Assemblea-dibattito
in tema di flessibilità, nuovo mercato del lavoro e
riforma del
Welfare State
CONTRO IL
WELFARE DEI MISERABILI
9
ottobre 1999, Centro Congressi Cavour, Via Cavour n.50
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Relazione
Introduttiva
di
Luciano Vasapollo[1]
1.
La società dell'accumulazione flessibile: un modello di sviluppo a bassa
occupazione ed alta flessibilità
Sono circa venti anni che si
assiste ad un intenso processo di finanziarizzazione che sta mutando lo stesso
modo di presentarsi del modello di sviluppo capitalistico e che spiega cosa sia
realmente la globalizzazione.
Il
contenuto effettivo della globalizzazione è dato non dalla mondializzazione
degli scambi ma da quella delle operazioni riguardanti i movimenti del capitale,
tanto sotto la forma industriale che finanziaria. All’origine della crescita
della sfera finanziaria esistono dei flussi verso questo settore di frazioni di
ricchezza che sono nate all’interno della sfera di produzione reale e che,
prima di essere travasati nelle diverse forme e trasferiti verso la sfera
finanziaria avevano assunto la caratterizzazione di ricchezza determinata nella
sfera della produzione reale. Questi flussi sono all’origine di meccanismi di
accumulazione perversi, che fanno si che le economie nazionali siano finalizzate
al dominio del capitale finanziario diventando parte del rapporto di
competizione internazionale tra poli imperialisti, mediati da compromessi
all'interno delle organizzazioni sovranazionali del capitale finanziario (G8, BM,
FMI, OCSE, BEI, BRI, ONU). Questi processi di globalizzazione a connotati
finanziari perseguono semplicemente la loro logica interna tendente alla
massimizzazione delle rendite finanziarie senza avere effetti propulsivi
sull’economia reale; rendite finanziarie che si assommano a profitti
industriali sempre più alti dovuti a immensi incrementi di produttività del
lavoro. Tali incrementi in quanto non redistribuiti socialmente hanno
accresciuto le quote di ricchezza destinate al fattore capitale, assumendo
sempre meno la forma di investimenti capaci di creare occupazione a vantaggio sempre
più di dividendi, interessi e capital gain da destinare a speculazione
finanziaria o ad investimenti esteri in paesi a basso costo di manodopera.
Tutti
i parametri macroeconomici
rispecchiano quanto sostenuto in precedenza confermando l'andamento dei primi
anni '90, con in generale tassi di disoccupazione maschile e femminile che
aumentano fortemente e retribuzioni dirette e indirette (in termini salariali e
di prestazioni sociali) che si incrementano in modo assai lento, senza
assolutamente rispondere ad una equa redistribuzione ai fattori produttivi
capitale e lavoro degli incrementi di valore aggiunto e di produttività,
segnando, infatti, una forte carenza redistributiva verso le forme di
remunerazione al fattore lavoro.
Per
avere un quadro di confronto fra USA e altri paesi a capitalismo avanzato dei più
importanti indicatori macroeconomici si veda la Tab.1, in cui si possono leggere i diversi ritmi di crescita
complessivi dell'economia.
Tab.1 Indicatori economici (variazioni
percentuali sull'anno precedente)
Voci |
Stati Uniti |
Giappone |
Canada |
Germania |
Francia |
Regno Unito |
|||||||||||||||
|
1989 |
1995 |
1998 |
1989 |
1995 |
1998 |
1989 |
1995 |
1998 |
1989 |
1995 |
1998 |
1989 |
1995 |
1998 |
1989 |
1995 |
1998 |
|||
PIL |
3,4 |
2,3 |
3,9 |
4,8 |
1,5 |
-2,8 |
2,5 |
2,6 |
3,0 |
.... |
1,7 |
2,3 |
4,3 |
2,1 |
3,2 |
2,1 |
2,8 |
2,1 |
|||
Consumi privati |
2,3 |
2,7 |
4,9 |
4,8 |
2,1 |
-1,1 |
3,6 |
2,1 |
2,7 |
.... |
1,9 |
1,8 |
3,1 |
1,7 |
3,8 |
3,3 |
1,7 |
2,7 |
|||
Invest.priv.fissi lordi |
1,7 |
5,5 |
11,4 |
8,2 |
1,7 |
-8,8 |
5,9 |
-2,5 |
4,2 |
.... |
-0,7 |
1,8 |
7,9 |
2,5 |
4,1 |
5,9 |
2,9 |
8,3 |
|||
Occupazione |
2,5 |
2,7 |
2,6 |
2,0 |
0,1 |
-0,6 |
2,1 |
1,6 |
2,8 |
1,4 |
-0,2 |
0,4 |
1,5 |
0,8 |
2,1 |
2,9 |
1,7 |
1,2 |
|||
Guadagni orari |
2,7 |
2,4 |
4,2 |
5,6 |
2,9 |
-0,8 |
5,4 |
1,4 |
2,1 |
4,2 |
4,1 |
1,7 |
5,1 |
1,6 |
1,9 |
8,8 |
4,5 |
4,5 |
|||
Costo lav.unità prod. |
2,1 |
1,8 |
1,9 |
0,8 |
-2,2 |
6,1 |
4,5 |
-0,3 |
2,8 |
1,0 |
-0,3 |
-2,9 |
-0,2 |
-2,3 |
-2,6 |
4,9 |
3,8 |
4,9 |
|||
Tasso disoccupaz. |
5,3 |
5,6 |
4,5 |
2,3 |
3,2 |
4,1 |
7,5 |
9,5 |
8,3 |
7,1 |
9,5 |
11,1 |
9,4 |
11,6 |
11,8 |
6,2 |
8,0 |
4,7 |
|||
E'
importante notare ovunque il trend a ribasso sia dei consumi e degli
investimenti sia dell'occupazione e dei guadagni orari; inoltre agli incrementi
di produttività continuano a corrispondere aumenti nei tassi di
disoccupazione. Si tratta in pratica dell'esplosione di un nuovo modello
economico che ha colpito fortemente l’andamento occupazionale e dei salari,
contraendo la domanda complessiva e associando crescita a disoccupazione.
Ad
esempio, per il 1998 i paesi dell’area dell’euro hanno registrato un
incremento del PIL del 2,9% contro l’aumento del 2,5% del 1997; anche se tale
performance è stata la più alta degli ultimi dieci anni, all’incremento del
prodotto nell’Unione Europea non è però corrisposto un miglioramento
dell’andamento del mercato del lavoro che segnala ancora oltre il 10% medio
del tasso di disoccupazione, cioè circa 19 milioni di disoccupati, per non
parlare degli altri 13/14 milioni di disoccupati
invisibili che “sfuggono” alle rilevazioni delle statistiche ufficiali.
Anche
per il 1999 le prospettive di sviluppo non possono certo definirsi buone, anche
perché i vari organismi internazionali stimano un rallentamento del PIL
mondiale che dovrebbe segnalare complessivamente una crescita non superiore al
2%, con un risultato inferiore
nell’area dell’Euro (area nella quale la Germania e l’Italia potrebbero
segnare uno sviluppo ancora più incerto) ed un ulteriore ristagno
dell’economia giapponese, insieme ad una situazione fortemente critica per
l’America Latina. Pertanto anche per il 1999 la domanda mondiale dovrebbe
essere sostenuta soltanto dagli Stati Uniti, che si ipotizza raggiungeranno un
incremento del PIL superiore al 3%, ma con le stesse logiche di dominio
colonialista ed imperialista che caratterizzano la loro politica economica, la
quale anche per il 1998 ha evidenziato in tal modo una fase espansiva, che dura
ormai da oltre otto anni, raggiungendo un aumento del prodotto del 3,9% dovuto
ad una alta dinamica degli investimenti, in particolare in attrezzature
informatiche e in quel macrosettore
che può individuarsi come area produttiva dell’economia di guerra, ed anche a
continui aumenti della produttività. Allo stesso tempo gli ultimi dati sulla
disoccupazione forniti in questi giorni dall’Eurostat e riferiti a Luglio 1999
confermano i tassi di questi ultimi anni: mentre
il tasso di disoccupazione dell’UE-15 è del 9,3% rispetto al 9,9%
dello stesso mese dello scorso anno, nella zona euro-11 il tasso è rimasto
invariato al 10,2% come lo stesso mese dell’anno scorso; e ciò senza
considerare i “trucchi statistici” che inglobano ogni forma di sottoccupati
e di lavoratori flessibili e intermittenti fra gli occupati.
Per quanto
riguarda in particolare l'Italia, la Tab.
2 evidenzia una economia sicuramente in difficoltà, in particolare con
forme dirette o indirette di contrazioni del reddito. Ad esempio, a fronte di un
sempre alto tasso di disoccupazione (costantemente superiore al 12% negli ultimi
anni) e a bassi incrementi occupazionali (dovuti esclusivamente a forme di
lavoro atipico, interinale, part-time, LSU, ecc.) si
realizzano nel contempo scarsi incrementi dei consumi privati, a causa di
una contrazione dei redditi da lavoro e una scarsa propensione agli investimenti
privati interni, anche perché i capitali fuggono sempre di più all'estero alla
ricerca di paradisi fiscali, di speculazione finanziaria e di costi del lavoro
sempre più bassi. Sempre con riferimento all’ultima rilevazione Eurostat
(riferita a Luglio ’99), l’Italia
(con il 12,1%) risulta essere dopo la Spagna (15,7%) il paese in Europa con il
più alto tasso di disoccupazione, e prima in assoluto nel record negativo della
disoccupazione giovanile (32,6% sono i senza lavoro italiani sotto i 25 anni),
senza considerare che tale percentuale tocca picchi del 60% in molte aree del
meridione dove il tasso di disoccupazione medio supera il 25%.
Tab.2
Indicatori economici dell'ITALIA
(variazioni percentuali sull'anno precedente)
Voci |
1989 |
1992 |
1995 |
1996 |
1997 |
1998 |
PIL |
2,9 |
0,8 |
2,9 |
0,9 |
1,5 |
1,3 |
Consumi
privati |
3,5 |
1,3 |
2,2 |
0,5 |
2,6 |
1,7 |
Invest.priv.fissi
lordi |
4,2 |
-
1,4 |
6,0 |
2,3 |
0,9 |
3,5 |
Esportazioni
|
9,0 |
6,5 |
12,7 |
1,5 |
5,0 |
1,2 |
Importazioni
|
9,1 |
4,7 |
10,4 |
-
1,3 |
10,0 |
6,1 |
Occupazione
|
0,1 |
-
0,9 |
-
0,5 |
0,4 |
... |
0,5 |
Retribuz.
Addetto |
6,6 |
6,9 |
3,4 |
5,5 |
3,5 |
2,4 |
Costo
lav.unità prod. |
7,2 |
2,5 |
1,1 |
6,0 |
1,3 |
-
3,0 |
Tasso
disoccupaz. |
10,2 |
8,8 |
12,0 |
12,1 |
12,3 |
12,3 |
Si realizza
invece, nel contempo un enorme incremento in Italia dei profitti. Infatti, va
evidenziata la tendenza alla crescita del margine di profitto negli anni
successivi al 1992 dovuta soprattutto alla svalutazione della lira, alla
diminuzione dei costi di produzione (principalmente il lavoro) e all’aumento
dei prezzi dei prodotti destinati all’esportazione. Sempre in questi anni si
è realizzato un incremento del 5,5% della remunerazione lorda del capitale in
termini di valore aggiunto, ciò è stato dovuto soprattutto
ad uno sviluppo della produttività del lavoro (14%) rispetto a quello
del costo del lavoro unitario (5%).
L’ultimo rapporto di
Mediobanca del 1999, che analizza i dati aggregati
di 1755 società italiane (un campione altamente significativo che rappresenta
oltre il 40% del fatturato complessivo), dati riferiti all’anno 1998, mette in
evidenza quanto già si è sostenuto. Infatti le imprese italiane hanno
raggiunto nel 1998 un vero e proprio record per i profitti, con un incremento
del 53% rispetto all’anno precedente degli utili netti. Ma ciò è avvenuto
senza un corrispondente aumento del fatturato, con investimenti che continuano
ad essere inferiori a quelli di dieci anni fa e a scapito dell’occupazione,
che prosegue il suo trend ormai pluriennale al ribasso.
Per evidenziare soltanto alcuni
dati si tenga conto che, per lo stesso campione di imprese e rispetto all’anno
1997, gli utili netti nel 1998 si sono incrementati di 8.000 miliardi di lire,
passando da 15.000 miliardi di lire a 23.000 miliardi (nel 1996 gli utili netti
erano 10.000 miliardi di lire). In particolare tale incremento complessivo del
53% è avvenuto con pesi diversi rispetto alle tipologie d’impresa: ad esempio
l’utile netto delle imprese pubbliche è aumentato del 36% mentre quello delle
private del 32%, ed il settore terziario ha evidenziato il miglior risultato con
un incremento annuo del 70%. Nel 1998 il giro di affari complessivo ha segnato
un incremento totale del fatturato soltanto dell’1% sull’anno precedente,
con un 6,9% di incremento del giro di affari nel terziario e una diminuzione
dello 0,3% per il totale dell'industria. Inoltre si tenga conto che il mercato
interno ha segnato un aumento delle vendite soltanto dello 0,4%, contro il 6%
del 1997 a conferma di una domanda interna molto debole, mentre le esportazioni
sono cresciute del 2,7%, dato inferiore al 1997 anche a causa di
una maggiore dinamica e aggressività da parte dei paesi asiatici. Si
noti che il forte incremento dei profitti non è stato, quindi, dovuto a
particolari incrementi delle vendite, cioè del fatturato, né a particolari
risultati positivi nell’andamento del valore aggiunto, nonostante il netto
calo dei prezzi dei prodotti di base e delle materie prime, con un abbattimento
sostanziale nel prezzo del petrolio. Se a ciò si aggiunge una buona tenuta del
Margine Operativo Lordo Globale, ciò sta a significare che
l’incremento degli utili netti, e quindi dei profitti,
è derivato da una forte compressione del costo del lavoro, diminuzione
dovuta anche ai continui incrementi di produttività senza corrispondenti
aumenti salariali. Infatti per il
1998 nell’industria si è avuta una diminuzione del costo del lavoro dello
0,2% e dell’1,7% nel terziario, a ciò si aggiunga che si è verificata una
diminuzione dell’1,4% medio nel costo del denaro e
l’abolizione dei contributi delle imprese al Servizio Sanitario
Nazionale, oltre a una diminuzione complessiva delle imposte sul reddito. Si
segnala, infatti, una riduzione dell’aliquota fiscale media di circa tre punti
percentuali per il settore dell’industria (che passa dal 53 % al 50%) e di
circa l’11% nel terziario (un’aliquota media che passa dal 54% al 43%) e ciò
grazie all’introduzione dell’IRAP e della riforma tributaria che ha favorito
fortemente le grandi imprese.
Tale quadro sta anche a
dimostrare una continua tendenza verso i processi
di finanziarizzazione dell’economia, in quanto se è vero che i profitti si
sono realizzati anche a causa dei minori oneri finanziari e della minore
incidenza tributaria, è anche vero che l’elevato importo dei profitti è
stato solo in parte correlato a incrementi di valore aggiunto. Pertanto è
desumibile che una parte degli utili netti sia da attribuire ad operazioni di
rendita finanziaria e ciò è anche confermato dalla mancanza di seri programmi
di investimenti, nonostante la riduzione del costo del denaro. Il vantaggio
derivato dal calo dei tassi di interesse non ha comportato, quindi, consistenti
programmi di investimento interni; infatti gli investimenti
tecnici e finanziari delle imprese private italiane continuano ad andare più
all’estero che al mercato interno,
ciò a conferma del processo intenso di internazionalizzazione che da qualche
anno sta interessando le imprese italiane. Tant’è che nel 1998 gli
investimenti tecnici delle società del campione sono aumentati globalmente del
5,4%, rimanendo ancora più bassi del 18% di quelli di inizio decennio. Va anche
segnalato che per ogni 100 lire di investimenti realizzati nel 1998 ci sono
state quasi 39 lire di
disinvestimenti; ciò a dimostrare il continuo processo
di esternalizzazione produttiva e di delocalizzazione internazionale che
fanno sì che le imprese italiane si concentrino soltanto sulla parte del ciclo
produttivo ad alti margini e sulle lavorazioni ad alto valore aggiunto,
dismettendo le funzioni aziendali e le fasi del ciclo non strategiche a scarso contenuto di know how e quindi
realizzabili in quei paesi dove più basso è il costo del lavoro e scarsi sono
i diritti del lavoro.
Con il
quadro rappresentato si evince chiaramente che i vantaggi
di cui hanno potuto usufruire le imprese italiane sono rimasti esclusivamente
nelle tasche degli imprenditori, dei manager, degli azionisti i quali non
hanno “socializzato” in alcun modo le condizioni ottimali di crescita di
questi ultimi anni ,e in particolare del 1998, anno in cui si sono registrati i
migliori risultati dell’ultimo decennio. Alla crescita dei profitti e della
produttività, infatti, non è corrisposto nè incremento salariale, nè
miglioramento della qualità delle condizioni di lavoro, nè diminuzione di
orario di lavoro, nè aumenti della spesa sociale (sia in termini quantitativi
sia qualitativi), nè infine vi è stato incremento occupazionale.
Infatti,
sempre in riferimento al campione di Mediobanca, si ha che negli ultimi tre anni
sono stati espulsi dal processo produttivo
58.518, lavoratori di cui 19.867 nel 1998, 16.573 nel 1997 e circa 22.000 nel
1996; evidenziando così un intenso processo di deindustrializzazione nel nostro
Paese, poiché dei 58.518 posti di lavoro persi ben 54.928 sono in imprese
industriali mentre i restanti 3.590
sono lavoratori espulsi dai processi produttivi delle imprese terziarie. Solo
nel 1998, sempre in riferimento al campione di Mediobanca di 1755 imprese, si
rileva che mentre le imprese terziarie registrano un aumento di 1.400 unità di
lavoro essenzialmente nel comparto delle telecomuncazioni per lo sviluppo della
telefonia mobile (anche se si tratta spesso di contratti part time e di
formazione), le imprese industriali
invece evidenziano una perdita di 21.667 posti di lavoro.
Si
consideri, inoltre, che il lieve incremento registrato nelle retribuzioni
dirette è stato ampiamente bilanciato, sempre nel 1998, dall’abolizione degli
oneri a carico delle imprese per i contributi al Servizio Sanitario Nazionale e
all’incidenza dell’imposizione fiscale che, come si è detto
precedentemente, è fortemente variata in senso favorevole alle imprese,
soprattutto per quelle di grande dimensione (si parla infatti che con
l’introduzione dell’IRAP e della DIT, la Dual Income Tax, le grandi imprese
e le banche abbiano risparmiato oltre 10.000 miliardi); va infine considerata
anche la diminuzione degli oneri finanziari grazie al calo dei tassi di
interesse.
In
pratica il capitalismo italiano continua ad intascare profitti senza creare
opportunità di occupazione, ristrutturando per seguire esclusivamente
un’ottica di competitività internazionale basata su processi di delocalizzazione produttiva all’estero, decrementi occupazionali
all’interno del Paese, supersfruttamento
del lavoro con incrementi degli straordinari e dei ritmi, uso di lavoro nero
e precario e con scarsi diritti riconosciuti ai lavoratori, in particolare le
nuove figure del lavoro atipico, con flessibilità del salario e del lavoro, con
tagli continui alla spesa sociale, quindi con salari reali, diretti e indiretti,
sempre a minore capacità di acquisto. Il tutto finalizzato a determinare utili
che, nonostante le condizioni favorevoli di cui si è detto, non vengono
utilizzati in investimenti produttivi nel Paese ma inseguono la speculazione
finanziaria e l’investimento produttivo estero, percorrendo traiettorie verso
i paesi dove si può avere un lavoro specializzato a basso costo e a basso
contenuto normativo.
Per realizzare siffatte trasformazioni diviene necessario agire secondo
il cosiddetto principio sociale della
flessibilità, utilizzando a
tal fine strutture istituzionali che
impongono nel sociale il principio
del minimo costo e massimo beneficio e realizzando, in chiave sempre più
strategica, la logica del massimo grado di adattabilità alle esigenze di un
mercato, che è anche mercato del vivere
sociale.
La flessibilità come principio del vivere sociale significa precarietà
e ciò è possibile a partire dalla estensione della flessibilità tecnologica
che consente contemporaneamente sia di incrementare la produttività sia di
creare flessibilità nella produzione, producendo così una notevole contrazione
del volume della forza lavoro e una diminuzione del tempo di lavoro necessario
alla produzione. Il lavoro non è disponibile per tutti, e la flessibilità dei
rapporti lavorativi rende lo stesso
vivere precario e instabile anche per coloro che ancora godono del posto di
lavoro più o meno stabile. Quindi ogni forma di garanzia dell’epoca fordista
viene completamente eliminata dalla trasformazione produttiva del nuovo modello
capitalistico post-fordista dell'accumulazione flessibile.
La crisi del sistema lavoro ha modificato sensibilmente
la società attuale in quanto si è verificata una disoccupazione
strutturale, la fine della fabbrica
come centro della produzione, la trasformazione
immateriale del lavoro e l’aumento di forme di lavoro subordinato e non normato, sviluppatesi soprattutto tra le fila del
nuovo esercito postindustriale di riserva, producendo un travaso dal mondo dei
garantiti a quello dei non garantiti.
In un tempo in cui le macchine vanno a sostituire la forza lavoro, si
intensificano gli interventi tesi a restaurare ambiti di
supersfruttamento ancora in una società salariale
che intensifica quelle forme
contrattuali atipiche (part-time, formazione-lavoro, a termine, ecc.). Il
nuovo modello capitalistico sta portando alla scomparsa del lavoro regolamentato
e a tempo indeterminato. ma non del lavoro salariato e subordinato. Questo è
dovuto principalmente al nuovo sistema economico, che produce quote sempre più
elevate di ricchezza con quote sempre più basse di lavoro; ai processi di
informatizzazione che producono un grande risparmio di forza lavoro, permettendo
così la diminuzione dell’organico dei lavoratori permanenti a tutto vantaggio
di coloro che lavorano in modo precario e a tempo parziale e creando un esercito
di lavoratori di riserva in pianta stabile. La disoccupazione, la flessibilità
e la precarizzazione di salari e delle forme di lavoro diventano così fenomeni
strutturali.
Il superamento dell’era fordista pone il nostro Paese in una fase di
ridefinizione del capitalismo con caratteri post-industriali superando nei fatti
le logiche interpretative di tipo industrialista
ed “operaista”, per passare ad
una gerarchizzazione dei modelli dello sviluppo basata principalmente sulle
modalità di trasformazione sociale ed economica che vedono emergere sempre più
nuove soggettualità non garantite. Si tratta di una popolazione direttamente o
indirettamente legata alla nuova impresa a
diffusione sociale nel territorio, la fabbrica
sociale generalizzata, determinando una specifica forzata capacità
autocontenitiva in relazione a domanda e offerta di lavoro realizzata tramite
marginalizzazione, precarizzazione, deregolamentazione ed espulsione dei
soggetti economici e produttivi non compatibili. E’ questo ormai di un popolo di disoccupati nuovi ed ex
lavoratori dipendenti di fatto
precarizzati, non più garantiti nella continuità del lavoro, espulsi
dall’impresa madre e assoggettati a una nuova forma di lavoro a cottimo, a
supersfruttamento; si tratta spesso di nuove forme di lavoro subordinato, di
lavori atipici, fuori dalle garanzie normative e retribuite sociali e
assicurative del lavoro dipendente. Si veda come esempio eclatante
l'istituzionalizzazione del precariato all'interno della Pubblica
Amministrazione con l'impiego a salario e garanzie fortemente ridotti dei
Lavoratori Socialmente Utili.
Anche l’enorme aumento delle aperture di partita IVA, cioè i nuovi
lavoratori autonomi, i nuovi piccoli imprenditori, altro non sono che il
risultato della scelta del capitale di espellere manodopera, di creare un
indotto a carattere prevalentemente terziario mal retribuito, senza il carico
contributivo, di sollecitare un generalizzato ricorso a forme più o meno
nascoste di cottimo corporativo da
contrapporre ad ogni forma di rigidità del lavoro e retributiva, rendendo
tutto flessibile e compatibile al sistema della centralità dell’impresa e del
profitto, adattando l'intero corpo sociale, attraverso le funzioni del Profit
State, all'organizzazione della fabbrica sociale generalizzata.
2. Dal
Welfare State al Profit State
Negli
ultimi venticinque anni il modello capitalistico a base keynesiana, in tutti i
suoi diversi modi di presentarsi, si è dissolto cancellando lo stesso concetto
proprio di civiltà; lo sbriciolamento
della intera struttura produttiva preesistente distrugge le stesse forme di convivenza civile determinate dal modello
di mediazione sociale di forma keynesiana.
In ogni caso qualsiasi sia il modello di capitalismo
di riferimento, è chiaro che ormai vi è un'univocità d'intenti attraverso
processi di finanziarizzazione e nuove
modalità di sfruttamento del lavoro e di ristrutturazione del mercato che
determinano esclusivamente processi espansivi dei profitti aziendali. Questo è
possibile grazie ad una puntuale funzione manageriale imprenditoriale che
sfrutta e si avvale del modello concertativo con un intervento diretto del Profit
State, cioè uno Stato come
portatore di cultura e di interessi di impresa finalizzati ad un successo
misurato non tanto e non solo nella capacità di utilizzo di tecniche, strumenti
e comportamenti innovativi, quanto nell'imposizione di modelli comportamentali
che sappiano esprimere il più alto livello di coerenza con la programmazione
strategica di fondo della cultura
d'impresa da trasmettere nel sociale.
Il mutamento più profondo si è verificato nel sistema lavoro e nel sistema di protezione
sociale. Oggi prevale sempre più e
comunque l'economia finanziaria speculativa a danno del fattore produttivo
lavoro, sia in termini di attacco al salario diretto e alle condizioni di vita
dei lavoratori con aumento dei ritmi, sempre più scarse garanzie e tutele,
flessibilità e precarizzazione, sia comprimendo il salario indiretto attaccando
sempre più la sfera dei diritti universali attraverso un forte
ridimensionamento dello Stato sociale.
La
trasformazione è sia di tipo quantitativo con una disoccupazione elevatissima,
sia di tipo qualitativo, infatti non si può più considerare la fabbrica il
luogo della concentrazione del lavoro e della produzione, né lo Stato è la
forma di mediazione e regolamento del conflitto di classe. L’intero ciclo
produttivo ha scavalcato le mura della fabbrica generalizzandosi alla società intera, lo Stato diventa Profit
State in quanto si fa portatore nel sociale nelle sue diverse forme della
cultura del mercato e degli interessi dell'impresa.
Lo
Stato sociale si trasforma in Stato-impresa, in Profit State che assume come
centrale la logica di mercato, la salvaguardia
e l’incremento del profitto, trasforma i diritti sociali in elargizioni
di beneficenza, effettua comunicazione sociale che fa assumere il profitto, la
flessibilità, la produttività come nuove forme di “divinità sociale”, come la filosofia ispiratrice dell’unico
modello di sviluppo possibile. Il Profit
State continua a omaggiare di condizioni favorevolissime gli imprenditori e a
operare sconti eccezionali al profitto e ciò non si traduce neppure in
miglioramenti di spesa sociale ( anche perché diminuisce il peso
contributivo delle imprese), né in incrementi di investimenti sul mercato italiano, né in riduzione
di orario di lavoro, né in incrementi di salario e in operazioni redistributive
a favore del lavoro, né, aumenta
l’occupazione.
Da quanto
esplicitato precedentemente sul ruolo attivo svolto dal Profit State nei nuovi
processi di accumulazione flessibile, nella ristrutturazione capitalistica
dell'era post-fordista, si capisce immediatamente il perché lo Stato sociale,
garante dell’equilibrio tra capitale e lavoro fino agli anni '70 (sistema che
nella propria struttura integrava le istituzioni del lavoro, la partecipazione
dei lavoratori alla produzione, le organizzazioni di massa) sia stato travolto
dalla trasformazione produttiva. La politica dello Stato sociale, fondata sulla
struttura stabile della produzione, è venuta meno e la sua organizzazione, con
tutte le varie forme di protezione sociale ad essa collegate, da vent’anni
stanno subendo un progressivo processo di insabbiamento. Tale politica si è
accompagnata alle ipotesi che la disoccupazione non dovesse avere cause
strutturali e che quindi i processi di sviluppo sostenuti dovessero essere non
assecondati in quanto causa di forte inflazione. L'inizio degli anni '90 infatti
si caratterizza per un una vera e propria rinuncia alle politiche di sviluppo da
parte dei governi e del nuovo pensiero economico liberista. Pertanto l'obiettivo
del sistema capitalista così configurato non è più quello della piena
occupazione e contemporaneamente inizia un vero e proprio percorso di
abbattimento dello Stato sociale visto come un persistere di elementi di
"socialismo" derivanti da quel consociativismo che aveva permesso di
attenuare il conflitto di classe nei decenni in cui il movimento operaio
aveva espresso tutta la sua forza.
Lo Stato sociale
impostato nel dopoguerra nei paesi occidentali era basato su un modello il cui
funzionamento può essere schematizzato nel modo seguente: lo sviluppo
dell’economia garantiva occupazione e posti di lavoro; lo sviluppo progrediva
regolarmente, in modo che il mercato potesse essere in grado di risolvere il
problema dell’occupazione, mentre lo Stato interveniva in modo residuale per
coprire le temporanee interruzioni o condizioni marginali della forza lavoro e
per assicurare le condizioni di pace sociale attraverso forme di
"solidarietà" nei momenti in cui veniva meno il rapporto con il
mercato, a causa di temporanea disoccupazione, malattia, vecchiaia, esigenze di
formazione. Tale modello era incardinato su un’organizzazione sociale basata
sul lavoro fordista a pieno tempo degli uomini, e sulla disponibilità delle
donne a garantire le attività di riproduzione, rispetto alle quali
l’intervento dello Stato era puramente residuale; su una determinante forza
contrattuale espressa in termini di alta e vincente conflittualità da parte del
movimento operaio. Tale modello era possibile anche per una visione
lungimirante, in chiave antioperaia, dei governi conservatori e moderati, i
quali ritenevano che non esistendo alcuna spontaneità del sistema verso il
pieno impiego, allora l’onere di mantenere la
stabilità della domanda e della piena occupazione dovesse essere a
carico di uno Stato che doveva svolgere una funzione di supplenza rispetto agli
imprenditori privati.
Tale modello è
oggi definitivamente scomparso. Davanti all’attuale pochezza e al servilismo
dei governi socialdemocratici, parlare di tale lungimiranza fa sembrare la
politica economica dei vecchi conservatori come fosse l’economia e il potere
dei Soviet.
Ormai i mutamenti
dovuti al ciclo post-fordista dell'accumulazione flessibile che determinano
anche la crisi fiscale dello Stato, fanno sì che i costi del Welfare non siano
più compatibili in un sistema di alta competitività internazionale; in cui non
c’è spazio di mediazione con i bisogni collettivi irrinunciabili. Per
porre rimedio a questa situazione di profonda crisi nella quale lo Stato non può
più aiutare la massa sempre più ampia di disoccupati e lavoratori precari, non
è più compatibile con i modi dell'accumulazione capitalistica uno Stato che
possa garantire una rete di protezione sociale minima per tutti e per le varie
fasi della vita; non è più possibile garantire uno stabile rapporto di lavoro,
affiancato da un’efficace offerta di servizi di base e da politiche di
sostegno verso chi è più debole.
Scelte
di politica economica che rientrano in un più generale progetto basato su una
completa ricomposizione dei conflitti e
delle tensioni sociali attraverso una ristrutturazione delle relazioni
economiche ed industriali basate sulle logiche del capitalismo selvaggio. Tutto ciò si realizza attraverso modalità
del consenso che si diffondono tramite politiche di un nuovo
consociativismo che attraversa e coinvolge il sistema dei partiti, i
sindacati confederali, le associazioni imprenditoriali,
le istituzioni bancarie-finanziarie e il connesso sistema delle
comunicazioni di massa. Se il consociativismo nasce e si sviluppa già a partire
dagli anni ‘70 ,è negli anni ‘80 e negli anni ‘90 che la tendenza
aclassista della cogestione e concertazione delle organizzazioni storiche dei
lavoratori trova la sua massima espressione e punto di non ritorno.
Il Welfare garantiva un
rapporto tra economia, politica e società come progetto di governo politico
della crisi con proposte di Welfare
compatibile, e tendenti a definire quel patto sociale incentrato sul debito
pubblico che sosteneva il vecchio modello di Stato. Al crescere del debito era
inevitabile che emergesse il problema della solvibilità delle casse dello Stato
e quindi dei limiti da porre a questa espansione. I governi dei paesi
occidentali, che avevano digerito solo parzialmente la stessa rivoluzione
keynesiana, hanno pertanto dovuto comnciare a confrontarsi con la questione del
blocco della spesa pubblica. Ma non appena questo blocco è stato operato, a
partire dagli anni ‘80, la disoccupazione ha cominciato a crescere ovunque
vertiginosamente. L’improduttività dello Stato ha generato una vera e propria
ridefinizione politica, economica e sociale di stampo restauratore, contro
quella che, a causa del capovolgimento, è stata presentata come una vera
dissipazione delle risorse.
Sebbene
nell’immediato l’urgenza della riforma del Welfare sia di natura
finanziaria, il progetto neoliberista contiene ben più che l’intento di
risanamento del bilancio. Nonostante i ripetuti attacchi, il Welfare State
sopravvive come residuo logoro ma ancora simbolico dell'epoca keynesiana; finché
questa anomalia non verrà rimossa, la rivoluzione liberista post-fordista
dell'accumulazione flessibile resterà incompiuta, perché la politica sociale
deve in ogni caso stare al passo con i tempi dei nuovi processi di accumulazione
del nuovo ciclo capitalista e non deve ostacolare lo sviluppo dell'egemonia
sociale dell'impresa a cui serve un Welfare State ridimensionato e disponibile.
Si
definisce il nuovo ruolo del Profit State, attraverso, ad esempio le soluzioni tecnocentriste
che si vanno delineando nell’ Europa di Maastricht. Esse prospettano la
ricomposizione di un blocco di forze economico-sociali, la cui affermazione non
può non produrre la conseguenza di abbandonare gli esclusi e le aree
geografiche più esposte all’emarginazione, tentando nel contempo di
diffondere la cultura rampante e autoaffermativa del mercato per creare quel
consenso al nuovo blocco neocentrista che si cerca di strutturare intorno al
pensiero unico neo-liberista, tanto ben interpretato dai governi di
centro-sinistra ad impostazione socialdemocratica.
3. Alcuni dati sulla spesa sociale in Europa: il ridimensionamento del
Welfare
Il messaggio sociale che viene quotidianamente
trasmesso in tutta Europa, anche se con modalità a volte diverse, è sempre
basato sulla considerazione dogmatica della validità dei criteri di efficienza
dell’impostazione capitalistica
americana, realizzando così un vero e proprio darwinismo economico
attraverso ogni forma di flessibilità sociale, del lavoro e salariale,
finalizzata all’abbattimento di ogni comportamento che si riveli rigido,
conflittuale, non omologabile alle compatibilità del profitto, alle leggi di un
mercato sempre meno regolato e sempre più selvaggio, e ciò si accompagna a
continui tagli alla spesa pubblica in tutta Europa .
Di seguito si
presentano alcuni dati a titolo esemplificativo per evidenziare il continuo
ridimensionamento del Welfare in Europa; va
ricordato che i dati sulle protezioni sociali per i paesi dell'UE sono
comparabili in quanto le metodologie adottate
sono molto simili fra loro.
Va rilevato che
anche se l'Europa spende una quota superiore al Giappone e agli Stati Uniti per
la sicurezza sociale, vi sono al suo interno differenze sostanziali tra i vari
paesi. Ad esempio, si registra una notevole flessione per le spese inerenti le
prestazioni di protezione sociale e
le spese sanitarie, ed in particolare dal 1995 in poi in tutti i paesi dell'UE.
Per quanto riguarda gli assegni familiari
i dati testimoniano che paesi come il Lussemburgo, la Finlandia, il Belgio
contribuiscono maggiormente nelle indennità; invece tra i paesi che
contribuiscono in misura inferiore troviamo la Spagna, la Grecia, Il Portogallo.
Ad esempio il valore degli assegni familiari segue una tendenza che
cresce fino al 1993 per poi diminuire nel 1994; l'Italia con l'Olanda è tra i
paesi che registra quote di spesa più bassa fra i paesi dell'UE. Per la spesa
sanitaria si registrano i valori più
bassi dell’area comunitaria europea in Grecia ed in Irlanda mentre le quote più
alte sono da imputarsi alla Francia e la Germania; l'Italia che ha evidenziato valori crescenti dal 1986 al 1994 ha registrato nel 1995 e
1996 una consistente diminuzione.
Il paese che
impiega meno risorse economiche per la protezione sociale (in % del PIL) è la
Grecia che nell'arco degli anni 1985-1994 non ha mai superato il 16,1%; anche il
Portogallo si attesta su valori bassi ma va rilevato che presenta una tendenza
alla crescita (nel 1985 il valore era
del 14,1%, nel 1994 è arrivato al 19,5%). L'Italia oscilla intorno a valori del
25%, mentre la Danimarca e l'Olanda
sono i paesi che impiegato le maggiori risorse per la spesa sociale
(rispettivamente nel 1994 il 33,7% ed il 32,3%). Si può osservare, però, come
l'Italia sia seconda solo all'Olanda come più basso incremento della spesa pro
capite per la protezione sociale fra il 1990 e il 1995.
I dati
riguardanti gli ultimi anni confermano il fatto che l'Italia risulta essere tra
i paesi che destinano quote minori di reddito alla protezione sociale seguita solo dall'Irlanda, la Grecia e il
Portogallo. A conferma della
mancanza di una corretta e coerente politica sociale che colloca l’Italia come
fanalino di coda rispetto a paesi come Francia, Germania, Regno Unito per non
parlare dei paesi del Nord Europa, basta considerare che nel nostro Paese le tre
maggiori voci della sicurezza sociale, la previdenza (pensioni), l'assistenza
(famiglia, lavoro, servizi sociali) e la sanità (ospedali, assistenza
sanitaria) hanno rappresentato nel 1997 il 24% del PIL (valori a prezzi
correnti); valore che risulta essere in termini assoluti il più basso almeno
dal 1990 ad oggi e che evidenzia la tendenza alla forte compressione.
La
nuova fase dell'economia di ristrutturazione capitalistica che stiamo vivendo in
Italia, con i processi di globalizzazione e di sviluppo esasperato dei mercati
finanziari che incidono fortemente
sugli assetti produttivi e occupazionali ha visto anche una drastica riduzione delle forme di Welfare, come ad esempio la riforma del
sistema assistenziale che ha accentuato le differenze tra classi sociali.
Ricordando che per assistenza si intendono tutti gli istituti che tutelano il
diritto dei cittadini all’abitazione, alla maternità e alla famiglia e che
hanno la funzione di sostegno dei redditi e della disoccupazione è interessante
notare che l’Italia risulta essere uno dei paesi (con il Portogallo, la Spagna
e la Grecia) in cui la spesa
assistenziale è tra le più
ridotte tra i paesi europei.
La
Tab.3 seguente
conferma che l'Italia negli anni 1985- 1994 oltre ad aver ridotto ancora di più
la spesa destinata alla assistenza (che già risultava estremamente bassa), non
ha modificato sostanzialmente la sua composizione, e dopo tale data la
situazione è ulteriormente peggiorata.
Tab. 3. Spesa sociale per assistenza
|
|
|
1985 |
|
|
|
|
1994 |
|
|
|
Abitaz. |
Disocc. |
Famigl. |
Matern. |
Totale |
Abitaz. |
Disocc. |
Famigl. |
Matern. |
Totale |
Belgio |
0.00 |
57.71 |
39.84 |
2.45 |
100.00 |
0.00 |
57.64 |
38.40 |
3.97 |
100.00 |
Danimarca |
6.47 |
55.46 |
32.49 |
5.59 |
100.00 |
7.99 |
54.45 |
32.47 |
5.10 |
100.00 |
Germania |
5.08 |
42.45 |
47.37 |
5.10 |
100.00 |
3.93 |
52.54 |
39.47 |
4.05 |
100.00 |
Grecia |
22.15 |
34.71 |
32.68 |
10.47 |
100.00 |
14.68 |
58.67 |
15.00 |
11.64 |
100.00 |
Spagna |
0.44 |
87.45 |
6.79 |
5.31 |
100.00 |
1.70 |
89.78 |
4.10 |
4.42 |
100.00 |
Francia |
13.26 |
30.35 |
47.92 |
8.47 |
100.00 |
15.13 |
38.86 |
39.25 |
6.76 |
100.00 |
Irlanda |
13.61 |
49.51 |
30.11 |
6.77 |
100.00 |
9.60 |
51.30 |
32.87 |
6.24 |
100.00 |
Italia |
0.38 |
36.84 |
55.87 |
6.90 |
100.00 |
0.21 |
41.30 |
51.20 |
7.28 |
100.00 |
Lussembur. |
1.08 |
11.97 |
73.26 |
13.69 |
100.00 |
1.04 |
14.07 |
75.92 |
8.97 |
100.00 |
Olanda |
5.79 |
57.21 |
35.35 |
1.64 |
100.00 |
6.21 |
61.90 |
28.62 |
3.27 |
100.00 |
Portogallo |
0.08 |
25.88 |
64.02 |
10.02 |
100.00 |
0.15 |
52.64 |
40.17 |
7.04 |
100.00 |
Regno Unito |
20.19 |
38.57 |
36.77 |
4.47 |
100.00 |
27.31 |
28.24 |
39.58 |
4.86 |
100.00 |
A ciò si
aggiunge che, a differenza di altri paesi dell'Unione Europea, in Italia non è
previsto alcun sistema di sostegno diretto alla disoccupazione e
all’inserimento al lavoro (reddito
sociale garantito) per chi non ha lavoro e vive in condizioni di estrema
povertà, non potendo essere annoverato tra queste forme di sussidio il
cosiddetto Minimo vitale attualmente
in via di sperimentazione.
I risultati di
un'inchiesta svolta tra i paesi dell'UE dalla OECD Employment Outlook nel 1996,
rilevano che in Italia (includendo la Cassa Integrazione Guadagni e il
prepensionamento) circa l'80% dei disoccupati non riceve alcuna forma di sussidio
economico. E' interessante osservare che la Spagna, paese con il maggiore
tasso di disoccupazione all'interno dell’Unione Europea, presenta sussidi alla
disoccupazione complessivamente tre volte superiori a quelli del nostro Paese.
Si rileva in Italia, in sostanza, la totale mancanza di assistenza finale oltre
il primo intervento per la perdita del lavoro (ed anche per questo primo intervento i tassi medi di copertura sono molto bassi e non
omogenei tra i vari settori).
Nel 1996 gli interventi
sul mercato del lavoro hanno rappresentato per il nostro Paese l'1,8% circa
del PIL, a fronte del 3,8% della Germania, del 3,3% della Francia, del 3,6%
della Spagna e del 2,2% del Regno Unito. Sempre in Italia nel 1997 si sono
ridotte le spese per gli ammortizzatori sociali : rispettivamente del 4,6% per
l'indennità ordinaria di disoccupazione e del 2,5% per la Cassa Integrazione
Guadagni. Anche per quanto riguarda gli oneri
sociali si è accentuata in questi ultimi anni la quota a carico dei
lavoratori per il finanziamento della sicurezza sociale.
Tab.4 Prestazioni di
protezione sociale per disoccupazione e promozione dell’occupazione
in % del totale
delle prestazioni.
|
1985 |
1994 |
Variazione |
BELGIO |
13,3 |
11 |
-
2,3 |
DANIMARCA |
15,3 |
15,3 |
- |
GERMANIA |
6,3 |
9,2 |
+
2,9 |
GRECIA |
2,4 |
2,7 |
+
0,3 |
SPAGNA |
19,1 |
18,1 |
-
1 |
FRANCIA |
6 |
8,1 |
+
2,1 |
IRLANDA |
16 |
17,2 |
+
1,2 |
ITALIA |
3,4 |
2,5 |
-
0,9 |
LUSSEMB.GO |
1,3 |
2,3 |
+
1 |
OLANDA |
11,6 |
10,4 |
-
1,2 |
PORTOGALLO |
2,6 |
5,8 |
+
3,2 |
REGNO UNITO |
10,8 |
5,8 |
-
5 |
Nella
Tab.4 sono rappresentati rispetto al
totale delle prestazioni gli andamenti dell'ammontare delle prestazioni sociali
a favore dei disoccupati che evidenziano differenze sostanziali tra i
vari paesi. Ad esempio in Italia, in Belgio e nel Regno Unito si è avuta
nel periodo 1985-1994 una diminuzione elevata di tali spese sociali, in altri
paesi come la Francia, il Portogallo e la Germania si registra una tendenza
all'aumento. Se poi ci si sofferma ad analizzare la spesa a favore dei
disoccupati e la spesa per gli incentivi all’occupazione (sempre in termini di
percentuale del PIL) ci si accorge che l'Italia, in particolare in questi ultimi
anni, risulta essere uno dei paesi che ha speso meno per le prestazioni sociali
a favore dei disoccupati, anche se il tasso di disoccupazione è stato superiore
alla media europea.
Per quanto riguarda il problema disoccupazione l’Italia ha scelto la
strada, già dal 1991, di aumentare la contribuzione
alle imprese a CIG e solo in parte i sussidi di disoccupazione; ha operato
delle restrizioni all’utilizzo della
cassa integrazione straordinaria, delle indennità di inabilità e dei
prepensionamenti.
Inoltre, in tale ottica orientata a favorire le politiche di flessibilità
e privatizzazione del Welfare è stato introdotto il lavoro interinale ed è
stato privatizzato il collocamento (dal 1997), si è operato per il
decentramento e privatizzazione dei servizi per l’impiego a livello regionale
e provinciale dal 1997; sono state proposte delle riforme dei LSU ma ancora
tutte orientate a forme di istituzionalizzazione del precariato e del lavoro
nero, con incentivi alle imprese e nessuna garanzia per i lavoratori. Si tratta
di 140.000 lavoratori dai 30 ai 50 anni, la stragrande maggioranza dei quali con
pochi anni di contributi versati, con basso livello di scolarizzazione, espulsi
dal ciclo produttivo, o giovani provenienti direttamente dalle liste di
disoccupazione, che pur supplendo da anni alle carenze d’organico della
Pubblica Amministrazione, percependo neppure 800.000 lire al mese, non hanno
neppure il riconoscimento del posto di lavoro. E il Governo D’Alema invece di
disdire questa vera e propria istituzionalizzazione del lavoro nero assumendo a
pieno salario e pieni diritti i LSU nel pubblico impiego, d’accordo con
Confindustria e sindacati confederali, prepara lo “svuotamento” del bacino
LSU, non dando loro alcuna collocazione stabile sul mercato del lavoro, anzi
regalando 18 milioni di incentivi alle imprese per ciascun LSU assunto con
contratto a tempo determinato, anche per pochi mesi, passando per le angherie
del moderno caporalato delle agenzie del lavoro interinale.
4. L'abbattimento dello Stato sociale in Italia: il Profit State si
impone attraverso il Welfare dei miserabili
L’esperienza
di Stato sociale in Italia è stata opera di un ceto politico dirigente di
estrazione medio-borghese che ha determinato la forma assistenzialistica e la
degenerazione dei meccanismi dell’inclusione gestiti attraverso il
clientelismo per controllare il conflitto di classe. Mentre si cerca di
soffocare il conflitto fra lavoro e capitale consentendo
attraverso il Profit State una rappresentazione sociale dell’impresa,
la pratica della solidarietà, ispirata e diretta dallo Stato sociale fordista,
si svuota progressivamente di ogni significato a mano a mano che l’ideologia e
l’attuazione della privatizzazione generalizzata distrugge gli strumenti di
potere economico e di legittimizzazione morale che avevano consentito il
compromesso sociale con la spesa pubblica.
La
crisi odierna del Welfare State è legata ad una realtà in cambiamento nel
ruolo dello Stato,
giacché la straordinaria fase di trasformazione che sta vivendo l’economia da
industriale a post-industriale reclama una maggiore flessibilità del mercato
del lavoro, rendendo inadeguata la forma-Stato legata al ciclo fordista.
Cambiando anche il ruolo e le
figure tipiche del lavoratore industriale di massa, per cui è prevista una
intermittente permanenza nel mercato del lavoro con scarsissime prospettive di
mantenere il "posto a tempo indeterminato", si determinano e si
aggiungono nuovi e gravi problemi a
quelli che già caratterizzavano il sistema di protezione sociale tradizionale.
Nel caso italiano, non è più compatibile neppure la torsione
“clientelare-assistenziale” che era stata impressa allo Stato sociale
nazionale, a causa del suo particolarismo categoriale. La crescita delle
prestazioni era avvenuta in Italia attraverso una contrattazione politica e
corporativa che ha visto confrontarsi, da un lato, le singole categorie
preoccupate di migliorare la propria condizione senza riguardo per le altre,
dall’altro i partiti politici intenzionati ad incrementare il proprio consenso
sociale, dando luogo ad un sistema di assistenza di fatto corporativo,
clientelare e disegualitario.
L'accumulazione
flessibile tende sempre più a manifestarsi anche come fine progressiva e reale
riduzione dei vantaggi assicurati dal Welfare,
ma soprattutto, come progressivo impoverimento dei ceti tradizionali protetti, a
partire dall’intera area del pubblico impiego, dei quadri intermedi del
terziario, degli artigiani e piccoli commercianti ovvero di quei ceti
professionali la cui identità e sicurezza veniva assicurata dalla presenza e da
una determinata gestione più o meno garantita dalla protezione sociale e dei
servizi pubblici.
Lo
Stato nella sua funzione di garante della sicurezza sociale (nel campo della
sanità, dell’istruzione, della previdenza e assistenza, nella tutela delle
fasce più deboli della popolazione) necessita oltre che di un equilibrato
sviluppo economico anche di alti livelli di occupazione e di un ponderato
prelievo fiscale. Con l’inizio
degli anni ’90 si accentuano nel nostro Paese scelte verso forme di
capitalismo con connotati di vero e proprio darwinismo sociale. Tale decisione,
che impone il definitivo passaggio dal capitalismo italiano, fondato su un
modello di economia mista, a forme neoliberiste, da capitalismo selvaggio,
basate su ipotesi economiche monetariste, è dovuta ad una scelta europeista
acritica del potere politico, economico e finanziario del nostro Paese che
accetta, si sottomette ed anzi si fa promotore delle compatibilità monetariste
dell’Europa di Maastricht, l’Europa voluta e imposta dai grandi capitali
finanziari.
I governi di matrice di centro-sinistra
stanno definitivamente smantellando ciò che rimaneva dello Stato sociale
e delle conquiste prodotte dalle lotte sindacali degli anni Sessanta e Settanta,
le quali avevano garantito migliori livelli di vita per tutti. Il perché della
crisi strutturale del Welfare State risiede
nel fatto che gli schemi di
protezione dai rischi sociali (disoccupazione, vecchiaia, invalidità, ecc.)
sono entrati in contraddizione con lo sviluppo del bisogno di controllo
sociale prodotto dalla sottomissione completa alla cultura d'impresa del Profit
State. L’impianto delle
proposte politico-economiche si incentra, allora, con sfumature diverse, su
politiche di tagli alla spesa pubblica, su incentivi e trasferimenti sempre più
cospicui alle grandi imprese, su riforme istituzionali e costituzionali di
stampo presidenzialista e sempre più autoritario, di soffocamento delle
minoranze e delle diverse incompatibilità, mettendo persino in discussione il
diritto di sciopero, ostacolando addirittura anche diritti democratici
elementari come la legge sulle Rappresentanze Sindacali Unitarie.
È evidente che la
crisi dello Stato sociale e la determinazione dei modi di presentarsi del
conflitto sociale devono essere assunte come questioni centrali per riflettere
sulla crisi dell’idea di sviluppo e per elaborare una prospettiva di
cambiamento radicale del modello di sviluppo. Bisogna, infatti, capire che la riforma del Welfare è semplicemente il modo di essere istituzionale
nell'assecondare i nuovi processi di accumulazione flessibile; è il Profit
State che cerca di confrontarsi con le nuove strategie di inclusione e di
esclusione espresse dalla globalizzazione del mondo di produzione capitalistico
e del mercato. L’affermazione delle culture e dei nuovi orizzonti finanziari,
che hanno segnato la metamorfosi dei sistemi economici e sociali del mondo
capitalistico, ha prodotto profonde trasformazioni nell’immaginario collettivo
derivanti dall'imposizione nella cultura sociale delle idee-forza nate sul
terreno più propriamente economico produttivo del nuovo ciclo post-fordista,
istituendo l’immagine dominante del mercato
globale e della singolarità senza legami sociali, senza la solidarietà di
classe.
Nascono
in realtà delle nuove “soluzioni
compatibili” con il nuovo ciclo post-fordista dell'accumulazione
flessibile. Secondo tale impostazione si lanciano messaggi sulla fine del lavoro
per giustificare il fatto che il nuovo modello di accumulazione flessibile vuole
sviluppo accompagnato da disoccupazione strutturale, e si sentono così assurdi
discorsi contro modelli basati sull'occupazione a tempo indeterminato, contro
modelli di piena occupazione ai quali si ipotizza che si possa spontaneamente
ritornare grazie alla continua
diminuzione della popolazione attiva. Un bel modo per giustificare l'attuale
sottoccupazione e precarizzazione del lavoro. Gli stessi principi vengono
utilizzati per ridimensionare il
Welfare, utilizzando a tal fine dei veri e propri "accrocchi sui dati
ufficiali" (ufficialmente chiamati livellamento delle cifre) per dimostrare
ad esempio la bassa crescita dell'inflazione, o per esempio per scoprire che
disoccupazione sta diminuendo (e questo solo perché con l'innalzamento
dell'obbligo scolastico a 15 anni, i quindicenni non saranno più considerati
disoccupati, oppure perché con una popolazione che invecchia diminuisce il peso
dei giovani che sono coloro che hanno il tasso di disoccupazione più alto),
fino ad arrivare ai “regali statistici” al Governo D'Alema relativi al
calcolo sui 500.000 posti di lavoro in più di cui
lo stesso "Sole 24 ore" ci dice che oltre 200.000 sono posti
virtuali semplicemente dovuti alle modifiche
delle modalità di calcolo. I tanto decantati nuovi posti, i 500.000 incrementi
occupazionali di D'Alema, che imitando Berlusconi ce ne promette un milione per
fine legislatura, sono poco più di 300.000, quasi tutti lavori atipici, area
del lavoro nero, a tempo determinato, interinali, intermittenti, LSU, part-time;
e non viene detto quanta espulsione di lavoro a tempo pieno e indeterminato
(il"posto fisso" tanto
odiato dal Governo) si sia nel contempo realizzato. E quel lievissimo decremento
nel tasso di disoccupazione non si dice che è evidenziato attraverso gli
"aggiustamenti" nelle modalità di rilevazione da parte dell'ISTAT,
veri e propri "giochetti" sui dati per favorire l'immagine della
politica economica del Governo.
E’ in questo contesto di “soluzioni compatibili” che si configurano gli attacchi allo Stato
sociale anche nel nostro Paese, in una rincorsa all’individualismo
utilitarista anglosassone, a quel modello di capitalismo selvaggio e alle
politiche monetariste diventate ormai ideologia egemone. Si vanno in questo modo
disarticolando e travolgendo anche gli stessi principi di civiltà come quelli
di tolleranza e di solidarietà tra gruppi diversi e tra generazioni diverse,
principi guida in un Paese come il nostro in cui significativo e fondamentale è
stato, sul piano del condizionamento delle scelte di politica economica e sul
piano culturale, il contributo delle tradizioni e della forza del movimento di
opposizione di classe e operaio.
La politica economica neo-liberista portata avanti
dai governi di centro-sinistra ha realizzato nel nostro Paese un quadro
macroeconomico che evidenzia tendenze recessive, contrazione e precarizzazione
dell’occupazione, diminuzione dei salari reali, diminuzione dell’inflazione
dovuta soprattutto al forte calo della domanda, all’aumento delle fasce di
povertà e dei tassi di disoccupazione. La risposta alle tragiche conseguenze
della globalizzazione capitalistica non è indirizzata al mantenimento dei
principi solidaristici e all’attuazione di serie politiche indirizzate
a delle congrue prestazioni sociali ma alla creazione di un impianto
incentrato su politiche di tagli
del Welfare che vanno a colpire sempre più gli strati più disagiati della
popolazione. Per raggiungere questo scopo si è impostata una politica di
risparmi in settori fondamentali quali la previdenza e la sanità, utilizzando
come obiettivi prioritari la
mobilità, la flessibilità del lavoro, le privatizzazioni e i tagli indiscriminati alla spesa sociale, la stessa privatizzazione
del Welfare.
Sono diversi i metodi con i quali è possibile attuare la cosiddetta privatizzazione
del Welfare; si pensi in primo luogo alla vendita di beni di proprietà
pubblica (le imprese e le abitazioni di edilizia popolare); ed ancora la
cessione ad organismi privati della fornitura dei servizi essenziali anche
attraverso la possibilità di rimpiazzare il servizio pubblico con quello
privato (ad esempio le pensioni sociali sostituite dalle forme assicurative
private). E' prevista in pratica una riforma di tutti gli strumenti delle
politiche del lavoro (con l'introduzione di lavori atipici, interinali,
flessibili e di contratti di solidarietà, una riqualificazione della formazione
professionale e una riorganizzazione in chiave ancora più precarizzata dei
lavori socialmente utili, una riorganizzazione degli uffici di collocamento a
livello locale); si discute da tempo, inoltre, una ristrutturazione del settore
assistenziale, attraverso un sistema di protezione sociale tendente alla
valorizzazione del volontariato e del settore no profit e di soccorso ai soli
“miserabili”. L’irrigidimento dei criteri di ammissibilità ai servizi,
significano ristretti margini di fruizione per costringere il cittadino a
trovare forme di sostegno nel settore
privato.
Sindacati confederali, imprenditori e Governo
propongono in continuazione messaggi apocalittici sull’abbattimento della
spesa sociale poiché questa non è più finanziabile a causa della tendenza
demografica ad un invecchiamento della popolazione, e quindi della conseguente
elevata incidenza della spesa pensionistica e sanitaria.
Le proposte consociative di
abbattimento dello Stato sociale sono basate sulla personalizzazione, o meglio
“familiarizzazione” e
privatizzazione del sistema di protezione sociale, in particolare sul passaggio
al mercato della sanità e della previdenza, perché è la centralità
d’impresa e del mercato che deve ormai contagiare l'intero tessuto sociale. In
tal senso, ad esempio, fingendo di introdurre sussidi alla disoccupazione, si è
impostata una politica di risparmi in settori fondamentali quali la previdenza e
la sanità, utilizzando come obiettivi
prioritari la mobilità, la flessibilità del lavoro, le privatizzazioni e i
tagli indiscriminati alla spesa sociale. In questo modo si riducono i sussidi
dei servizi sociali e sanitari
attraverso un aumento dei ticket o comunque attraverso l’attuazione di
normative che propongono una sanità sempre meno pubblica e più privata, con
l’introduzione di forme di assicurazione
sanitaria integrativa, con nuove regole di accesso al mercato della
distribuzione dei farmaci o ancora con la gestione privata, inizialmente in via
sperimentale, di alcuni ospedali molto grandi e con la riduzione delle
esenzioni. Le principali misure previste nel settore della sanità sono
chiaramente ispirate al criterio della privatizzazione; si propone
sostanzialmente una sanità sempre meno pubblica e più privata.
Anche per quanto riguarda il sistema pensionistico la constatazione di una “forte prevalenza di
anziani” nel nostro Paese porta
alla personalizzazione e privatizzazione del sistema di protezione sociale
arrivando ad optare per un passaggio al
mercato della previdenza. Pertanto dal coro consociativo si ascoltano
messaggi univoci che parlano di una quota sproporzionata della spesa
previdenziale rispetto agli altri paesi europei,
con lo scopo di distruggere le pensioni di anzianità, allungando la vita
di lavoro secondo i principi
di flessibilità e compatibilità d’impresa; senza però chiarire che
in Italia vengono conteggiati, nella quota destinata alla spesa per pensioni,
anche i trattamenti di fine rapporto che negli altri paesi non esistono; inoltre
si inserisce nel computo delle pensioni anche quella parte di costo di carattere
assistenziale come le integrazioni al minimo e quelle non coperte da
contribuzione. Non si dice, inoltre, che nel resto d’Europa oltre il 10% del
salario è destinato a fondi pensione a carattere integrativo che in Italia a
tutt’oggi hanno uno scarso peso. Tutto ciò porta ad invertire l’ordine del
problema, cioè in Italia la spesa per
pensioni è largamente inferiore a quella della media europea. Il dibattito
sulle pensioni è quindi un dibattito falso che nasconde una vera e propria
lotta per l'egemonia nel mercato assicurativo e dei fondi pensione.
La strategia del Governo D'Alema e della CGIL è
quella di realizzare un sistema
contributivo per tutti allargando enormemente la forbice tra gli ultimi
stipendi percepiti dal lavoratore e una pensione sempre più misera che si andrà
a percepire. Se si considera che si vuole un mercato del lavoro sempre più
flessibile, precario e intermittente, con
quindi sempre più bassi contributi versati, allora si deve dire la verità:
adottando il sistema contributivo si otterrà una pensione da miserabili
dopo una vita di lavoro con stipendi e redditi
da miserabili. Il tutto è in
effetti finalizzato al ricorso ai fondi
pensione integrativi, realizzando così un'altra verità: per sperare di
avere una pensione di vecchiaia più alta bisognerà ridurre i già precari
redditi durante la vita lavorativa per sottoscrivere un fondo pensione. Comunque
vadano le cose, il reddito calcolato
sull'intero arco di vita risulterà fortemente dimensionato.
Non contenti di ciò Governo, imprenditori e
sindacati confederali sferrano un duro attacco alle liquidazioni spostando parte del salario differito (TFR) in busta
paga con un forte appesantimento fiscale sulle tasche dei lavoratori, tranne che
questi ultimi non si dicano immediatamente disponibili a trasferire
obbligatoriamente, per non essere penalizzati fiscalmente, questa parte del loro
salario nella bolla speculativa finanziaria dei fondi pensione. In tal modo ciò
che il capitalismo perde in termini di prestiti forzati da parte dei lavoratori,
realizzati con l'accantonamento delle loro liquidazioni, lo stesso capitalismo
se lo riprende con gli interessi, avendo a disposizione enorme liquidità, che
è salario dei lavoratori, immediatamente disponibile per i processi di
finanziarizzazione dell'economia capaci di creare grandi e facili profitti.
Il rafforzamento, quindi, del mercato finanziario,
dei facili profitti senza investimenti produttivi, delle rendite finanziarie,
avviene non solo sull'attacco al salario diretto, al salario indiretto ma anche
al salario differito, sviluppando il grande bluff dei fondi pensione,
controbilanciato da un peggioramento delle condizioni di vita di tutti i
lavoratori, occupati e non.
Anche l’impostazione globale delle politiche
del lavoro è fortemente ispirata dalle logiche contributive ed assicurative
che non fanno altro che produrre diminuzione delle tutele, realizzando un lavoro
e un salario flessibile, senza norme, a basse garanzie complessive. Un ruolo
fondamentale è ormai svolto dalla precarizzazione, del lavoro e delle
retribuzioni, e dalla mobilità (sono ormai milioni gli occupati che hanno
cambiato settore lavorativo essendo costretti ad accettare spesso forme di
flessibilizzazione del salario).
Ciò che domina ormai per la scena economica è l’abbattimento di qualsiasi rigidità di costi e di normative, per
favorire l’impresa. A questo proposito l’iniziativa più innovativa che
si sta sperimentando in Italia recentemente è quella del reddito minimo di inserimento che ha preso la sua ispirazione,
almeno negli intenti, da altre forme di redditi minimi europei. Negli ultimi
mesi si sta discutendo dell’opportunità dell’allargamento e superamento
della fase sperimentale dell’istituto del minimo
vitale , inteso come strumento universalistico a sostegno dei redditi, e, in
prospettiva, della completa riorganizzazione del settore.
E' in tale contesto di dibattito sulla riforma del Welfare e sulla
determinazione di misure contro la povertà
che si inserisce il Decreto legislativo 18 giugno 1998, n. 237. Il minimo
vitale o reddito minimo di inserimento è una misura che prevede un sussidio
economico integrativo per i non abbienti, ed è una prestazione legata al
bisogno ed alla volontà di reinserimento professionale.
Questa
proposta si avvicina molto a quelle formulate da varie correnti di pensiero sul reddito
incondizionato e universale, visto come “un nuovo diritto di libertà”
su cui costruire il nuovo Welfare postfordista, e, ancora molto vaga e da
verificare, non può essere considerata come un tentativo reale per rafforzare
lo Stato sociale affidandogli un ruolo primario di riequilibrio delle
disuguaglianze e delle esclusioni create dal nuovo mercato del lavoro. Ciò,
oggi, può avvenire esclusivamente
mediante misure di garanzia reali del reddito. Infatti nella realtà, con il
decreto legislativo n.237 del giugno 1998 del Ministro Livia Turco,
i propositi di soccorso al reddito
per precari e disoccupati sono quasi inesistenti. L’attuale normativa, di
tipo ancora sperimentale, si basa
su un reddito minimo di inserimento destinato a persone esposte al rischio di marginalità sociale, di importo pari a 500 mila lire
(per quelli che si trovano al di sotto della linea di povertà); questo viene distribuito in alcune zone
particolarmente disagiate, previo accertamenti e verifiche da parte dei Comuni
che potrebbero portare alla sospensione dell’erogazione, e in cambio della
disponibilità dei beneficiari a svolgere programmi di integrazione sociale.
Tale
proposta nelle intenzioni appare formulata con il tentativo di attenuare la
trappola della povertà e di risolvere la situazione italiana in termini di
spesa sociale, la quale pur avvicinandosi alla
media europea, si presenta passiva rispetto ai fenomeni di esclusione sociale. I
microassegni, che verranno distribuiti nelle poche zone disagiate del Sud, non
potranno combattere la corsa al
ribasso nelle retribuzioni, alla flessibilità salariale e ridare poteri agli
occupati nelle trattative di lavoro, anzi faranno sì che diventi accettabile qualsiasi offerta di
lavoro. In questo senso tale proposta si inserisce in una logica caritatevole e
assistenziale, una carità minima
garantita che non solo non mette in discussione i meccanismi
dell'accumulazione post-fordista attraverso processi redistributivi ma, nei
fatti, agevola e asseconda la ristrutturazione del mercato del lavoro basato
sempre più su flessibilità, precarizzazione e marginalità ed esclusioni
socio-economiche che si allargano sempre più.
Anche la riforma del collocamento è indirizzata a
sempre più intensi processi di privatizzazione con la nascita di agenzie
specializzate nel nuovo “caporalato” attraverso il lavoro interinale. Il nesso inscindibile tra lavoro e formazione
diventa la formazione che si modella sugli interessi delle aziende. La ricerca,
la formazione, la scuola, il rafforzamento della conoscenza collettiva sono
ormai orientati alla determinazione di un sistema
formativo subalterno agli interessi degli industriali, sempre più
privatizzato; si veda in tal senso il finanziamento pubblico alle scuole
private, l'inserimento nell'Università di corsi che con miseri cofinanziamenti
di privati pretendono una formazione ad hoc basata sulle compatibilità
d'impresa, differenziando gli accessi degli studenti al mercato del lavoro;
tutto ciò ha unito le istituzioni, i docenti, soprattutto quelli di sinistra,
molti ex sessantottini, e quasi
tutti i partiti in un coro osannante di una superiore e omologata formazione
privatistica.
Anche per l’assistenza
le scelte sono finalizzate al trasferimento della spesa per sanità e
previdenza alla spesa più propriamente di natura assistenziale. Nascono così
proposte di un selezionato nuovo assistenzialismo clientelare a carattere
caritatevole indirizzato ai nuovi
miserabili alla parte più marginale della società. Si propongono forme di
accesso ad alcuni servizi sociali in base a processi individuali che favoriscono
la connessione e la ricomposizione istituzionale e compatibile delle forme di
dissenso sociale. E’ questo il vero significato di proposte che sollecitano lo
sviluppo di un sistema fondato sulla carità
minima garantita agli esclusi.
Proposte finalizzate
al controllo delle fasce più deboli della società, rendendole ricattabili e
condizionate dal potere, innescando
senza dubbio fattori che favoriscono la conflittualità
orizzontale fra le varie componenti sociali, ostacolando la ricomposizione
di classe, favorendo invece la nascita di veri e propri assistiti sociali,
funzionali ad un regolamento al ribasso
del conflitto sociale e politico. Si
realizza così anche un uso strumentale del Terzo Settore finalizzato alle
regole dell'efficienza capitalistica con l'utilizzo dell'economia non profit,
della cosiddetta economia sociale e dell'autorganizzazione che si sostituisce al
ruolo dello Stato sociale, comprimendo e canalizzando i conflitti nell'ottica di
uno Stato basato esclusivamente
sulle regole dell'economia del profitto affiancate da elargizioni caritatevoli
compatibili con il sistema.
A
partire da tale impostazione ne deriva che bisogna prestare particolare
attenzione quando, seguendo alcune impostazioni di carattere economico-sociale,
e apparentemente solidaristico, il governo, i sindacati confederali, molte
associazioni del volontariato cattolico e non, propongono o accettano una
diversa e "moderna" visione del Welfare. In tale logica cade,
purtroppo, anche chi a sinistra, molto spesso in buona fede partendo da una
rivendicazione al diritto alla autorganizzazione sociale e alla flessibilità
autoregolamentativa dei propri tempi di lavoro e di vita, propone alcune forme
di lavoro minimo garantito, di reddito
universale non legato al conflitto capitale-lavoro e ad intaccare i processi
di accumulazione capitalistica. Tali proposte di per sé eticamente
comprensibili poiché basate sui concetti di libertà civile
di ogni individuo all'esistenza, al diritto al lavoro e alla
cittadinanza, non tengono però conto dell'attuale nuovo carattere
dell'accumulazione capitalistica, proprio in cerca di forme "minime"
di lavoro sempre più flessibile e a tempo determinato, non tengono conto del
carattere di per sé già sociale del salario, ed entrano così di fatto nella
logica dell'assistenzialismo, di carità garantita. Si tratta di proposte
incentrate su un'autonomia soggettiva che, lungi dal liberare dalla coercizione
delle logiche del mercato capitalistico del lavoro, cadono in rapporti
subordinati di scambio che svuotano, delegittimano e ostacolano la
riproposizione del conflitto di classe incentrato sulla battaglia per il
superamento dell'organizzazione capitalistica basata sullo sfruttamento del
lavoro, sia esso lavoro diretto nelle varie forme, sia esso lavoro anticipato
che si trasforma in macchine ed innovazione tecnologica che determina nuovo
sfruttamento. E’ per questo che, invece, il Reddito
Sociale Minimo proposto dal CESTES, dall’Unione Popolare,
dall’Associazione Progetto Diritti e da tantissime altre sigle
dell’associazionismo di base, pone nella sua formulazione la centralità del
conflitto capitale-lavoro, la socializzazione degli incrementi di produttività,
la tassazione dei capitali, il tutto in modo da intaccare da subito i meccanismi
di accumulazione capitalistica.
Anche la stessa ultima legge finanziaria del 2000 rispecchia la consueta filosofia di
attacco alle condizioni di vita dei lavoratori nonostante sia stata presentata
come "la finanziaria di sinistra per lo sviluppo e senza lacrime". Si
tratta invece di una finanziaria che potenzia i percorsi di flessibilizzazione
del lavoro imponendo nuovi tagli sul Welfare per centrare l'impegno assunto con
l'Unione Europea di far scendere nel 2000 all'1,5% il rapporto fra deficit e PIL
e al 112,9% il rapporto fra debito e PIL.
Evidenziamo anche qui delle palesi falsità: a)
l'abbassamento dello scaglione IRPEF dal 27 al 26% comporterà circa 10.000
miliardi di tagli delle tasse, ma a partire dal 2000 a metà tra lavoratori e sgravi
alle imprese; senza considerare che il
primo scaglione IRPEF, cioè quello fino a 15 milioni di reddito lordo risulta
di fatto penalizzato ed inoltre i redditi da capitale continuano a pagare le
stesse aliquote IRPEF, cioè del 12,5% fino ad un massimo del 19% e saranno
beneficiati anche dal dimezzamento dell'IVA sulle costruzioni
edilizie, di altri sgravi sul settore edilizio, continuando la logica
della "rottamazione", questa
volta per favorire le imprese edili. Va inoltre considerato che per le imprese
ci sono a disposizione altri 1000 miliardi per incrementare i fondi destinati
alla superDit, continuando così a diminuire
il peso fiscale delle imprese; b) dei 15.000 miliardi della manovra, 4.000
verranno realizzati come proventi dalla vendita
del patrimonio immobiliare dello Stato, dismissioni che saranno gestite
direttamente dal Ministero del Tesoro e che potranno provocare gravi problemi a
quegli affittuari a reddito basso che non saranno in grado di riscattare
l'immobile nel quale vivono; c) gran parte dei 15.000 miliardi di tagli è
concentrato sulla spesa corrente della Pubblica Amministrazione,
grandi risparmi sono previsti per gli acquisti di beni e servizi, e
diminuiscono ancora i trasferimenti agli enti locali territoriali, il che
significa minore quantità e qualità dei servizi pubblici per i cittadini. Ma i
tagli maggiori riguardano ancora una volta la riduzione
del personale della Pubblica Amministrazione, infatti nel 2000 questi
dovranno essere almeno l'1% in meno rispetto a quelli in servizio al 31 dicembre
1997; a questo si aggiunga il blocco delle
assunzioni e la mancanza di risorse sufficienti per gli aumenti pattuiti nei
contratti del pubblico impiego, con un vero e proprio sostanziale blocco
della contrattazione integrativa; e l'ultima ciliegina: dopo
l'istituzionalizzazione del precariato nella Pubblica Amministrazione attraverso
i LSU, con questa finanziaria si giunge a istituzionalizzare il lavoro interinale nella Pubblica
Amministrazione accompagnato da un massiccio ricorso ai contratti a tempo
parziale e a tipologie contrattuali flessibili; d) nella corsa al risanamento, o
meglio dire all'abbattimento del Welfare, c'è anche il capitolo che riguarda le
pensioni con la soppressione del fondo degli elettrici, il cui disavanzo dovrà
essere ripianato dalle stesse società elettriche, e le società telefoniche si
dovranno far carico del risanamento dei loro fondi pensione, così come sarà
soppresso anche il fondo dei ferrovieri; tutto ciò se significherà problemi e
decurtazioni sulle pensioni dei lavoratori allo stesso tempo però si tramuta in
riduzione dei contributi a carico
delle imprese per assegni familiari e per la maternità per controbilanciare
l'impegno delle imprese elettriche e telefoniche; anche in questo capitolo di
spesa l'elemento di "sinistra" della manovra sarebbe rappresentato dal
cosiddetto “contributo di solidarietà” del 2% da far pesare sulle pensioni
d'oro, per l'eccedente di 142 milioni; si ricorda che la pensione minima continua a essere intorno agli 11 milioni di lire
l'anno e che invece il contributo di solidarietà, della durata di solo tre
anni, non colpisce i vitalizi, come quelli dei parlamentari o quelli erogati
dalle casse professionali che non sono considerate pensioni; se si escludono
tali vitalizi allora questo 2% di solidarietà da destinare all'incremento del
fondo pensioni dei lavoratori atipici peserà mediamente solo per qualche decina
di migliaia lire al mese sui "fortunati e nobili" interessati; e) e
per i " miserabili" che risorse del Welfare rimangono? E' previsto che
l'assegno di maternità per chi non ha
garanzie previdenziali, cioè per chi vive in condizioni di vera e propria
miseria, salga da 1 a 3 milioni di lire ma nel contempo le imprese avranno un
alleggerimento del costo del lavoro del 2% proprio grazie alla fiscalizzazione
di alcuni contributi di maternità. Infine, per l'occupazione sono previsti
stanziamenti per 5.800 miliardi nel triennio, di cui 200 miliardi per i senza
lavoro di Napoli e Palermo da destinarsi a forme
caritatevoli di soccorso, appunto per miserabili, senza dar loro alcuna
prospettiva di continuità nel rapporto di lavoro; 800 miliardi sono stanziati
su un fondo unico per l'occupazione, che significa incremento dei contratti atipici e a tempo determinato volti a
favorire la formazione di impresa con forti sgravi contributivi; altri 800
miliardi saranno destinati alla riforma degli ammortizzatori sociali che avverrà
sempre in chiave di un'alimentazione di quelle politiche attive funzionali alla flessibilità voluta
dagli imprenditori; gli altri 4.000 miliardi arriveranno in forma indiretta
ancora una volta alle imprese in quanto saranno destinati al cofinanziamento dei
fondi comunitari già determinati come premio alle imprese.
Altro che manovra di "sinistra", si profila
un orizzonte sempre più "sinistro"
per i lavoratori, per le classi meno abbienti che vedranno sempre più tagliare
il loro salario diretto e indiretto senza alcuna politica seria per
l'occupazione, senza alcuna redistribuzione dei redditi a carico del
capitale, con sempre più forti incentivi e sgravi alle imprese che si
controbilanciano con la mancanza o
l'intermittenza di redditi per le tasche della maggior parte dei cittadini,
decurtati anche di quel salario
indiretto spendibile attraverso un Welfare che garantiva universalismo dei
diritti e che invece si trasforma in un sempre più meschino “Welfare dei
miserabili”.
In ultima analisi
siamo in presenza di parametri di efficienza e di efficacia competitiva
del mercato, tipici indicatori della gestione d’impresa, che dovranno
determinare le dinamiche evolutive dello Stato sociale. E’ la cultura
d’impresa, è la moralità del
liberismo, è la logica del profitto e del mercato che deve essere caricata
sulle già deboli spalle degli ammalati, degli anziani, dei disoccupati, dei
sottoccupati, dei precari, di tutti gli strati emarginati della società.
Si
tratta cioè di un Profit State che assume in sé l' "onere" di un Welfare
dei miserabili, abbandonando del tutto il dovere di protezione sociale per
tutti i cittadini, abbattendo ogni forma di universalismo dei diritti.
Si incrementano così le vere e proprie forme di povertà ed emarginazione assoluta, la miseria di un sempre crescente numero di persone che non riescono ad accedere neppure ai livelli minimi di sopravvivenza, ad indispensabili cure mediche e ospedaliere, ad una pur minima dignitosa qualità complessiva della vita. Ecco cos’è il “Welfare dei miserabili”, degli esclusi, il passaggio dall’universalismo dei diritti alle garanzie caritatevoli per i miserabili.
5.
Un Welfare della socializzazione della ricchezza per un modello di sviluppo
delle socio-compatibilità solidali
Si sviluppa nel modo visto in precedenza un
sistema economico nel quale la spesa pubblica non è indirizzata ad un reale
rafforzamento infrastrutturale del Paese e ad una efficiente produzione di
servizi pubblici, anzi si realizza una società con maggiori differenziazioni
sociali, in cui è sempre più ridotto il sistema di protezione sociale a favore
delle fasce di cittadini più deboli, fasce che diventano sempre più grandi andando
a comprendere anche quegli strati di società che fino a pochi anni fa erano
considerate protette (lavoratori del pubblico impiego,
artigiani e commercianti), creando quindi nuove
povertà, nuovi bisogni, ampliando in sostanza l’area dell’emarginazione
sociale complessiva, accrescendo, appunto, i “miserabili”, che non essendo
riconosciuti in quanto tali, solo perché, ad esempio, possono vantare un
piccolo reddito da lavoro precario e intermittente, non avranno neppure
riconosciuti i diritti minimi di cittadinanza.
E', invece,
possibile voltare pagina definitivamente nelle scelte di politica economica e di
politica industriale, perché le innovazioni tecnologiche permettono una più
alta produttività di impresa che deriva esclusivamente dall’incremento di produttività
del lavoro. Incrementi di produttività
che sono quindi ricchezza sociale
nel suo complesso, e perciò tali incrementi di produttività devono essere
finalizzati al miglioramento della qualità del lavoro, della qualità della
vita, a partire dalla riduzione dell’orario di lavoro, alla redistribuzione
degli aumenti di produttività al
fattore lavoro, e quindi ai disoccupati, e non solo ai profitti come è avvenuto
in particolare in questi ultimi venti anni.
La società del
terziario avanzato crea nuovi bisogni, ma con l’attuale modello di sviluppo
crea nel contempo nuove esclusioni. Diventa allora strategico porre al centro
del dibattito una progettualità complessiva per un diverso modello di sviluppo, solidale socio-ecocompatibile, in cui
strategiche siano le compatibilità
ambientali, la qualità della vita,
il soddisfacimento dei nuovi bisogni,
la centralità del lavoro e la
valorizzazione del tempo
liberato, la redistribuzione del reddito, del valore e la socializzazione
dell’accumulazione, della ricchezza complessivamente prodotta.
Non si tratta, quindi, di riproporre semplici forme di
intervento esclusivamente sul fronte della distribuzione del reddito ma rientrare
con nuovi strumenti nel conflitto capitale-lavoro, che di fatto è più duro
e diversificato di un tempo, a
partire dalle nuove soggettualità del conflitto sociale riorganizzando l’unità di interessi del mondo del lavoro , la solidarietà e la
forza che negli anni ’60 e ’70 la classe operaia si era data a partire
dall’organizzazione in fabbrica. Per far ciò bisogna saper coniugare un
forte, rinnovato e antagonista sindacalismo
del lavoro ad un nuovo, e altrettanto antagonista, sindacalismo
del territorio che rivendichi la redistribuzione
sociale della ricchezza incidendo profondamente sui processi di
accumulazione capitalistica,
a partire da una diversa politica fiscale redistributiva che finalmente colpisca e
non favorisca in maniera indiscriminata il fattore capitale.
In
questi ultimi venti anni il rallentamento dello sviluppo economico che ha
causato una elevata crescita dei livelli di disoccupazione, ha fatto sì che si
sia incrementato a dismisura il livello della pressione fiscale. Le conseguenze
di questo incremento sono state avvertite soprattutto dai lavoratori in quanto
non è stato possibile o non si è voluto cercare di aumentare il prelievo
fiscale sul capitale, adducendo il fatto che i capitali sono sempre più
mobili e convergono verso paesi nei quali il costo del lavoro è molto basso. Il
sistema fiscale italiano insiste nell'assoluta persistenza di protezione
dell'evasione e dell'elusione e di continui e massicci trasferimenti,
agevolazioni ed incentivi alle imprese. Si consideri che negli ultimi anni
mediamente oltre i due terzi delle società` di capitale denunciano un IRPEG
negativa, e più del 25% dimostrano di realizzare un reddito imponibile al di
sotto dei 20 milioni; senza considerare che la stragrande maggioranza dei
lavoratori autonomi denunciano redditi inferiori ai loro dipendenti;
l’evasione fiscale e contributiva tocca ormai i 350.000 miliardi annui.
All'opposto invece i lavoratori dipendenti, i pensionati e i redditi da famiglia
in genere sono giunti a carichi contributivi ormai insostenibili. Ed allora
bisogna trovare politiche, sistemi di controllo in grado effettivamente di snidare i grandi evasori fiscali, con un profitto e una rendita che
non siano di fatto esentati dalla contribuzione; invertendo così la tendenza che vede ormai dal 1970 la quota
dei trasferimenti di reddito allo Stato sempre più aumentare a scapito delle
famiglie e a vantaggio delle imprese.
Va allora posta come perno
centrale delle politiche economiche una lotta seria all'evasione ed elusione
fiscale in modo da ampliare le possibilità di intervento dello Stato sociale,
abbandonando le politiche monetariste restrittive, le politiche neo-liberiste
dei tagli alla spesa sociale, della mobilita e flessibilità, di un sistema dei
diritti che si trasforma in benevola carità cristiana, ma piuttosto realizzando
una incisiva politica delle entrate che finalmente punti ad una vera riduzione
dell'evasione fiscale ed una seria tassazione dei capitali.
Le risorse
finanziarie ci sono e sono disponibili per il rafforzamento di un Welfare State
non più e non solo della semplice cittadinanza, ma di uno Stato Sociale
che, oltre a redistribuire reddito, socializzi l’accumulazione del
capitale, distribuisca cioè ricchezza derivante da incrementi di produttività
che sono andati ad esclusivo vantaggio del capitale e non del lavoro; allora
tali risorse finanziarie devono essere prelevate attraverso una seria e decisa
tassazione dei capitali nelle
sue diverse forme: tassazione organica ed uniforme dei capital gains, dei
capitali finanziari e speculativi, degli investimenti diretti esteri, delle
transazioni all'estero dei capitali finanziari. E’ soltanto per questo che
abbiamo aderito, e siamo stati tra i primi promotori di una campagna di
iniziativa politico-economica internazionale e di civilità che realizzi la
cosiddetta Tobin Tax, oggi condivisa strumentalmente anche da alcuni governi conservatori.
Tassare finalmente nei modi diversi suddetti il
capitale, fino a giungere anche alla tassazione
dell’innovazione tecnologica, caricando gli stessi oneri gravanti sulla
forza lavoro che va a sostituire,
effettuare degli appropriati controlli attraverso un’anagrafe patrimoniale ed
una efficiente anagrafe tributaria, significa far riappropriare i ceti meno
abbienti della popolazione, i lavoratori, composti da occupati e non occupati,
di quella ricchezza sociale da loro stessi prodotta e realizzata e che si è
sostanziata nel tempo in quegli incrementi di produttività che sono andati fino
ad oggi ad esclusivo vantaggio del capitale.
Non si riesce a capire che, anche in un'ottica
riformista e assolutamente
minimale, i nuovi indirizzi di politica economica devono essere assolutamente
finalizzati alla lotta alla disoccupazione
strutturale creando nuove possibilità di lavoro ad utilità sociale e
collettiva, realizzando produzioni non
necessariamente mercantili, allargando le possibilità del lavoro femminile,
del lavoro agli immigrati, del lavoro ai giovani; di mettere in atto una seria
politica di riduzione generalizzata, sia in senso settoriale sia in senso
terrioriale, dell’orario di lavoro a parità di salario, che riguardi anche
fortemente il terziario pubblico e privato, le piccole e micro imprese, di
riconoscere il “Reddito Sociale Minimo”,
ai disoccupati, ai precari, ai pensionati al minimo.
La capacità di analisi
scientifica e di iniziativa politica deve partire dal fissare regole
di controtendenza rispetto alla società dell’impresa e delle
privatizzazioni in cui lo Stato ridiventi non solo garante degli equilibri,
controllore, ma almeno da subito uno
Stato interventista e occupatore, che crei nuovo e diverso lavoro
non mercantile, capace di attuare e regolare l’efficienza del sistema
orientato al rafforzamento di un nuovo Welfare State che soddisfi nuovi bisogni,
a partire da un nuovo e più moderno sistema della qualità della vita.
E’
in ambito di questo programma minimo
per il lavoro e le eco-socio-compatibilità solidali che vanno recuperati in
termini redistributivi gli immensi incrementi di produttività che si sono
realizzati in particolare in questi due ultimi decenni, rivendicando da subito
una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario reale,
ponendo le basi per creare nuova occupazione a partire da lavori a compatibilità
sociale e ambientale e di pubblica utilità con pieni diritti e piena
retribuzione, assumendo da subito tutti i LSU nella Pubblica Amministrazione, con
pieni diritti e pieno stipendio, creando “posti fissi” tanto disprezzati da
D'Alema, rafforzando nel contempo il Welfare State tramite incrementi delle
entrate del bilancio pubblico determinate dalla tassazione dei capitali, in modo da poter inserire nella spesa
sociale anche il Reddito Sociale Minimo
europeo da distribuire ai disoccupati, ai precari, ai marginali.
Sulla
assunzione immediata dei LSU nella Pubblica Amministrazione e sull'istituzione
del Reddito Sociale Minimo, il CESTES si è fatto promotore di iniziative di
lotta, di riflessione, di leggi appositamente proposte e depositate insieme alle
RdB, all'Unione Popolare e a tante altre strutture dell'associazionismo di base.
Ciò anche
perché pensiamo che al centro dell’iniziativa politica e sociale debbano
ritornare le associazioni di base, i comitati di quartiere, le forme organizzate
del dissenso nel territorio, il sindacalismo di classe, cioè l’insieme di
quelle organizzazioni del lavoro e del
lavoro negato che non scelgono il consociativismo, ma che anzi sappiano
porre come immediato il problema del potere attraverso la distribuzione sociale del valore e
della ricchezza complessivamente prodotta, riassumendo nel contempo i nuovi
soggetti della trasformazione sociale, le nuove povertà, le fasce deboli della
popolazione, come definizione di una ricca risorsa dell’antagonismo sociale.
E'
per questi motivi che il CESTES e
la rivista PROTEO intendono promuovere, a partire da questa assemblea, momenti
di riflessione, di mobilitazione costituendo già da subito un coordinamento nazionale formato da forze sindacali, sociali,
politiche e intellettuali che vogliono battersi contro le linee di politica
economica di questo Governo, "contro
il Welfare dei miserabili", appunto, per poter decidere insieme
percorsi capaci di fissare regole di controtendenza rispetto alla logica del
Profit State, per l'affermazione di un
nuovo Welfare basato sull'uso sociale della ricchezza prodotta.
Invitiamo,
pertanto, tutti a farci pervenire al più presto agli indirizzi del
CESTES le adesioni a tale comitato che dovrà effettuare il suo prossimo
incontro entro questo mese di ottobre, per decidere insieme le iniziative
culturali e di mobilitazione da intraprendere.
CESTES,
Via
Appia Nuova 96,
00183 Roma tel./fax 0670491956; 067003832
e.mail : cestes @tin.it; luvasapo@box.tin.it,
sito web: http://www.ppl.it/proteo
[1]
Professore di Statistica Aziendale alla Fac. di Sc. Statistiche,
Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Direttore Scientifico del
Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES)-PROTEO. Per una più
articolata disamina dei temi trattati in questa relazione si veda :
R.Martufi, L.Vasapollo "Profit State, redistribuzione
dell'accumulazione e reddito sociale minimo", La Città del Sole,
Napoli, 1999.