sistemi di controllo in grado effettivamente di snidare i grandi evasori fiscali, con un profitto e una rendita che non siano di fatto esentati dalla contribuzione;  invertendo così la tendenza che vede ormai dal 1970 la quota dei trasferimenti di reddito allo Stato sempre più aumentare a scapito delle famiglie e a vantaggio delle imprese.

Va allora posta come perno centrale delle politiche economiche una lotta seria all'evasione ed elusione fiscale in modo da ampliare le possibilità di intervento dello Stato sociale, abbandonando le politiche monetariste restrittive, le politiche neo-liberiste dei tagli alla spesa sociale, della mobilita e flessibilità, di un sistema dei diritti che si trasforma in benevola carità cristiana, ma piuttosto realizzando una incisiva politica delle entrate che finalmente punti ad una vera riduzione dell'evasione fiscale ed una seria tassazione dei capitali.

Le risorse finanziarie ci sono e sono disponibili per il rafforzamento di un Welfare State non più e non solo della semplice cittadinanza, ma di uno Stato Sociale  che, oltre a redistribuire reddito, socializzi l’accumulazione del capitale, distribuisca cioè ricchezza derivante da incrementi di produttività che sono andati ad esclusivo vantaggio del capitale e non del lavoro; allora tali risorse finanziarie devono essere prelevate attraverso una seria e decisa tassazione dei capitali nelle sue diverse forme: tassazione organica ed uniforme dei capital gains, dei capitali finanziari e speculativi, degli investimenti diretti esteri, delle transazioni all'estero dei capitali finanziari. E’ soltanto per questo che abbiamo aderito, e siamo stati tra i primi promotori di una campagna di iniziativa politico-economica internazionale e di civilità che realizzi la cosiddetta Tobin Tax, oggi condivisa strumentalmente anche da alcuni governi conservatori.

Tassare finalmente nei modi diversi suddetti il capitale, fino a giungere anche alla tassazione dell’innovazione tecnologica, caricando gli stessi oneri gravanti sulla forza lavoro che va  a sostituire, effettuare degli appropriati controlli attraverso un’anagrafe patrimoniale ed una efficiente anagrafe tributaria, significa far riappropriare i ceti meno abbienti della popolazione, i lavoratori, composti da occupati e non occupati, di quella ricchezza sociale da loro stessi prodotta e realizzata e che si è sostanziata nel tempo in quegli incrementi di produttività che sono andati fino ad oggi ad esclusivo vantaggio del capitale.

Non si riesce a capire che, anche in un'ottica riformista  e assolutamente minimale, i nuovi indirizzi di politica economica devono essere assolutamente finalizzati alla lotta alla disoccupazione strutturale creando nuove possibilità di lavoro ad utilità sociale e collettiva, realizzando produzioni non necessariamente mercantili, allargando le possibilità del lavoro femminile, del lavoro agli immigrati, del lavoro ai giovani; di mettere in atto una seria politica di riduzione generalizzata, sia in senso settoriale sia in senso terrioriale, dell’orario di lavoro a parità di salario, che riguardi anche fortemente il terziario pubblico e privato, le piccole e micro imprese, di riconoscere il “Reddito Sociale Minimo”, ai disoccupati, ai precari, ai pensionati al minimo.

La capacità di analisi scientifica e di iniziativa politica deve partire dal fissare regole di controtendenza rispetto alla società dell’impresa e delle privatizzazioni in cui lo Stato ridiventi non solo garante degli equilibri,  controllore, ma almeno da subito uno Stato interventista e occupatore, che crei nuovo e diverso lavoro non mercantile, capace di attuare e regolare l’efficienza del sistema orientato al rafforzamento di un nuovo Welfare State che soddisfi nuovi bisogni, a partire da un nuovo e più moderno sistema della qualità della vita.

E’ in ambito di questo programma minimo per il lavoro e le eco-socio-compatibilità solidali che vanno recuperati in termini redistributivi gli immensi incrementi di produttività che si sono realizzati in particolare in questi due ultimi decenni, rivendicando da subito una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario reale, ponendo le basi per creare nuova occupazione a partire da lavori a compatibilità sociale e ambientale e di pubblica utilità con pieni diritti e piena retribuzione, assumendo da subito tutti i LSU nella Pubblica Amministrazione, con pieni diritti e pieno stipendio, creando “posti fissi” tanto disprezzati da D'Alema, rafforzando nel contempo il Welfare State tramite incrementi delle entrate del bilancio pubblico determinate dalla tassazione dei capitali, in modo da poter inserire nella spesa sociale anche il Reddito Sociale Minimo europeo da distribuire ai disoccupati, ai precari, ai marginali.

Sulla assunzione immediata dei LSU nella Pubblica Amministrazione e sull'istituzione del Reddito Sociale Minimo, il CESTES si è fatto promotore di iniziative di lotta, di riflessione, di leggi appositamente proposte e depositate insieme alle RdB, all'Unione Popolare e a tante altre strutture dell'associazionismo di base. Ciò anche perché pensiamo che al centro dell’iniziativa politica e sociale debbano ritornare le associazioni di base, i comitati di quartiere, le forme organizzate del dissenso nel territorio, il sindacalismo di classe, cioè l’insieme di quelle organizzazioni del lavoro e del lavoro negato che non scelgono il consociativismo, ma che anzi sappiano porre come immediato il problema del potere attraverso la distribuzione sociale del valore e della ricchezza complessivamente prodotta, riassumendo nel contempo i nuovi soggetti della trasformazione sociale, le nuove povertà, le fasce deboli della popolazione, come definizione di una ricca risorsa dell’antagonismo sociale.

E' per questi motivi che il CESTES  e la rivista PROTEO intendono promuovere, a partire da questa assemblea, momenti di riflessione, di mobilitazione costituendo già da subito un coordinamento nazionale formato da forze sindacali, sociali, politiche e intellettuali che vogliono battersi contro le linee di politica economica di questo Governo, "contro il Welfare dei miserabili", appunto, per poter decidere insieme percorsi capaci di fissare regole di controtendenza rispetto alla logica del Profit State, per l'affermazione di un nuovo Welfare basato sull'uso sociale della ricchezza prodotta.

Invitiamo,  pertanto, tutti a farci pervenire al più presto agli indirizzi del CESTES le adesioni a tale comitato che dovrà effettuare il suo prossimo incontro entro questo mese di ottobre, per decidere insieme le iniziative culturali e di mobilitazione da intraprendere. 

CESTES, Via Appia Nuova 96,  00183 Roma tel./fax 0670491956; 067003832
e.mail : cestes @tin.it; luvasapo@box.tin.it, sito web:
http://www.ppl.it/proteo


[1] Professore di Statistica Aziendale alla Fac. di Sc. Statistiche, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Direttore Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES)-PROTEO. Per una più articolata disamina dei temi trattati in questa relazione si veda : R.Martufi, L.Vasapollo "Profit State, redistribuzione dell'accumulazione e reddito sociale minimo", La Città del Sole, Napoli, 1999.