La guerra e la Pace
di Michele Capuano
segretario di Democrazia Popolare

La guerra non è mai un evento occasionale, irrazionale o dettato da semplici accadimenti economici o da sconvolgenti azioni scatenanti (il terrorismo o gli attentati rientrano in questa categoria) ma uno strumento strutturale e interno al modo di produzione capitalistico e ai processi di accumulazione. Guerra: dal germanico Wèrra in senso di contesa. E’ ovvio che qui non parleremo di guerre di Liberazione e riteniamo anche improprio il termine: Resistenza, lotta per la libertà o per la Liberazione o Rivoluzione ci sembrano più idonei a distinguere le guerre dalla fatica non indolore di lottare per evitarle o per conquistare un mondo migliore. Dopo il crollo del Muro i conflitti armati nel pianeta sono aumentati e non diminuiti mentre i pericoli di distruzione nucleare vedono protagoniste più nazioni e spostano il confronto (non-confronto) Est-Ovest verso Sud inventando “guerre necessarie” come a farci dimenticare i motivi  veri delle stesse. Guerre sempre più sofisticate in uno scenario in cui l’economia di mercato è dominata fortemente dal capitale finanziario e dalle grandi società transnazionali con crescenti interdipendenze e divari sempre più incolmabili tra Stati e continenti. Tuttavia, oggi, la guerra non è occasione sostanziale di immediata ripresa produttiva (necessita un’attività armata di lunga decorrenza almeno per ipotizzarlo) né di recupero occupazionale nonostante vengano coinvolte tecnologie civili a fini militari. Intanto cresce il commercio clandestino di armi, cambiano i primati nell’esportazione delle stesse e si afferma un disarmo politico allarmante e con esso delle ragioni di classe per la pace. La cosa più sorprendente, poi, nel presente e nel recente passato, è il bisogno di avere un nemico sempre più invisibile o ascrivibile alla categoria del male da contrapporre al bene. Il bene è Saddam contro i kurdi e il male è Saddam contro la civiltà. Il bene sono i talebani contro l’est e il male sono i talebani contro la democrazia e via elencando. Fidel è definito un dittatore e pertanto per gli USA è meritevole di embargo: Batista o Pinochet probabilmente sono ed erano dei democratici. Nel comunicato di Democrazia Popolare, dopo gli sconvolgenti e folli attentati di New York, si legge: “qualsiasi attentato terroristico va irrimediabilmente condannato. Il terrorismo, aldilà degli obiettivi colpiti, è e rimane il più grande nemico delle forze del lavoro, del progresso, della democrazia, della pace, della stessa lotta di liberazione dei popoli contro l’organizzazione mondiale delle disuguaglianze. I governi degli Stati Uniti d’America non raramente si sono resi responsabili di crimini feroci (Vietnam e prepotenze coloniali, schiavismo e razzismo, aggressioni militari incontrollate e non dichiarate, devastazioni ambientali, embarghi come nuova forma di genocidio e via ricordando) e, ancora oggi con l’amministrazione del rampollo Bush (dopo il cinismo guerrafondaio del padre già in affari con la famiglia Bin Laden e le complicità con il nazismo di Prescott e Sam Bush con il nazismo), sono i prepotenti dirigenti di una nuova corsa al riarmo che mentre mortifica l’ONU inventa una nuova militarizzazione planetaria fino alle proposte inaudite di “scudi stellari” e rinnovamento delle tecnologie nucleari. Molto fanatismo religioso o intere organizzazioni paramilitari sparse per il mondo hanno avuto negli USA sostegno, finanziamento e approvazione al pari del capitalismo illegale che ha inquinato la dignità di popoli interi in una guerra senza precedenti dichiarata all’umanità stessa. Sappiamo, dunque, che una spirale perversa è stata messa in moto favorendo una violenza nata da un’economia di guerra (in particolare dopo la caduta del Muro) e da una politica della prepotenza e del più forte dalla quale traggono vantaggi classi esclusive e dominanti in nome del profitto per pochi ai danni delle moltitudini. Ancora una volta, tuttavia, le vittime vere della violenza sono masse inermi (e tra queste sono oltre trecento i musulmani periti nel crollo delle torri di New York, senza documenti vari e poveri cristi e milioni in tutto il pianeta) mentre si propone ancora conflitto cruento e rimarranno irrisolti i grandi mali che attanagliano la gran parte degli esseri viventi e ogni risorsa. Noi siamo e dobbiamo essere contro il terrorismo (grembo fecondo per l’avanzare di una nuova barbarie e per mortificare la libertà e la stessa idea di civiltà). Dobbiamo condannare fermamente, senza tentennamenti, gli attentati sanguinari e indiscriminati negli USA e contro chiunque, in qualsiasi parte del globo, e ogni altra forma di violenza che ne può derivare. Ora è il momento, per ogni organizzazione che si richiama a valori profondi e che ha nei propri progetti un mondo migliore dove alberghi una nuova qualità della vita e l’emancipazione del popolo degli uomini e delle donne, dove la grande lotta sia alle ingiustizie e per un nuovo mondo possibile, di dimostrare la maturità del nostro pensare ed agire. E’ necessario mobilitarsi in ogni città non contro ma per…: è importante aggregare masse diverse per parlare di pace, disarmo, convivenza civile e democratica, per ostacolare la follia delle spese militari mentre fame, carestie, mancanza di cura uccidono senza pietà milioni di nostri fratelli e nostre sorelle, per dire no alla NATO e per una riforma radicale dell’ONU, la riforma alla radice delle strutture di Bretton Woods, l’indipendenza di ogni popolo e una cooperazione per lo sviluppo e non per lo sfruttamento, per chiedere la fine di ogni embargo, per risolvere definitivamente la questione del debito estero delle periferie del pianeta, per un nuovo internazionalismo: …un impegno che se tarda ci vedrà spettatori della decomposizione e la morte delle stesse classi in lotta sullo stesso terreno che le ha generate. Un generico no alla guerra appartiene anche a coloro che non vogliono veder intaccata la loro tranquillità oppure ad un essere pacifici sempre e comunque… non deve appartenerci”. Ci sembra di aver sintetizzato le nostre idee ma dobbiamo, necessariamente, approfondire la tematica. Non vivere, anche sbagliando, con pressappochismo gli avvenimenti. Non limitarci ad una analisi ingenua e parziale del rapporto capitale e lavoro, guerra e pace, bene e male. La “guerra fredda” si va facendo sostituire da una “guerra calda ed infinita” e mentre sgomitando si fanno largo in Borsa le azioni dell’industria bellica il capitalismo sembra non avere altra allarmante preoccupazione che la sorte di Wall Street addossando ad atti terroristici ciniche e precedenti scelte neo-globalizzanti di una economia in crisi strutturale. E’ ancora una volta la gestione della crisi appunto il faro per interpretare un presente tenebroso. Noi sappiamo che il lavoro “ha creato” l’uomo e che il furto dello stesso ineguaglianze, ingiustizie, oppressione, violenza e atti barbari che parafrasando una vecchia frase di Engels rendono parte dell’umanità sempre più simile a quegli ovini che pascolando distruggono la fonte della propria alimentazione, spogliano i monti fino a divenire parassiti di altri esseri che ne faranno carne da macello: è un po’ riconoscere che “chi semina vento raccoglie tempesta” consapevoli che appartiene alla natura l’agire degli ovini ed è innaturale l’agire di alcuni esseri viventi. Se utilizzassimo un po’ meglio la memoria eviteremmo il ripetersi di tanti e nefandi orrori del passato (crociate, olocausti, vandalismi, fascismi e nazismo…). L’Homo Sapiens-Sapiens sembra non possedere più accanto al programma genetico quello della ereditarietà sociale ovvero la coscienza che gli ha permesso ogni adattamento in forme sempre nuove e che potrebbe accompagnarlo, anche nel presente, aldilà di evoluzioni genetiche, oltre la stessa rivoluzione tecnico-scientifica, verso una società che per bisogno di sintesi ancora chiamiamo alternativa e che implica la rivoluzione dell’uomo appunto come base per ogni altro positivo mutamento stabile e duraturo e sempre suscettibile di continui miglioramenti o rivoluzioni. Smarrito il valore dell’ereditarietà sociale siamo andati, altresì, a riproporre, in una società moderna priva di modernità, nonostante l’uomo sia anche un unicum genetico, un nuovo e globalizzante primitivismo (economico, politico, culturale, sociale…) che si auto-definisce neo-liberismo e che nega l’affermarsi delle stesse qualità umane insieme all’idea concreta e vera di civiltà. La guerra è parte di questo primitivismo incastrata com’è nell’etica dell’avere contro l’etica dell’essere. L’uomo senza coscienza è massa e in questa situazione serpeggiano regresso e potere del più forte. Le guerre allora sono anche una sfida che comunque non premia la parte più dinamica della specie ma la più parassitaria direttamente collegata al burocratismo. Il burocratismo militare, ad esempio, si lega saldamente all’ideologia “imperiale” e del profitto per pochi e determina processi di corruzione e di prepotenza che scatenandosi sono portatori di gravi atti e lutti enormi: fondamentalismi, integralismi religiosi, terrorismo, conflitti etnici, razzismo e un disordine che “produce” grandi drammi nella vita semplice di milioni di uomini e donne. Andiamo per sintesi e, quindi, sappiamo che possiamo aprirci anche a malintesi. 

1)       Il burocratismo militare è parte sostanziale dell’economia di guerra. L’economia di guerra richiede, infatti, un vasto apparato di quadri diretti “ciecamente” da una gerarchia che, inevitabilmente, rende meno democratica la stessa gestione dello Stato, quando questo non viene sopraffatto in parte o totalmente,  amplificando conflitti e investimenti in armi. La lotta a tale burocratismo va di pari passo con la lotta per il disarmo. Le banche (movimentando anche denaro di dubbia provenienza: molto proviene dai ricchi fondamentalisti, dittature reazionarie, l’oppio e il mercato della droga, il furto di materie prime ecc.) intervengono nelle economie di guerra razionalmente e anche per garantirsi movimenti speculativi vantaggiosi (le infrastrutture, ad esempio, rientrano in tale movimento e generalmente “la ricostruzione”). La guerra, allora, è, oggettivamente, consentire “diritti protetti” all’industria pesante, alla grande industria in genere e ad investitori internazionali che acutizzano lo stesso conflitto tra capitalismo stazionario e in progresso, tra industria-guida e produzione generica e prevedono per i popoli solo doveri (tra cui quello di morire per il trionfo del bene). La capacità di realizzare profitto, in una condizione di guerra, sconfina con l’usura per come la conosciamo, con una partecipazione alle spese “imposta” o fondata su alleanze subordinate, dipendenza o ricatto. Brutalmente affermiamo: le guerre costituiscono un fattore insostituibile del capitalismo, l’essenza dell’imperialismo. Non è casuale che esse si accompagnano anche a scelte contro i diritti dei migranti, del lavoro, umani in genere. La guerra è uno dei mezzi per il dominio di classe in primis, per l’impiego di parte del capitale finanziario e industriale poi, per il riequilibrio di poteri tra classe dominante e i “suoi” giullari che essa ha come necessità foraggiato. Pensate quanto sarebbe sconvolgente se si tentasse di aprire anche una lotta dentro il movimento pacifista finalizzata non al mutare lo stato di cose presente ma a scopi elettoralistici o per la leadership di un gruppo o partito orientato per la pace verso un altro che pure ha identici scopi o peggio se la pace fosse sinonimo di conservatorismo come cultura piccolo-borghese o uno scontro tra guerra e pace generico escludendo il conflitto reale… (fatto comunque importante e non da sottovalutare).

2)       Parafrasando Rosa Luxemburg la guerra, ovvero il militarismo, è una malattia del sistema capitalistico, una droga da sniffare per esprimere potenza, energia per quanto negativa, dominio. Se le religioni sono l’oppio dei popoli la guerra è eroina di prima scelta. La comunicazione deviante e deviata (come taluni servizi segreti: devianti e deviati) sta alla guerra e alla strumentalizzazione delle sue cause scatenanti, più che mai in tempi di produzione immateriale e di flessibilità globalizzata, come ulteriore “manu militari”. L’ipocrisia la fa da padrona…

3)       La guerra è inoltre l’intensificazione dell’immiserimento (anche ideologico: usiamo il termine per semplificare) dell’epoca imperiale (analizzato da Marx e Lenin e che tuttavia non dobbiamo consultare dogmaticamente ma sempre criticamente), un prodotto cioè che non esclude su richiami passionali (democrazia, civiltà, lotta alle centrali del terrore ecc.) un “compromesso sociale” tra le classi (Keynes ci aiuta a ricordare? In parte si e in parte no). Oggi un progetto di “compromesso sociale” è smentito aprioristicamente dal neo-liberismo, dal ruolo del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, della Nato e dei processi di accumulazione… Il neo-liberismo abusa dello stesso termine utilizzato. Nel periodo tra le due guerre la contraddizione più evidente del capitalismo consisteva nell’occupare la forza-lavoro senza risolvere il problema della disoccupazione di massa e di crisi appunto: con la ricostruzione, il riarmo e aspetti collegati il capitale inventò il boom, miraggi economici, miracoli, opportunità d’impiego. Oggi questo panorama appare già all’origine offuscato anche se dentro tali illusioni si muovono gli attuali conflitti  con la pretesa di un “controllo multinazionale” del capitale finanziario sui processi fatti esplodere: guerre di ampio raggio, lotte e conflitti regionali o di chiara marca religiosa, risposta ad attentati e intolleranze ideologiche con la pretesa di sconfiggerle ecc. In realtà la situazione è e sarà che la maggioranza dell’umanità ha peggiorato e peggiorerà le proprie condizioni di vita né è ipotizzabile un suo evolversi anche dinanzi a nuovi scenari di guerra (alcuni già consumati o in corso) che non vanno oltre gli angusti confini di una semplice gestione della crisi non ciclica del sistema: pertanto va ad esaurirsi quello che in gergo economico si chiama “ciclo di sostituzione” o della ripresa produttiva.  Si continuerà a “garantire” benessere per alcune minoranze (particolarmente nei Paesi a capitalismo avanzato o per leader asserviti dei Paesi che definiamo genericamente altri) continuando a saccheggiare le risorse (anche umane) del resto del pianeta mentre non è garantito il miglioramento di vita della stessa classe operaia e dei lavoratori complessivi nell’imposizione di lavoro part-time, in nero, flessibile, sottopagato accompagnato da liberi licenziamenti, nuovo caporalato con interesse verso i migranti da selezionare, privatizzazioni selvagge, connubi con mafie e poteri sempre meno evidenti con accrescimento dei dislivelli tra ricchezza e dominati. Osiamo affermare: i profitti di guerra rendono oggi meno evidenti i dislivelli tra le classi ma li determinano energicamente. Pertanto il capitale non ha bisogno di una guerra di tipo tradizionale ma di lunga durata e verso obiettivi sempre più ampi e di volta in volta corrispondenti a bisogni ed esigenze esclusive. Una sorta di guerra dei cento anni (infinita), dopo quelle appena consumate, che richiede commesse militari sempre più moderne e complesse come ben evidenziato nel rilancio della pratica delle mine anti-uomo, nella proposta di scudo stellare, nella guerra batteriologica, nell’uso amplificato del nucleare, nel coinvolgimento di ogni sviluppo tecnologico anche civile nella corsa agli armamenti ecc. Da qui la consapevolezza che il capitalismo nella sua fase “imperiale” determina per sé una produzione non per il consumo ma unicamente per il profitto riproponendo, come accadde per l’uomo agli esordi della specie, paure, incertezze, terrore e scomparsa dei valori della solidarietà e della cooperazione…

4)       Il terrorismo non è la guerra: è un atto vile, violento, disumano, folle. Attenzione a non confondere le lotte di liberazione con lo stesso, i partigiani con i terroristi. Questo è quanto fece il nazismo e che per  vie diverse viene riproposto nel presente con il  Plan Colombia, ostacolando la riunificazione tra le Coree, insistendo con embarghi (moderna forma di genocidio), negando a popoli interi (Palestina, Kurdistan, Paesi asiatici, africani o americani ad esempio) i loro diritti.

5)       Una parte crescente del “plusvalore” creato dai lavoratori viene utilizzato non per un nuovo modello di sviluppo della produzione, non per il benessere e neppure per l’induzione all’acquisto ma per spese militari o nell’accumulazione di riserve che devono far crescere i “beni atti alla distruzione” peggiorando le stesse speranze di vita e l’armonioso dispiegarsi dell’intelligenza umana verso una pur tenue ma agognata tranquillità e felicità: si usa qualsiasi pretesto per convincere che tranquillità e felicità già appartengono ai più e che le stesse messe in difficoltà reclamano una volontaria partecipazione al conflitto che precede il ritorno a quella felicità e tranquillità messa in discussione appunto: è aberrante ma accade. Si evince che il capitalismo (persuasore non indifferente) è società della felicità e della libertà che genera conflitto al fine di appagare gli interessi generali dei suoi sudditi. Per il terrorismo non troviamo similitudini in quanto esso si alimenta delle logiche perverse che il capitalismo  crea mentre un vero piano per sconfiggerlo non solo non esiste ma neppure si intende realizzarlo: accade lo stesso verso il narcotraffico, le mafie internazionali, il movimento illegale di denaro e merci, il contrabbando. Ecco svelato che le guerre, per quanto “giustificate”, svolgono un ruolo non secondario, soprattutto per gli USA, per il dominio economico (e non solo) che implica una soggezione (anche psicologica) di alleati reali o potenziali e, poi, verso nemici di volta in volta individuati come tali.  Non casualmente la guerra porta con sé la morte (oltre la vita) di imprese considerate marginali, di diritti fastidiosi, di conquiste sociali.

6)       Le guerre, oggi, assumono, tra l’altro, una loro inevitabilità anche in conseguenza di un nuovo colonialismo che reca con sé contraddizioni di tipo nuovo. Un esempio:  quale era il rapporto tra USA e Pakistan e taleban quando il “nemico” era l’URSS?  La nostra lotta è per la pace, valorizzando democraticamente e con pluralismo reale le strutture e le organizzazioni internazionali, per la pratica dei negoziati, lavorando per la partecipazione del popolo alle scelte che lo riguardano, combattendo terrorismo e poteri occulti, le meschinità di una falsa globalizzazione per un vero internazionalismo contro sviluppo ineguale e un Welfare per miserabili ecc.: per questa via si gettano i semi  per non cadere nel trabocchetto di un determinismo che invita alla rassegnazione o a contestazioni generiche quanto opportuniste e massimaliste. E’ la coscienza e non la condizione sociale (fatto comunque considerevole) a modificare i rapporti di forza a vantaggio delle classi subalterne. E questo avviene se sai stare nella società, se  proponi, se individuato un fine, dentro valori democratici ed antifascisti, sai predisporre mezzi adeguati, sufficienti e necessari (parafrasando Gramsci) per raggiungerlo.

7)       L’economia di guerra, consumate già due guerre mondiali appunto, tragici processi inflattivi e fascismi e nazismo, miracoli economici e nuova crisi ma strutturale e, ancora, neo-colonialismo e neo-liberismo ci ricordano che non viviamo nell’epoca del capitalismo astratto ma in quella del neo-imperialismo nella quale contraddizioni ed esasperazioni, coinvolgenti non solo l’economia politica e corrompenti l’intera superstruttura ideologica, ci obbligano a valorizzare senza ambiguità un conflitto reale che chiede un nuovo mondo possibile e che ne faccia individuare le cellule e le “cittadelle” nel presente contrastando “militarizzazione crescente ed emisferica” e devastanti quanto aberranti atti criminali: il terrorismo è uno di questi! La guerra è sempre in viaggio in un pianeta in cui l’85% del reddito mondiale è nelle mani di   poco più del 20% degli esseri viventi, dove un miliardo e mezzo di persone vivono in assoluta povertà e tre milioni di bambini e bambine muoiono per malattie curabilissime e banali che ci costerebbero pochi euro o dollari, in un mondo dove oltre un miliardo di persone  è analfabeta (oltre ad un analfabetismo di ritorno) mentre centinaia di milioni di ragazze e ragazzi non frequentano (ammettendone la  possibilità ovunque) scuole, vivono in strada e sono vittime di processi emarginanti difficilmente sanabili, dove centinaia di specie animali e di piante sono quotidianamente condannate all’estinzione e l’inquinamento degli elementi naturali ha assunto proporzioni apocalittiche e l’agricoltura ha ormai vaste aree logorate chimicamente al pari di ingenti quantità di prodotti alimentari in commercio, una Terra che vede scomparire ad un ritmo impressionante di circa venti milioni di ettari l’anno le sue foreste e un ambiente contaminato da bombe intelligenti e guerre appunto ecc. ecc. Contrastare le guerre e il terrorismo e i suoi agenti è dunque anche una lotta per la “sopravvivenza della specie umana”.

8)       I venti di guerra (quelli attualmente all’orizzonte e quelli passati) sono una manifestazione del sistema (considerato nel suo rapporto tra struttura e sovrastruttura) che dimostra l’inseparabilità tra crisi economica e crisi politica, ideologica ecc.. La crisi evidenzia anche un conflitto ipercapitalistico (tra poteri, aree ecc.) senza trascurare equilibri da “normalizzare” e squilibri da sanare nella loro diversità e interdipendenza: commercio interno ed internazionale, monetario, finanziario, produttivo, di movimento della forza-lavoro, di movimento dei capitali, di movimento delle merci “complessive” (con riferimento a sovrapproduzione, appropriazione delle materie prime, regolamentazione dei valori monetari ecc.). Una potenza che intende costruire o inventare egemonia su altre ha necessità anche di interventi militari e di scelte militariste per un ruolo da protagonista sulla complessa macchina del profitto valorizzando una rendita di guerra come “ingranaggio” insostituibile della stessa. Non casualmente le guerre vengono utilizzate, non esclusivamente, per accelerare una serie importante di norme e leggi che mirano ad attaccare (direttamente o indirettamente) lo stato sociale e ogni diritto. Che poi una guerra possa essere definita di religione o sollecitata da questioni religiose rappresenta una  semplice appendice all’argomento poiché ogni guerra è anche una guerra di religione, interreligiosa o comprendente una particolare visione “spirituale della vita”.

9)       Per convincere il capitalismo alla pace bisognerebbe riconoscergli la volontà nella prassi di “superare se stesso” in direzione di una società inedita. 

10)   Gli attuali conflitti rientrano nel panorama delle guerre di posizione: non prevedono nell’immediato stermini massificati né sconvolgimenti profondi tra sistemi diversi (la Cina entra nel WTO e il Vietnam diviene riferimento di scambi economici ad  esempio) e sono parte integrante di un piano economico corrispondente ad un liberismo di tipo nuovo e contraddittorio non ancora completamente compiuto e che probabilmente non deve mai compiersi mentre il processo di “appropriazione del profitto” insiste a convivere con forme pre-capitalistiche, di capitalismo classico e neo-capitalista ancorato ad un vecchio “americanismo”. Una parte del capitale sta lavorando alacremente (neo-mondializzazione) per monopolizzare (lasciando inalterate vecchie contraddizioni legate al latifondismo, al parassitismo, alle produzioni di tipo immediatamente schiavistico ecc.) non tanto e non solo la finanza  e lo stesso sviluppo tecnologico quanto materie prime, centrali illegali del profitto, proprietà e le stesse forze di coercizione (anche militare). Una guerra di posizione   può divenire guerra di movimento qualora si intervenga sull’economia politica e nella  sfera della produzione invadendo, con la complicità delle classi medie, ogni aspetto della stessa sovrastruttura e modificando concretamente l’insieme delle società: in piena crisi strutturale questo non è possibile. Non è possibile verso i popoli in via di sviluppo, ex-colonie, l’economia collegata allo sviluppo della media e piccola industria, la stessa dinamica dei movimenti borsistici, i nuovi “patti continentali” emergenti,  l’integralismo di taluni possessori di risorse energetiche, la competizione per  la   gestione di aree d’interesse economico, il permanere di società che si richiamano al socialismo distribuite a macchia di leopardo, i corsi e ricorsi storici nell’Est europeo  e asiatico e la stessa “resistenza” di movimenti “contestativi” nella loro ampia articolazione. Una guerra USA, nel presente, può avere l’ambizione di generare un’attrattiva verso uno Stato “egemonizzante” ma ciò non è né meccanico né oggettivamente “accettato” dagli stessi  eventuali alleati (gran parte dei quali opportunisticamente tali) mentre la stessa borghesia nel suo insieme non si appaga nella speranza di futuri rosei per ognuno dei suoi “concorrenti”. Rimane il bisogno di generare un conflitto senza limiti di intervento e di tempo e resiste una contesa all’interno del sistema stesso. Dovremmo rifiutare il termine mondializzazione o globalizzazione e ritornare alle analisi sul cosmopolitismo disordinato delle classi dominanti che mondializzano ingiustizie e disuguaglianze mentre centralizzano, nel grande movimento senza confini che pure in parte controllano, ricchezze e poteri. Dopo il crollo dell’URSS non a caso sono aumentate aree di conflitto e nuova barbarie mentre il capitalismo continua a vivere nell’illusione di sferrare un attacco decisivo a qualsiasi opposizione al suo sistema: definiamo senza remore tale atteggiamento non celato “misticismo del capitale o fanatismo economico ed ideologico”. Leggere i fatti del secolo appena andato e quelli in particolare degli ultimi dieci anni solo attraverso “analisi sociologiche” o “economiche” o “statistiche” (peggio se emotivamente e superficialmente) senza andare in profondità non ci aiuta né a comprenderli né a contrastarli: la guerra in Iraq o nei Balcani, in Somalia o generata tra etnie ha un rapporto concreto con il sistema, il suo difendersi dalla crisi, il suo volersi  estendere ed imporre ecc. Una grande potenza, poi, assume tale aggettivo (grande) anche attraverso la gestione della guerra (banche, produzione e mercato delle armi, controllo militare (compreso il cielo meno raggiungibile), umiliazione delle organizzazioni internazionali e pacifiste, decisionismo su ogni aspetto della vita ivi inclusi negoziati tra “Stati altri” ecc.) e stabilendo un’egemonia prima che verso un nemico verso il suo mondo: i costi della guerra devono essere entrate per la grande potenza  e spese per altri, che devono collaborare a mitigare l’avanzare di recessione, degli squilibri altalenanti tra inflazione e deflazione, allontanando, altresì, ogni “compromesso sociale” (tanto per fare degli esempi). La guerra pertanto non è mai all’apparenza una guerra di classe e potrebbe avere in gioco identici nemici delle classi appunto ma ha come fine il perpetuare di una classe sulle forze del rinnovamento. Comunque ogni forza alleata di una nazione egemonica imperialista ritiene se stessa grande potenza imponendo una falsità storica. L’imperialismo, dopo gli ultimi conflitti mondiali (in particolare dopo quello del ’15-’18), ha imparato a trasmettere al popolo l’esigenza della guerra: “guerra umanitaria”, “guerra per la pace”, ed ora “guerra giustizia infinita” o come diavolo la si voglia chiamare. Quindi la guerra è una necessità per i diritti umani, per la libertà, per la giustizia, per combattere terrorismo e mafie, per la felicità, per la civiltà, per il benessere ecc. ecc. come se questo parziale elenco di bisogni ed esigenze reali per le moltitudini non fossero negati proprio dalle classi dominanti, dai signori della guerra. In questo modo il potere intende non perdere, nonostante i morti anche tra i civili (effetti collaterali) e le devastazioni, la sua egemonia e il suo “falso riformismo”, la sua insostituibilità per le giuste sorti della democrazia e dell’appagamento di ogni speranza… Allora la guerra è un bene perché c’è il male da sconfiggere! Non si chiama forse “casa della libertà” la coalizione più autoritaria che abbia mai visto la storia della nostra giovane Repubblica antifascista? La tendenza populista nell’imporre la guerra, negli ultimi anni, è un fenomeno con il quale dobbiamo fare i conti al pari del “paternalismo” dei potenti della Terra.

11)   E’ una norma, ormai, abusare di termini e privare di utilità la stessa bussola: noi siamo il civile Occidente e dell’Occidente fanno parte la Turchia, Israele, il Giappone mentre poco tempo fa la Turchia non ne faceva parte e Cuba è al Sud del mondo mentre non lo è la Florida e la Cina è sempre più Occidentale e di certo lo sta diventando la Russia ma non la Bielorussia e l’Est è sempre meno Est e l’Oriente è di volta in volta identificato con i Governi che si alternano e via farneticando (Bossi a qualcuno si deve pur essere ispirato per i suoi deliri sul nord ed il sud). Senza la bussola del materialismo storico non potremmo più muoverci con intelligenza in questo pianeta dai punti cardinali impazziti. Vi è qui una violenza delle classi dominanti che rispetto il loro porsi all’Occidente rende avversari o fuori dalla civiltà tutti coloro che non sono parte di un tavolo che li rende occidentali appunto! La collaborazione del Pakistan o dell’India alla guerra rende questi popoli occidentali? L’aver “strizzato l’occhio” al fondamentalismo di Bin Laden nel recente passato sembra aver favorito unicamente grandi tragedie sia in Medio Oriente che assassinando cittadini inermi con attentati ignobili. Il mondo rimane diviso tra oppressori ed oppressi, sfruttati e sfruttatori, dominanti e dominati. Questa nuova guerra sembra, dunque, proporsi come soluzione “diplomatica” per oscurare che il capitalismo continua a concimare un terreno in cui si annidano un’infinità di mali che rendono incerta la vita nel suo trascorrere e ancora più nebuloso il futuro dell’umanità. Questa guerra è anche “demagogica”, alla ricerca di un consenso non solo militare ma anche “ideale” che deve tradursi poi in un’accettazione del sistema stesso nonostante la sue scelte discutibili in ogni settore della vita. Il filosofo   Benedetto Croce riteneva che tra pace e guerra (o viceversa) dovesse instaurarsi una mediazione (principio filosofico caro anche a Bernestein): l’obiettivo nascosto è quello di rendere inevitabile prima o poi un conflitto e pertanto giustificare un’economia di guerra anche in tempo di pace: non casualmente le guerre si preparano in tempo di pace e in questo tempo vengono distribuite armi per realizzarle coscienti che tanto un nemico c’è sempre, un motivo scatenante anche e se così non fosse il tutto è sempre possibile grazie alle degenerazione del fanatismo religioso, la sete di potere di alcuni individui, la ricerca disperata del profitto, la rendita da tutelare del parassitismo e della sfera burocratica, l’esistenza e l’ampliarsi di un capitalismo illegale, diritti calpestati ecc.  Fortunatamente la storia rimane un continuo processo di Liberazione.

12)   Dopo la Rivoluzione Francese, dopo le Rivoluzioni Industriali, dopo l’esperienza della Comune di Parigi, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, dopo le lotte contro il colonialismo in tanta parte del pianeta e rivoluzione vinte, perse o fallite in Asia o in Africa, chi intende trasformare le società in senso progressista ha bisogno di rinnovarsi e di aggiornare la sua tattica e la sua strategia rilanciando le parole d’ordine della lotta alla guerra, al terrorismo, al luddismo di questi giorni, al razzismo e alle disuguaglianze, al dominio di classe. Spetta ai comunisti, alle forze del rinnovamento, a realtà antagoniste…, mentre avanzano barbarie e devastazioni, ricostruire un mondo che appartenga agli uomini e alle donne, un mondo che ci è stato lasciato in prestito per consegnarlo alle generazioni future.

13)   Storicamente la guerra viveva, con vigore, in un contesto in cui il sistema nel suo insieme era oggettivamente entrato in una fase non breve di “stagnazione”. Oggi vi sono alcune sostanziali similitudini con tali passati (e recenti) scenari. Non casualmente il capitalismo non rispetta le pur mediocri previsioni riferite al suo    stesso sviluppo, all’occupazione, alla risoluzione di problemi strutturali ecc. E, sempre non casualmente, le guerre nel presente affondano le loro radici (non unicamente) nelle preoccupazioni finanziarie che tendono a proporsi come necessarie per la ristrutturazione del sistema produttivo e per una nuova espansione. Non siamo dinanzi alla morte del capitale ma certamente stiamo davanti ad un malato che non può guarire ma di cui non si conosce la fine dell’agonia che tutti e tutte coinvolge.  Non è difficile comprenderlo anche perché si ripropongono in forme sempre nuove gli stessi elementi obsoleti del capitalismo: crisi, recessione, stagnazione, finanziarizzazione, avversione alle conquiste del lavoro e ai diritti umani in genere e alle organizzazioni “antagoniste”, necessità di derubare risorse e investire comunque e dovunque, rivisitazione del commercio, insediamenti di mercati inediti ecc. Gli accadimenti, comunque, oggi, attraversano destre e sinistre con identica intensità e ricevono risposte, nella loro diversità, altrettanto mediocri fino a sostituire ad un vecchio ed errato anti-americanismo uno sbagliato “siamo tutti americani”, fino a ritenere alcune guerre giuste, fino a smarrire il bisogno di cambiamento e di alternativa, fino ad avallare la riduzione “economicistica” del vivere, fino a non svelare le cause per cui fenomeni degenerativi (dal terrorismo ai suicidi, dalle morti bianche a quelle degli “errori collaterali”, dall’inquinamento atmosferico a quello delle acque…), s’impongono. Questa guerra è allora, inoltre, una opportunità per chi vuole veder trionfare “un pensiero unico” dei dominanti e rappresenta una sorta di regolamento  di conti dinanzi a figli che di prodigo non hanno niente evitando, nel contempo, di mettere al servizio delle classi lavoratrici lo sviluppo delle forze produttive. La guerra è un grande mercato illegale mai scollegato dai meccanismi di accumulazione e la neo-globalizzazione non è l’espansione mondiale del modo di produzione capitalistico: ecco il caos verso la natura e gli uomini e le donne, le Nazioni, la distribuzione delle ricchezze, la stessa ricerca scientifica o verso l’alimentazione e l’agricoltura, gli scambi e il debito estero, la cura e la fame, i modelli di difesa ecc. Ecco allora la Potenza  per eccellenza operante per appropriarsi degli averi dei suoi “concorrenti” mettendosi sempre in condizione di essere creditrice e non debitrice e non per coincidenza il Fondo Monetario Internazionale e le altre strutture analoghe o corrispondenti lavorano in questa direzione condizionando popoli e loro scelte di sviluppo… in un’epoca in cui si è rotto ogni rapporto tra crescita quantitativa e crescita qualitativa. In sintesi e per concludere: il capitalismo non è in grado di far fronte alle sue contraddizioni e neppure alle sfide che ha lanciato pertanto  si rifugia in un’economia del regresso e nell’illusione che una guerra infinita sia la panacea di ogni male.

Quando spenderemo un secondo del nostro tacere e una piccola ed onesta lagrima per i settecentomila tutsi uccisi dagli hutu? Per le duecentomila e oltre vittime del terrorismo in Algeria? Per i trecentomila morti in Iraq e quelli in Somalia (dove ci siamo sporcati anche di violenza personale e dove ha trovato la morte perché sapeva troppo la nostra Ilaria Alpi)? E per le vittime innocenti in America Latina e le stragi in tanta parte dell’Asia, e i morti del nostro terrorismo di Stato? E quelli civili dovuti nei Balcani a clamorosi errori nel lanciare bombe intelligenti? Ecc. ecc. ecc. ecc. ecc. Il vecchio stenta a morire ed il nuovo stenta a nascere: parafrasando ancora Antonio Gramsci.

Proclamare uno sciopero nazionale ad oltranza in tutti i settori collegati o collegabili alla guerra (dalle fabbriche ai trasporti…), boicottare, per quanto invasi e complesso, qualsiasi prodotto americano (dalla benzina alla Coca…), invadere pacificamente ogni quartiere, ogni luogo di incontro, di lavoro e di studio per dire no all’economia di guerra è semplicemente un nostro dovere quanto costruire, tra filosofia della coscienza e filosofia della prassi, una nuova unità a sinistra priva di ambiguità e finalità dubbie per edificare una società alternativa…