Abbiamo concordato con lo scrittore Mario Capanna l'idea di estrapolare un capitolo dal suo libro "L'Italia Viva" (viaggio nel paese dell'impegno e della speranza) da inserire come scheda formativa ed informativa nel sito dell'organizzazione. Lo ringraziamo per questo contributo e per la sua partecipazione al 1 maggio che abbiamo realizzato, dopo vent'anni di assenza, a Latina.

 

Capitolo X

"Vi è un artista imprigionato dentro ognuno di noi. Lasciamolo libero di diffondere dappertutto gioia"

 Amo il nostro Paese: profondamente. Lo considero il più bello del mondo. Senza sciovinismo. Dove ce n'è un altro in cui, per esempio, il giorno di Ferragosto è possibile sciare a duemila metri oppure, se si preferisce, arrostirsi al mare a non molta distanza?

E dove su due terreni, lontani fra loro appena dieci o venti chilometri, ma appartenenti a due comuni distinti, si ottengono dallo stesso vitigno vini diversi, e non si spegnerà mai la disputa su quale dei due sia il migliore?

Dove esiste una terra in cui basta quasi scavare il suolo con un dito per trovare reperti nuragici, punici, greci, etruschi, celtici, romani, bizantini, arabi, normanni e via dicendo?

Una miscela ineguagliabile di bellezze paesaggistiche, di clima, di patrimoni artistici (nonostante gli scempi passati e presenti).

Mi basta stare all'estero pochi giorni e, pur apprezzando le novità che incontro, avverto presto il morso della nostalgia. Capisco Goethe e la Sehnsucht (desiderio ardente, bramosia) da lui provata per il nostro Paese, prima e dopo il suo viaggio in Italia.

Una nazione come la nostra, con un popolo tutto sommato meraviglioso, non foss'altro perché trova sempre il modo di non affondare, si merita un "dirigente" che, di fronte ai grandi problemi locali e mondiali, riduce il dibattito politico alla disputa del trattino, ovvero alla titanica alternativa: centro-sinistra o centrosinistra?

Da tempo la politica latita, sostituita dalla gestione, che è tutt'altra cosa. Privata di valori alti, di idealità per cui valga la pena - anzi la gioia - di battersi, è come devitalizzata.

Così la "terza via", che tante tabulazioni produce sia tra gli esponenti di centro-sinistra sia tra quelli di centrosinistra, non è altro che una foglia di fico utile per coprire una politica liberista, portata avanti dalle forze socialdemocratiche al posto delle destre.

Siamo ormai alla politica, che non decide più nulla di sostanziale, ma esegue. Il suo compito è essenzialmente quello di spianare la strada agli interessi dei più forti, di cui attua i comandi. E' così in tutto il mondo.

Se io affermassi (come affermo) che la globalizzazione è la via maestra per rendere più ricco chi lo è già e più povero chi lo è già, di sicuro si alzerà qualcuno a dire che sto esagerando.

Ricorrerò, allora, solo a dati di fonte ONU che, si converrà, non è esattamente una centrale sovversiva.

Il divario di reddito tra il quinto degli individui che vivono nei paesi più ricchi e il quinto dei paesi più poveri era di 3 a 1 nel 1820. Mezzo secolo dopo, nel 1870, era già più che doppio: 7 a 1, arrivando a 11 a 1 nel 1913.

Nel 1960, meno di cinquant'anni dopo, era quasi triplicato: 30 a 1. Nel 1990, in appena trent'anni, passava a 60 a 1, fino ad arrivare a 74 a 1 nel 1997.

Come si vede, c'è una progressione vertiginosa proprio negli ultimi anni di trionfo della globalizzazione.

Ma la progressione è costante, in pratica, da due secoli, a riprova di quelle che sono le finalità reali del capitalismo.

A proposito del quale non sarebbe tempo perso rileggere alcune pagine di Marx, come nel '98 in invitava a fare nientemeno che il "Wall Street Journal". Il giornale dei banchieri americani (meno provinciale, spiace dirlo, di certi foglietti nostrani) scriveva, senza alcun complesso e senza tante perifrasi, che per capire come funziona il capitalismo della globalizzazione, si devono studiare, e con grande attenzione, le opere del filosofo tedesco.

Potremmo intendere meglio, va aggiunto, come e perché, all'inizio del terzo millennio, il quinto degli individui che vive nei paesi a reddito più elevato detiene l'86 per cento del prodotto interno lordo mondiale, l'82 per cento dei mercati mondiali delle esportazioni, il 68 per cento degli investimenti diretti esteri, il 74 per cento delle linee telefoniche mondiali e ben il 93 per cento delle quote di utenti internet, mentre il quinto degli individui più poveri controlla appena l'1 per cento di ogni settore e lo 0,2 di internet.

Stando così le cose, noi occidentali, a Seattle, a chi volevamo darla a bere?

I paesi industrializzati detengono il 97 per cento di tutti i brevetti del mondo. Poiché siamo longanimi, abbiamo anche provveduto a far sì che ben l'80 per cento di quelli concessi nei paesi in via di sviluppo (dove è culturalmente estraneo l'uso di diritti di proprietà intellettuale) appartenga a residenti nei paesi industrializzati.

Così, guarda caso, i duecento individui più ricchi del mondo hanno più che raddoppiato il proprio patrimonio netto nei quattro anni fra il 1994 ed il 1998.

Non solo: le ricchezze dei tre miliardari (in dollari), primi in classifica, sono maggiori della somma del prodotto nazionale lordo di tutti i paesi meno sviluppati e dei loro seicento milioni di abitanti.

E' rilevante notare che questo balzo di ricchezza dei ricchi è avvenuto durante la presidenza americana di Bill Clinton, convinto assertore della "terza via"…

Il nostro Paese fa parte del G-7, essendo la quinta, la sesta o la settima (a seconda delle statistiche) potenza industriale del mondo. Ebbene, ci inorgoglirà sapere che i sette paesi più ricchi hanno appena l'11,8 per cento della popolazione della Terra, ma detengono il 64 per cento del prodotto interno lordo mondiale.

Se poi si considera che tre di quei sette paesi occupano tre dei cinque seggi permanenti nel Consiglio di Sicurezza delle nazioni Unite, è facile capire come e quanto l'Occidente tiene in mano il pallino del mondo.

Aumentano, anche all'interno dei paesi ricchi, le disuguaglianze fra ceti e categorie sociali. Da noi c'è un'aggravante in più: l'ignoranza. Mi riferisco a quella che viene, per così dire, istituzionalmente organizzata.

In Italia la percentuale di laureati e diplomati, rispetto al totale della popolazione, è di circa un terzo inferiore a quella di Germania, Francia, Inghilterra (per non parlare di USA e Giappone). Il dato è proporzionale agli investimenti dello Stato nell'istruzione, che in Italia sono ben minori rispetto al grosso dei paesi europei.

All'Università una matricola su quattro molla dopo il primo anno. Solo il 40 per cento degli studenti raggiunge la laurea, ma in tempi dilatati: i fuoricorso ammontano a ben l'88,4 per cento.

La scuola in generale è (anche qui, salvo eccezioni) il regno dell'obsolescenza, non dà quel sapere - quello più importante - utile a capire il mondo per trasformarlo.

Fare, in Italia, come a Campi Salentina: questo è urgente e necessario. Investire, e massicciamente, nella cultura e nella conoscenza dei cittadini.

E svegliarsi, una buona volta, per quanto riguarda la ricerca scientifica. Settore nel quale il nostro Paese è ventesimo per la percentuale di spesa che vi dedica in rapporto al prodotto interno lordo (dietro, pesino, a Corea, Irlanda e Islanda).

Da noi, inoltre, più del 70 per cento della ricerca è in mano a gruppi industriali, che "ricercano" in base ai loro interessi, non a quelli della collettività.

Ridurre drasticamente le spese militari; perseguire con decisione la grande evasione fiscale e contributiva (pari ad una montagna intensa: 250.000 miliardi l'anno!); tassare i guadagni di Borsa, una proposta a suo tempo avanzata dal presidente francese Mitterand: ecco come trovare le risorse perché l'Italia possa attuare una svolta.

Macché: appollaiati sul "trattino", gli strateghi, anziché pretender che straripanti profitti vengano investiti per creare lavoro, preferiscono salassare i pensionati, dimentichi che due su tre vivono con meno di un milione al mese (alcuni superandolo appena).

E fanno a gara nel finanziare la scuola privata quando, a parte il dettato costituzionale esemplarmente chiaro su questo punto, basterebbe ricordare al papa che Gesù nei vangeli non dice mai - mai! - ai suoi discepoli: andate e chiedete soldi.

Così, nella prima repubblica bis, accadono cose, grazie alla "terza via", che nella Prima Repubblica nessun democristiano aveva sperato di realizzare. Per molti aspetti, il fatto nuovo di oggi è il ritorno del vecchio. Nella forma peggiore.

Ma c'è l'Italia viva accanto all'Italia morente. Abbiamo visto, in termini di esempi, quanti, e con quale intelligenza, operano per la prima. Vediamo tutti i giorni quanti lavorano per la seconda.

L'italiano morente (come del resto, mediamente, è ormai l'uomo occidentale) è quello attaccato al computer, appeso al telefonino, appiccicato al volante, incollato all'indice Mibtel e alle cedole di Borsa, obeso nella mente, agente del proprio annientamento.

E' in breve, l'italiano mediato. (Persino "multimediatico", potremmo dire.) Che non ha più un rapporto diretto con la realtà, perché ormai vive nella falsa rappresentazione che gliene dà il turbinio dei media. Vive l'apparenza di vita dell'incosciente.

In quanto mediato, l'omo (italiano) contemporaneo è dimitiato. Dimezzato dalla prigionia in cui lo costringono le macchine; ostaggio della lontananza da ciò che davvero esiste; la sua vita è sotto tutela altrui.

Più si circonda di un avere superfluo, meno è; più si illude di possedere, meno controlla se stesso; più guarda immagini, meno si riconosce; più agisce frenetico, meno pensa; "vive", appunto, senza sapere che la vita è un'altra cosa: per questo è morente.

Una condizione penosa e tragica, ora in accelerazione, che viene avanti da tempo: Vorrei invitare a riflettere su un dato, in apparenza secondario.

E' stata fatta una ricerca su testi di autori contemporanei e le citazioni relative ai suoni naturali.

Ebbene, viene fuori che in Europa la percentuale di riferimenti era il 43 per cento nell'Ottocento; nel Novecento scendeva al 20. Per quanto riguarda i richiami alla "calma" e al "silenzio", erano il 19 per cento tra il 1810 e il 1830; scendevano al 14 tra il 1870 e il 1890 e solo al 9 tra il 1940 e il 1960. Figuriamoci adesso.

Un dato ancora più interessante è l'atteggiamento negativo che gli scrittori contemporanei assumono nei confronti del silenzio. Gli aggettivi impiegati per descriverlo sono: oppressivo, solenne, mortale, strano, terribile, ombroso, tetro, penoso, pesante, esasperante, angosciante, doloroso, inquietante.

Non si è più in grado di vivere con la propria interiorità. Flagellati dal frastuono delle macchine, il silenzio ci fa paura. Come, del resto, l'armonia ella natura. Ma: il concerto di un usignolo, Riccardo Muti saprebbe dirigerlo?

L'uomo morente è tale anche perché non conosce più l'intima vitalità del silenzio, né il fascino di un trillo nel silenzio della notte.

Edward Luttwak ha scritto recentemente un libro dal titolo emblematico: la dittatura del capitalismo. Parla da capitalista non pentito ma fortemente preoccupato da quello che chiama "turbocapitalismo", ovvero l'attuale capitalismo deregolato.

Vede, almeno in parte, ciò che il morente non è più in grado di percepire: nella sua fase più alta, il capitalismo riduce il senso della vita alla sola dimensione del denaro.

I contenuti più elevati dell'esperienza umana, l'altruismo, la solidarietà, i comportamenti morali "sono sostituiti da denaro, denaro e ancora denaro".

Quasi non ci rendiamo più conto del punto in cui siamo arrivati (a cui ci hanno portato): quando i telegiornali comunicano in diretta l'uscita dei numeri vincenti del lotto; quando i maggiori quotidiani, all'inizio della settimana, offrono allegati di varie pagine intitolati, nientemeno "Soldi", "Tuttosoldi" e altro simile, come si fa a non vedere che dietro ci sta, attivissima, la fabbrica dei morenti?

Che il culto orgiastico del denaro, spesso raffigurato come se cadesse dal cielo (dalla fortuna), incrementa una concezione dell'uomo come merce avida di altra merce?

Predicata e inculcata tutti i giorni questa insaziabilità, perché chi ha poco o nulla non dovrebbe rubare a chi ha molo, tanto, troppo? E' ovvio: non giustifico il furto, sto semplicemente scattando una fotografia.

Di fronte a disparità che crescono a dismisura, è pura illusione pensare di trovarvi riparo con misure repressive.

Se n'è reso conto anche il ministro degli Interni del governo Blair, Jack Straw, che, in presenza di un drastico aumento di ruberie nelle città inglesi, ha dichiarato a metà del 1999: "Sapete perché ci sono sempre più furti? Perché siamo diventati più ricchi, e nelle nostre case ci sono più cose da rubare". (Per una volta, la verità.)

Siamo, ormai, allo Stato-croupier: non si contano più i giochi per "far soldi". Eppure non occorrerebbe molto sforzo per capire la validità della definizione data da Massimo d'Azeglio: "Il gioco d'azzardo è la tassa degli stupidi". Per la semplice ragione che, per uno che vince, ce n'è un'infinità che perde.

Questa specie di metafisica del denaro è alla base di quella spersonalizzazione che si riflette nei comportamenti, negli atteggiamenti, nei linguaggi del cittadino morente: immagini e parole da meretricio, come quelle della pubblicità, che non diffonde idee, ma racconta "frottole".

Conclude Luttwak sconsolato che, a furia di ripetere frottole nei luoghi e nei tempi di lavoro per piazzare merci, si persevera anche nel chiuso di casa propria, fino al punto di raccontare panzane a se stessi.

In questo la televisione (ma anche Internet, se non bene usata) si rivela un agente particolarmente corrosivo. La teleincultura ludica - da noi ormai invadente - produce quello spaventoso personaggio che è l'imbecille precoce, ovvero il cretino intensivo e il demente cronico. Così il morente può trapassare inconsapevole.

Il "libero mercato" genera questo, il profitto determina questo.

Produrre per sfamare la gente, per curarne le malattie, perché sappia leggere, scrivere e abbia spirito critico, è radicalmente diverso che produrre per fare soldi, con ci fare altri soldi.

Siamo giunti al punto che delle migliaia di miliardi di dollari che vengono scambiati ogni giorno nel mondo, solo il 5 per cento riguarda scambi commerciali o altre transazioni economiche reali.

Il 95 per cento è impiegato in arbitraggi e speculazioni, poiché gli operatori (quale parola suona più soavemente neutra di questa?), che movimentano somme esorbitanti, puntano a facili profitti giocando sulle fluttuazioni dei cambi e manovrando sui differenziali nei tassi d'interesse.

E' la dittatura del profitto che strozza l'economia reale e impedisce l'equa distribuzione delle risorse e delle ricchezze del mondo.

Le organizzazioni no profit dimostrano in modo pratico che è possibile e funzionante un'alternativa al modo di produrre e di consumare capitalistico: E' solo questione di volontà politica: il capitalismo non è ineluttabile.

Cambiare la volontà politica implica un modo nuovo di pensare, che rifiuti e arresti il processo di mercificazione della società, della natura e degli esseri umani, mettendo questi - e i loro bisogni - al primo posto.

Senza di che, è bene tenerlo a mente, ogni società avrà sempre i politici e i capitalisti che si merita.

Nonché gli in intellettuali corrispondenti.

E', questa, una consapevolezza che comincia a farsi strada. Sarà difficile dimenticare una foto delle manifestazioni di Seattle che ha fatto il giro del mondo.

Ritraeva un giovane, una maschera antigas sul viso, che reggeva alto un cartello con su scritto "Wto", ma con la sigla imprigionata entro il cerchio e la barra rossi del segnale di stop, e sotto, a grandi caratteri: People bifore profit (la gene prima del profitto). Bene.

La cultura dell'Occidente domina ora il mondo. Non a caso la prima industria in assoluto negli Stati Uniti non è quella degli armamenti o dell'automobile, ma quella del cinema, delle fiction televisive e delle comunicazioni.

Ciò che è in gioco è l'omologazione culturale planetaria all'inizio del terzo millennio. I controllori - i guardiani tecnologici - puntano a una società di controllati su tutta la Terra. Intenzionati a fare tabula rasa di ogni visione del mondo che sia diversa.

Cominciano a profilarsi, per fortuna, valide controtendenze. Di fronte alle devastazioni che il mercato ("libero", si, ma per i più forti) determina, individui, aree culturali, aggregati sociali cominciano a reagire in varie parti del mondo. Pronti a confrontarsi, ma salvaguardando le proprie specificità (di pensiero, di lingua, di etnia, di interessi).

Affiora, qua e là sulla Terra, il rifiuto di farsi fagocitare nella globalizzazione unipolare dell'Occidente. E spesso, in questa azione di contrasto, vengono impiegati, ritorti contro, gli stessi strumenti-cardine usati dal pensiero globale per imporsi: Internet, ad esempio, e i computer. Senza di essi la mobilitazione internazionale di Seattle non sarebbe stata realizzata con quella efficacia.

Peraltro, l'unica forma umanamente accettabile di globalizzazione è quella ella coesistenza e del confronto, su pari dignità, fra tutte le realtà del mondo, non certo l'attuale prevaricazione di una minoranza sulla maggioranza degli abitanti della Terra.

Ora: l'Italia, per ragioni geografiche e storiche, si è venuta formando nei secoli come sintesi di culture diverse (una delle nostre maggiori ricchezze, dicevamo); saremmo i più titolati a dar vita, per esempio, a una Università delle Culture, dove tutte siano insegnate e studiate: quelle occidentali e quelle orientali, quella islamica e quella ebraica, quella dei nativi d'America e quelli dei neri d'Africa, quelle del Nord e quelle del Sud.

Una Università che rilasci una vera e propria "laurea in multiculture", che consenta ai giovani che ne escono di insegnare nelle scuole la molteplice varietà dei saperi e dei punti di vista umani: una lezione di civiltà che eserciterebbe un contagio benefico e di lungo periodo.

L'analfabetismo è una piaga planetaria. Un contributo annuo, pari all'1 per cento dei patrimoni delle duecento persone più ricche del mondo (equivalente a sette-otto miliardi di dollari), potrebbe permettere l'accesso all'istruzione primaria di tutti.

Appunto: una iattura simile va evitata assolutamente. Scherziamo? Siccome è dimostrato che là dove arriva l'alfabetizzazione, tra i primi effetti c'è quello della diminuzione delle nascite (essendo le donne le prime ad autodeterminarsi), andando avanti di questo passo a chi venderemmo le nostre merci in un domani non lontano? Voglio dire: il profitto ha leggi implacabili. Esempio: nella ricerca mondiale relativa alla sanità, solo lo 0,2 per cento - lo 0,2! - riguarda polmonite, dissenteria e tubercolosi, sebbene queste rappresentino il 18 per cento dei casi globali di malattie.

Ma interessano, essenzialmente, i paesi in via di sviluppo e il mercato globale è severo con chi non ha la possibilità di pagare.

Poiché la globalizzazione è attualmente, in ultima analisi, una rapina universale di pochi ai danni di molti, è del tutto naturale che anche il crimine sia diventato globale.

Nel solo 1995 il traffico illecito di stupefacenti è stato stimato intorno a quattrocento miliardi di dollari, circa l'8 per cento del commercio mondiale. Si badi: più della quota relativa a ferro e acciaio o a quella dei motoveicoli, superiori ai prodotti tessili (7,5 per cento) e di poco inferiore a quella a quella di gas e petrolio (8,6 per cento)!

Ancora: nella sola Europa occidentale, circa cinquecentomila donne (spesso ragazze e bambine), provenienti dall'Est e dai paesi in via di sviluppo, vengono intrappolate ogni anno nella schiavitù della prostituzione.

In presenza di un simile sfacelo, nessuno è in grado di dire con precisione e quale cifra iperbolica ammonti la spesa globale per "combattere" il crimine organizzato (e ormai anch'esso computerizzato). Ma è chiaro che spenderemmo molto meno se ne combattessimo le cause, costruendo sviluppo equo e solidale, una cultura della legalità e una coscienza critica.

Chi, ragionevolmente, può pensare che il mondo riesca ad andare avanti lungo la strada intrapresa? Come non vedere le trappole mortali che pochi sconsiderati stanno collocando sul cammino di tutti?

Con le biotecnologie siamo ancora in grado, per la prima volta nella storia, di mettere a repentaglio, per di più in un tempo brevissimo, gli equilibri della natura che si sono costruiti in milioni i anni di evoluzione.

Immettendo nell'ambiente piante geneticamente alterate e consumandone i frutti, nessuno sa che cosa può succedere, in noi e nella natura.

Ma si è proceduto ugualmente, con l'allegra non curanza che il profitto impone. Dei mentecatti non l'avrebbero fatto: è questo il dato più inquietante.

E' scritto in un documento dell'ONU: "Il capitale sta diventando ancora più concentrato a,livello globale via via che le mega-imprese si fondono, spesso trasversalmente alle frontiere. (…) Dal 1990 al 1997, il numero annuo degli assorbimenti è più che raddoppiato, da 11.300 a 24.600.

"Gli assorbimenti e le acquisizioni attraverso le frontiere sono ammontati, nel '97, a 236 miliardi di dollari. Le imprese multinazionali ora fanno sembrare irrilevante il potere economico di alcuni governi".

Questo processo di concentrazione intensiva è particolarmente accentuato nel campo strategico dei trans-geni. Le prime cinque industrie biotecnologiche - americane ed europee - controllano più del 95 per cento dei brevetti di trasferimento dei geni.

Ovvero: cinque "grandi capi" decidono, senza alcun controllo, del destino dell'umanità. E' dunque evidente che si ha il diritto e il dovere di organizzare la legittima difesa.

Spesso, quando si parla di multinazionali, si pensa a realtà inafferrabili. Non è così. L'infinità di tentacoli fa capo a dei centri-motori, a delle teste ben definite. Perfettamente individuabili e controllabili, se si volesse. Ma il punto è proprio questo: si vuole?

I trecento signori più ricchi del globo possiedono da soli risorse che superano il reddito di circa due miliardi e mezzo di persone, metà dell'umanità.

Controllano quasi tutto: dai satelliti per le telecomunicazioni alle rotte petrolifere, i brevetti tecnologici e le Borse, i media e la produzione di armi.

Hanno una forza tale da condizionare (e all'occorrenza anche ricattare) parlamenti e governi. Cosa che avviene normalmente, tramite le lobby di pressione e altri mezzi (il che spiega, fra l'altro, i molti scandali di corruzione).

Per loro è perfettamente indifferente se il presidente degli Stati Uniti è democratico o repubblicano: tanto è lì per spianare loro la strada:

Ecco perché, dicevamo, la politica è divenuta politica: non dirige, ma esegue (sostanzialmente) i loro diktat.

E tuttavia non sono affatto invincibili. Essi temono una sola cosa: che milioni di donne, di uomini e di giovani si sollevino nel mondo, meglio di come avvenne sul finire degli anni sessanta dello scorso secolo, e reclamino e costruiscano un diverso corso delle vicende umane.

La politica può essere cambiata solo dalla politica questo è l'unico antidoto. La politica come impegno individuale e collettivo, sapendo che il cuore della democrazia è la partecipazione cosciente, informata, critica; non il voto e la delega, sempre più spesso usati da chi li riceve per aumentare il distacco tra decisioni e cittadini.

Una sinistra che non dica questo, e che non si comporti di conseguenza (sulle maggiori questioni dell'Italia e del mondo), suscitando grandi movimenti di massa trasformatori, non ha alcuna ragione di essere, per il semplice fatto che non è più in grado di sprigionare dinamiche propulsive di cambiamento autentico.

Può arrivare al governo, e mantenervisi per un certo tempo grazie a compromessi che ne annientano le ragioni sociali - e ideali -, ma si illude di governare, in realtà gestisce per conto terzi. Che è poi sempre, storicamente, il modo migliore per riconsegnare il governo alle forze concorrenti di centro-destra.

La Terra è troppo preziosa per lasciarla in mano a dei giocolieri - anche perché non abbiamo un pianeta di ricambio.

E' necessario giungere alla elezioni di un Parlamento Mondiale, che sostituisca l'ONU, ovvero l'organizzazione internazionale dei più forti che, non paghi dell'immenso potere che già hanno, si arrogano anche il diritto di veto, per bloccare qualsiasi decisione sfavorevole a loro o all'uno o all'altro di loro.

Da quando - prima con l'energia nucleare e adesso con le biotecnologie - siamo diventati capaci di ipotecare la vita del mondo, è indispensabile un organismo, rappresentativo per davvero dei popoli (non dei governi, com'è ora per le nazioni Unite), che abbia il compito di decidere sulle scelte fondamentali per l'umanità.

Sul piano tecnico non ci sono problemi: in un giorno, seguendo la rotazione dei fusi orari, si vota in ogni Paese. Si elegge un parlamentare ogni sei milioni di abitanti, e avremo un'assemblea di mille deputati (di poco superiore al numero degli eurodeputati).

Se la si vuole più rappresentativa, la proporzione può essere di un eletto ogni tre milioni: avremo un Parlamento di duemila membri, sempre meno dell'attuale esercito di diplomatici e funzionari che intasano l'attuale Palazzo di Vetro.

Certo, l'Occidente correrebbe dei rischi: quale che sia il meccanismo elettorale adottato, i cinesi eleggerebbero un numero di rappresentanti almeno doppio di quello di Stati Uniti e Russia insieme, e l'India una quantità maggiore di quella di tutti i paesi europei.

Nel parlamento Mondiale l'Occidente si ritroverebbe ad essere ciò che in realtà è: una minoranza. E allora? Non siamo noi a predicare che la democrazia si basa sul principio "una testa, un voto"? Dovremmo essere noi a fare la proposta per primi.

Ci si arriverà, un giorno, a dar vita al parlamento Mondiale, quando si comprenderà che l'inganno e la prepotenza non possono più continuare a guidare il mondo, pena la distruzione.

Come si potrebbe arrivare, e anche non tanto lontano sol che lo si volesse, a delle forme di democrazia diretta planetaria. Ognuno di noi potrebbe dire la sua (e votare), in tempo reale, sui problemi decisivi della Terra. Non sarebbe, questo, il miglior uso possibile di Internet?

E' importante pensare di dare vita a delle forme planetarie di democrazia. In assenza delle quali, l'umanità corre il serio rischio di non riuscire più a indirizzare il proprio futuro.

Non solo a causa delle sfide tecnologiche e delle loro potenzialità distruttive. Ma anche in vista di eventi che potrebbero, dati gli attuali criteri di egemonia internazionale, mettere in grave pericolo la convivenza fra i popoli.

Penso, per esempio, alla Russia. L'Occidente, dopo la caduta del Muro, l'ha comprata a pezzi, letteralmente. E vi ha esportato anche la parte peggiore di sé, una corruzione dilagante, e la mafia, che a Mosca comanda più del presidente. Che cosa potrebbe succedere in caso di frantumazione alla jugoslava o, all'opposto, se il nazionalismo slavo dovesse riscuotersi?

E la Cina? Siamo di fronte all'incognita politica forse più rilevante del XXI secolo. Quali ripercussioni si avranno, in quel Paese e nel mondo, quando esploderà la contraddizione fra lo sviluppo, impetuosamente in corso, delle forze produttive e la strozzatura del partito unico?

Di fronte a eventi ingovernabili - senza nuove forme di democrazia internazionale - che sconvolgano gli assetti del mondo, siamo certi che tutti resisteranno alla tentazione di dare la parola ai missili?

Ecco altre ragioni per cui, come diceva un antico saggio, è meglio prevedere che pentirsi.

Non bisogna cedere al pessimismo. In fin dei conti la cultura umana ha alle spalle uno sviluppo di soli quattro o cinque millenni. Un battito di ciglio rispetto ai tempi dell'evoluzione cosmica.

E noi, fino a prova contraria, siamo in tutto l'universo gli unici organismi viventi capaci di pensare all'infinito.

Avremmo una ben misera considerazione di noi stessi, se escludessimo di evolverci fino a capire che costruire la pace è immensamente più bello che fare la guerra; che dare a tutti pari opportunità esalta l'armonia delle diversità; che permettere a tutti di cibarsi e di istruirsi è di gran lunga preferibile alla costruzione di macchine di sterminio.

E che la felicità risiede nell'equilibrio che riusciamo a stabilire tra noi, e fra noi e la natura.

Un grande terreno di esplorazione, dove i passi del laico e del religioso possono risuonare insieme.

Sono cautamente ottimista. Negli otto anni del mio viaggio in Italia, ho visto brutture e anche nefandezze, ma pure un vasto insieme di tensioni, pulsioni, idee, iniziative positive.

Ho incontrato giovani rassegnati (non per colpa loro), ma anche tanti desiderosi di capire e di camminare eretti.

I viventi - nel volontariato, nelle associazioni no profit, nei vari ampi della cultura, del lavoro, della scienza, in generale dell'impegno - sono più numerosi dei morenti.

Sembrano di meno, poiché i media decidono che il loro lavoro non esiste e, quindi, non fa notizia.

Eppure sono quelli gli italiani che tengono a galla il Paese: anche di fronte al mondo, dove i nostri migliori ambasciatori sono le organizzazioni non governative. E un giorno, forse, potrebbero anche dare vita a un movimento che ne unisca e proietti avanti le energie. Sembrano di meno per la stessa ragione per cui gli intellettuali appaiono soverchiati dagli in intellettuali: il rumore occulta il pensiero. Ma non può cancellarlo.

E c'è un altro elemento di moderato ottimismo: il vento di Seattle. Senza sopravvalutarlo, esiste.

Nella città sotto il coprifuoco, una rappresentanza del mondo ha detto in modo chiaro che c'è bisogno di un altro mondo.

Il vento del Nord è di solito pulito. Buon segno che si sia alzato alla fine del XX secolo. Si: all'inizio del terzo millennio, l'Italia viva può fare molto perché 'Italia viva.

Nel mondo.

Nel libro che è stato donato al forum giovani di DP Mario Capanna ha scritto: 

"ai giovani DP affinché costruiscano l'Italia viva…".  


Mario Capanna, 1945.
Laureato in filosofia. Leader studentesco nel '68.
Segretario di Democrazia Proletaria fino al 1987, esponente ambientalista e pacifista. Già consigliere regionale della Lombardia, Parlamentare Europeo, consigliere comunale di Milano, deputato in Parlamento.Giornalista e pubblicista.
Con Rizzoli ha pubblicato:

Formidabili quegli anni (1988)
Arafat (1989)
Speranze (1994)
Il fiume della prepotenza (1996)
Lettera a mio figlio sul '68 (1998, 12 edizioni)
L'Italia viva (2000)