Domenica 27 gennaio 2002 "il manifesto" ha
dedicato il proprio editoriale, firmato da Riccardo Barenghi, alla sinistra
o meglio ad una proposta per la sinistra dal titolo emblematico “dal centro
alla sinistra”. Ancora una volta Barenghi evita di prendere in considerazione
una sinistra ampia, un pezzo dell'Italia viva che c'è, lotta, si organizza (o
meno), resiste e propone e che non si riconosce, pur condividendone non pochi
percorsi ed idee, nel centrosinistra (in particolare l'ormai noto "correntone"),
nel PRC (questa o quella mozione) e il movimento no-global. Totale rispetto per
le opinioni espresse ma, ormai, sta diventando una scelta palese umiliare,
ignorare e, quindi, mortificare non poche intelligenze, capacità, uomini e
donne che fanno parte del vasto mondo della sinistra critica, antagonista,
rivoluzionaria. E, indubbiamente, non è neppure una distrazione oscurare
accadimenti in Italia e nel pianeta e i loro protagonisti se questi non
rientrano in una “convinzione” che rifiuta insieme ad ogni novità una sorta
di “altro” anche se, poi, se ne può parlare quando cambiano i soggetti
coinvolti (vale per il Chiapas, un corteo per i migranti, popoli in lotta, un
convegno, una rivista, forum mondiali o nostrani e via elencando). E’ un
dovere parlarne se si accetta (come proposto da “il manifesto”) che il
quotidiano sia di chi lo fa ma anche di chi lo legge, lo sostiene, lo diffonde,
ne acquista azioni o un abbonamento. E in particolare è sempre meno
comprensibile che un giornale comunista parli con distacco di socialismo e
sempre più di generici “altri mondi”, parzialmente di conflitto di classe e
con esagerazione di conflitti auspicati dalle stesse classi dominanti o
circoscritti alla richiesta di un “capitalismo cedevole e riformato”,
raramente di organizzazioni di base e di classe e senza limiti di movimenti (che
rispettiamo e dai quali non intendiamo estraniarci) che vivono la politica al di
fuori di una direzione consapevole e di un programma ed un progetto per mutare,
precisandolo, lo stato di cose presente (mentre resistere ed avanzare è un
inevitabile tutt’uno quanto la necessità di capire il presente vivendolo
oltre ogni ortodossia in un giusto rapporto con la memoria, tra successi e
nefandezze, e la prospettiva tutta da edificare). Ma mi sembra che la cosa più
grave sia un generico parlare di unità, forzandola, come se dovesse compiersi
un miracolo risolutivo, contro ogni frammentazione (limitata a pochi soggetti),
non nell’agire pratico ed estraniandola da un “piano” e da contenuti seri
che ci impongono riflessioni sulla nostra Costituzione, il sistema elettorale,
il ruolo delle Istituzioni e una riforma dello Stato dalla parte dei lavoratori
in primis e delle moltitudini in generale e ancora su questa Europa ed, inoltre,
sul pianeta in generale. L’articolo di Enrique Dussel, sempre pubblicato da
“il manifesto” nel dicembre del 2001 aiuta a comprendere meglio quanto vado
affermando contro ogni ipocrisia e dentro il desiderio di saperci parte di
questo tempo. Ma vi è un problema, già vissuto come scrittore o per L’Unità
o per Avvenimenti o per la rivista di DP o per i nipotini, che riguarda il ruolo
della stampa in questa fase (inoltrarci su quello dell’informazione
complessiva come “quarto potere” e come ulteriore manu militari deviante e
deviata monopolizzata dalle attuali classi dominanti e dal fondamentalismo di
mercato mi sembra richieda spazi più idonei ed è interessante in questo senso
il lavoro, anch’esso ignorato, portato avanti dal Forum Diritto a Comunicare
coordinato da Enrico Giardino). Scriveva Antonio Gramsci: “è un dovere
dell’attività giornalistica (nelle sue varie manifestazioni) seguire e
controllare tutti i movimenti e i centri intellettuali che esistono e si formano
nel Paese – e anche oltre – cioè con l’esclusione appena di quelli che
hanno un carattere arbitrario e pazzesco: sebbene anche questi, col tono che si
meritano, devono essere per lo meno registrati”. Barenghi deve averne
registrati di pazzeschi una miriade enorme anche a sinistra! Perché appunto
tanti sono e rappresentano, tra errori e limiti che non mancano, uomini e donne
con storie, esperienze che non si sono tirati in disparte e che vivono con
passione, entusiasmo, speranze e non occasionalmente un
sogno di liberazione al plurale. Trattando di politica (nella società,
parlamentare ecc.), poi, bisogna sempre tener presente che questa rimanda a
riflessioni non solo sul rapporto tra struttura e sovrastruttura, tra teoria e
prassi e altri non dualismi ma anche a considerazioni non superficiali su
tattica e strategia, la stessa ideologia e senza queste condizioni da arricchire
predisponendo lotte quotidiane collegate ad uno scopo finale non ambiguo o
banalmente “conformistico” è complesso parlare di unità e di autonomie.
E’ preoccupante il silenzio del quotidiano comunista riguardo grandi
appuntamenti (Buenos Aires, comitati bolivariani, l’incontro de L’Avana,
quello di San Paolo e quello prossimo di Bruxelles e tanti altri
anche in Italia con FZLN o Alberto Granado e una, dieci, cento iniziative
nei luoghi di lavoro, di studio, sedi improvvisate, piazze non irrilevanti ecc.)
recentemente svoltisi quanto l’abbracciare battaglie (vedi Tobin Tax o debito
estero) sempre più vuote di contenuti riguardo il Lavoro e il non lavoro, il
modello di sviluppo, proposte di Reddito, lavorare meno e tutti a parità di
salario o per sintetizzare il predisporre mezzi adeguati e necessari per
mutazioni di fondo o almeno per l’inserimento di elementi vitali di socialismo
nelle società. Il giornale, escludendo idee ed organizzazioni e riducendo
l’esistenza dell’esistente a sinistra, assolutizza il suo stesso linguaggio
e la sua comunicazione e va a condizionare i suoi lettori fino a proporre
riferimenti (anche quando non lo sono) e leader come organici, veri e
rappresentativi favorendo una visione parziale della realtà e rendendola la
sola. Quello che Barenghi fa, con consapevolezza ripetuta, nei suoi editoriali
è cogliere sentimenti diffusi tra una supposta maggioranza di lettori e
valorizzarli come “senso comune” di tutta la sinistra. In questo caso non vi
è disinformazione ma notizie dalle gambe corte che all’apparenza appaiono
come proposta di unità ma la stessa già individua chi ne deve essere egemone,
chi parte e chi escluso (o disponibile individualmente e senza altre pretese: un
po’ come quando si parla di crisi della militanza e mai di militanza
calpestata o di popoli in lotta senza specificare che gli stessi, a volte, sono
resi “morti da resuscitare” solo in determinate occasioni). Quella di
Barenghi è una corrente di pensiero, in un epoca in cui sono sempre più scarni
gli spazi per vivere e fare politica, cultura ecc., che rende un servizio solo
ad una parte del grande universo nel quale ci “confondiamo”. Non possiamo
eludere dibattiti su tali questioni anche perché abbiamo bisogno di
un’informazione che abbia un carattere formativo, critico, e che viva aderendo
alla realtà in generale e a sinistra alla molteplicità delle sue anime
(anticapitalistiche o puramente contestative) per non condannarci a nuove
sconfitte (sia che vinca il centrosinistra o il centrodestra) e per rifiutare un
bipolarismo nell’alternanza alieno alla nostra storia, cultura e idea di
futuro (quanto a quella del Paese). L’errore più grossolano è quello di
ergersi a super-partes mentre non lo siamo mai e il creare illusioni teoriche o
nella prassi (illuminismo fuori tempo) che allontanano ancora di più i tanti
delusi e invitano alla rassegnazione e a un maggior distacco tra popolo ed
istituzioni, tra generazioni, tra popolo e organizzazioni politiche riducendo
all’individualismo anche coloro che lo rigettano. Il raggio di sole emanato da
Barenghi dimentica di passare per prismi diversi e peggio oscura non pochi senza
nome, senza volto e senza voce che pure sono il cuore e la ragione palpitanti
che riempiono di fatto le piazze, che danno senso ad ogni lotta, ad ogni
nostra iniziativa e che chiedono che si riparta dal basso, con proposte chiare
per rifondare una sinistra smarrita, confusa e dimentica dei valori e delle
ragioni che ne giustificano la stessa esistenza, alla ricerca di combinazioni
quantitative e non qualitative, vittima di un’etica dell’avere che elimina
quella dell’essere mentre sempre più dirompente è il rischio che noi si
diventi tutti spettatori della decomposizione delle classi in lotta sullo stesso
terreno che le ha generate. Barenghi ci invita a vedere l’albero (Quercia o
Ulivo fa lo stesso) che perde le foglie e inizia a seccarsi invitandoci a
diventarne cespuglio o a curarlo, concimarlo disinteressatamente mentre noi
abbiamo l’urgenza di intervenire alla radice e al tempo stesso di valorizzare
ogni cosa che riguarda oltre l’albero tutto l’ambiente circostante e le
mille cose con le quali sta in relazione. Parlarne è un’esigenza che deriva
anche dal ruolo che oggi (come in fondo ai tempi di Giolitti in modi diversi)
assume l’informazione e la stampa tutta che in assenza di partiti organici e
storici affida alle stesse l’essere la rappresentazione di pensieri ed
orientamenti politici (correnti, gruppi di pressione inclusi, lobbies ecc.) e lo
stesso che fare, quando, dove, con chi. Non è un caso, in piena gestione della
crisi strutturale del sistema (e anche della sinistra), il moltiplicarsi di
strumenti informativi (cartacei e prodotti dello sviluppo tecnologico) e al
tempo stesso il loro controllo oltre ogni ipotesi. L’Italia, in particolare e
in tempi di ipocrisia diffusa, ha sempre di più un’informazione
“accentrata” e uno Stato del Profitto che ne favorisce la
“privatizzazione” e sarebbe davvero drammatico che anche a sinistra
l’informazione contempli solo parzialmente la stessa e identificandola
unicamente ed esclusivamente con il potere (elezioni), i numeri (iscritti,
percentuali di consenso) e le opportunità immediate e non durature (sconfiggere
le destre, richieste difensive e puramente riformistiche: altro è lo stesso
riformismo come scelta tattica per cambiamenti di fondo). Ciò che, umilmente,
si chiede anche a Barenghi e che informi il suo “pubblico” e ne favorisca
anche una maggiore coscienza e crescita e che l’attività amministrativa non
sia condizionante per quella redazionale al fine di rendere possibile non creare
uno “stato maggiore intellettuale” ma un “intellettuale collettivo”
necessario. Appunti sintetici ma averli scritti non mi ha gettato nello
sconforto e nella solitudine che ho vissuto domenica leggendo l’editoriale e
mi ha aiutato a pensare che non siamo stati sconfitti e che neppure siamo
costretti a vivere senza essere critici, senza atti di libertà, senza
rinunciare alle nostre diversità auspicando una grande sinistra alternativa che
sappia specificarsi oggi e specificare il fine per cui intende proporsi come
combattente pratica unita consapevolmente e non dentro le priorità che sembrano
stabilite da volontà divine e non dagli esseri umani. Per fortuna la storia “è
un continuo farsi e quindi incredibilmente imprevedibile”.
Michele Capuano
Segretario Nazionale Democrazia Popolare