Dall’unità
d’Italia ad oggi, il problema del mezzogiorno è stato da sempre presente
nell’agenda politica dei governi fino ad oggi succedutesi, con conseguenze a
dir poco disastrose. Quotidianamente sentiamo politici di qualsiasi voglia
appartenenza urlare ai quattro venti la “questione meridionale” come
problema da affrontare immediatamente, come una piega per l’intera Italia
(sic): ma è bene partire dalle radici storiche di questo problema, e cioè
dall’unità d’Italia in poi, per poterlo affrontare con cognizioni di causa,
anche per confutare la retorica esaltazione dell’unità d’Italia e di tutti
quei storici al soldo della storiografia di stato. ************ All’indomani dello sbarco di
Garibaldi in Sicilia, la popolazione tutta, in particolar modo i contadini, lo
accolsero trionfalmente, lo aiutarono nella lotta contro le truppe borboniche,
insomma non parteggiarono certo contro di lui: un vero trionfo, se si pensa
anche che ai contadini furono fatte promesse mirabolanti sulle magnifiche sorti
e progressive del loro avvenire, quali la redistribuzione dei latifondi e
l’abolizione di varie tasse. Garibaldi, però, si dimostrò più realista del
re, e alla rivolta dei contadini contro il ripristino della tassa sul macinato,
imposta da Cavour subito dopo l’annessione della Sicilia al Piemonte, rispose
con una sanguinosa repressione ordinando l’uccisione di migliaia di contadini,
tradendo non solo le proprie promesse, ma soprattutto gli ideali di cui si era
fatto alfiere difensore. Dopo che i Savoia estesero il
proprio dominio su tutta la penisola, si infuocò il clima di disobbedienza
civile di una grossa parte della popolazione meridionale, con atti di
“guerriglia” contadina contro le truppe dei “conquistadores”: infatti il
meridione d’Italia fu più una terra di conquista che altro, e quindi non è
un caso che, a parte i notabili e i latifondisti (certo al riparo, data la loro
condizione oggettiva di classe sociale parassita e opprimente, con funzioni di
controllo e repressione, oltre che di profitto), la popolazione fu soggetta a
tasse assurde (come quella sul macinato) che al tempo dei Borboni non
esistevano, a umiliazioni su umiliazioni da parte del governo e dei soldati (le
popolazioni meridionali venivano spesso considerate, e senza nemmeno tanto
nasconderlo, come delle bestie!), spogliata dei propri diritti, il tutto a
favore dei poteri forti di allora, concentrati tra il Piemonte e la Lombardia,
che con i proventi delle “ruberie di stato” modernizzarono il proprio
apparato produttivo, a scapito dell’economia rurale e industriale del
meridione. L’economia dello stato borbonico, infatti, non poggiava solo ed
esclusivamente nell’agricoltura, ma aveva sviluppato altresì una florida
industria, prevalentemente estrattiva, e ampliato le vie di comunicazione (la
prima ferrovia in Italia fu costruita dai borboni, nel tratto Napoli-Portici):
meridione si, ma sviluppato, orgoglioso di sé e soprattutto produttivo, al di là
della storiografia di stato che definisce lo stato borbonico come un apparato
fatto esclusivamente di clientelismo, favori e assistenzialismo vario. In questo contesto di aperta
sottomissione delle popolazioni meridionali si sviluppò il brigantaggio,
durante gli anni 1861-65, forte soprattutto tra i monti dell’Aspromonte, che
da subito fu sostenuto da una grossa parte della popolazione, anche se spesso
indirettamente con aiuti di tipo alimentare e/o logistico: spesso descritti come
“truci” e “assassini” dalla storiografia di stato, i briganti, invece,
dimostrarono una più forte sensibilità politica e sociale, oltre che etica,
dei governanti piemontesi (epiche le gesta del brigante Musolino e dei suoi
compagni, ancora ricordate con bellissime tarantelle), ponendo delle legittime
rivendicazioni, come l’abolizione della tassa sul macinato, la redistribuzione
dei grandi latifondi, il miglioramento delle condizioni dei contadini (che in
molti casi erano in uno stato di aperto servaggio), conducendo una lotta armata
contro il potere costituito, senza mai scadere in vigliaccherie o vendette
trasversali, come spesso invece fecero le truppe dei Savoia nei confronti
soprattutto della popolazione, per creare un clima di terrore in modo da
distruggere le basi su cui poggiavano le rivendicazioni di chi era in lotta
contro il governo piemontese. Placata la rivolta, dopo anni
di sanguinosi scontri, l’animo dei contadini e di tutte quelle persone
spogliate dei loro averi e della loro dignità era più di rassegnazione ed
estraniazione, e allora il governo pensò bene di “ammansire” (sempre
pensando alle bestie!) la situazione provvedendo a rifornire di “pecunia” e
posti di potere i notabili e i latifondisti meridionali, in modo da distribuire
favori (soprattutto in termini economici) e lavori, in un contesto politico che
vedeva, nei fatti, il meridione e la sua popolazione come una terra e un popolo
“conquistati” (e non liberati, come qualche pseudo-storico vuole fare
credere nei suoi libri). *********** Si sa che un vaso quando è
colmo di acqua non può sopportare nemmeno un’altra goccia, pena il trabocco
del vaso stesso: ed è proprio partendo da questa elementare quanto sostanziale
constatazione che va inquadrata un’altra rivolta dei contadini, un po’ meno
violenta ma più organizzata di quella dei briganti calabresi, e cioè quella
dei fasci siciliani. A differenza dei briganti, però,
il movimento dei fasci siciliani godeva dell’appoggio del nascente movimento socialista prima, e del partito dopo, non solo su
scala regionale, ma anche e soprattutto nazionale: oltretutto aveva
un’organizzazione a monte, che coordinava la politica dei diversi fasci dei
lavoratori presenti in Sicilia (il più antico fu quello di Messina, fondato nel
1888) e che, quindi, li rendeva
solidali tra loro. Il movimento dei fasci
siciliani, che all’inizio ebbe le stesse caratteristiche di quello dei
briganti in Calabria e che sostanzialmente poggiava sulle stesse rivendicazioni,
ben presto si accorse che la strada della lotta armata non li avrebbe portati
molto lontani, sia perché lo stato unitario si era molto solidificato, e quindi
difficilmente da scalfire, sia perché l’esperienza dei briganti calabresi,
ancora viva nel ricordo di molti, si concluse tragicamente: la loro lotta fu
centrata più sulle agitazioni sindacali e istituzionali che su quella armata,
con una strategia di lotta molto valida e innovativa per quei tempi, creando
simultaneamente in tutta la regione “focolai” di lotta (che spesso
divenivano incendi!). Nel 1893, anno di massimo splendore del movimento, gli
scioperi portarono ad avere in una sola giornata più di 100.000 persone
aderenti, anche se circoscritti in delle zone e non su tutta l’isola, ma il
risultato fece lo stesso impallidire i latifondisti, che chiesero misure urgenti
contro i fasci dei lavoratori; se a questo viene aggiunta la vittoria che ebbero
durante le elezioni per il rinnovo di comuni e circoscrizioni (in alcuni ci
furono veri e propri plebisciti per gli operai e i contadini), si può benissimo
affermare che quel movimento fu un movimento reale di massa, cosciente e
organizzato, su posizioni marxiste (uno dei dirigenti, Bosco Garibaldi, diventerà
uno dei più stimati dirigenti socialisti dell’Italia intera), che mise
seriamente in discussione l’assetto politico-istituzionale dell’isola. Il
governo centrale, che fino ad allora stette a guardare preoccupato, sfruttò gli
scioperi contro i patti agrari per intervenire contro il movimento dei fasci
siciliani: fu pressato dai latifondisti e dalla grossa borghesia per proporre
con un decreto legislativo lo scioglimento dei fasci, ma ben presto questa
soluzione fu abbandonata, in considerazione del fatto che avrebbe potuto
innescare una bomba dalla deflagrazione spaventosa . Per ovviare a questa
situazione, un deputato di nome Sonnino fece una proposta di legge sui patti
agrari, che prevedeva tra l’altro compensi per i miglioramenti agricoli
apportati dai contadini nel fondo, la diffusione del contratto di mezzadria, una
apposita disciplina per la protezione del lavoro dei fanciulli nelle zolfare, e
più in generale norme dirette alla difesa e allo sviluppo dei piccoli
proprietari contadini; come da previsione, questa proposta non fu nemmeno
discussa per la forte opposizione dei latifondisti e dei notabili, e fu
spogliata praticamente di tutte le sue proposte migliori per renderla più
consona ai loro interessi. Con l’opera del governo
Crispi, che condusse un’aspra guerra contro il movimento socialista su scala
nazionale, i fasci siciliani si trovarono isolati e accerchiati, schiacciati
dalla reazione antisocialista, certo incoraggiata ed aiutata dai latifondisti,
dai notabili, dalla grossa borghesia e più in generale da quei poteri forti
spaventati dalla reazione popolare e, soprattutto, dalla fondazione (1892) del
Partito Socialista, che si proponeva come partito organico alla classe operaia e
contadina, guidandone e organizzandone le agitazioni e le rivendicazioni; dopo
mesi di arresti e agitazioni, il generale Morra, inviato in Sicilia da Napoli
dove aveva represso con la forza qualsiasi dissenso, impose lo stato d’assedio
su tutta l’isola e sciolse per legge il movimento dei fasci dei lavoratori
siciliani, arrestandone tutti i dirigenti. Triste e inglorioso epilogo per un
movimento forte e cosciente, che fu da esempio per la sua forza rivoluzionaria e
la sua organizzazione, la sua capacità di combattere a viso aperto contro le
ingiustizie sociali e per migliorare le condizioni di vita dei contadini e dei
lavoratori siciliani. ************** Se nell’Italia
settentrionale le agitazioni operaie dei primi anni del 1901-2 furono represse
secondo uno schema già collaudato, nel meridione la gente era oramai
rassegnata, cercava di vivere una vita migliore possibile: lo stato unitario
aveva ormai represso e domato con la forza qualsiasi tentativo di ribellione
allo stato di cose esistenti, aveva ormai la situazione sotto controllo: al di là
di qualche agitazione locale, non ci fu, come ai tempi passati, un movimento
organico e organizzato, ormai le basi furono compromesse per molto tempo. Con l’entrata dell’Italia
nella I° guerra mondiale, ai contadini meridionali che partivano per la guerra
fu promesso di tutto, dallo smembramento dei latifondi in favore dei piccoli
contadini, alla promessa di una terra e di una casa, all’assunzione nella
pubblica amministrazione: la solita strategia, che in questo caso serviva ad
arginare il fenomeno della diserzione e quindi ad avere molta più carne da
macello per i fronti. Le contraddizioni, ovviamente, scoppiarono all’indomani
della fine della guerra, quando tutte le promesse furono sistematicamente
disattese e i contadini abbandonati a se stessi, spesso spogliati dei propri
averi durante la guerra da parte dei latifondisti con la scusa di pagamenti
arretrati o di alimenti dati alla famiglia in sua assenza: in questa situazione
disperata, ripresero le agitazioni, ma questa volta la direzione da parte del
Partito Socialista si rivelò di straordinaria efficacia. Il merito che ebbe il
Partito Socialista, e più in avanti quello comunista, fu quello di coordinare
ed organizzare le agitazioni locali in un quadro di lotta nazionale, che vedeva
quindi gli operai al nord e i contadini al sud lottare insieme, anche se a
distanza di centinaia di chilometri, sotto una stessa bandiera: una situazione
pre-rivoluzionaria, che non a caso fu chiamata “il biennio rosso”, cui gli
stessi dirigenti, però, non seppero guidare verso la giusta e naturale
direzione, cercando di indirizzare la lotta in un quadro riformista più che
rivoluzionario. Approfittando di questa situazione di “stallo
pre-rivoluzionario”, le forze conservatrici e reazionarie si organizzarono,
anche con l’aiuto dello stato, dando forti aiuti economici a Mussolini e le
sue squadracce per contenere prima, e distruggere in seguito, il movimento che
si era creato: le sanguinarie violenze delle camicie nere, il tacito consenso
della polizia di stato e dei carabinieri nei loro riguardi, l’appoggio
(soprattutto economico) dei poteri forti, furono determinanti per la sconfitta
di quel movimento, che si spostò da una posizione pre-rivoluzionaria alla
difesa ad oltranza. ************ Come era prevedibile
aspettarsi, i fascisti ottennero il potere dal re, ampliando la sanguinaria
repressione precedentemente avviata, che culminò con l’uccisione di
Matteotti, la proclamazione della dittatura fascista, i processi del tribunale
speciale nei confronti di dirigenti comunisti e socialisti, tra cui Gramsci e
Togliatti, la persecuzione nei confronti di tutti i dissidenti del regime e,
soprattutto, lo scioglimento dei sindacati e delle associazioni dei lavoratori.
Sotto la dittatura fascista, e quindi in un quadro di feroce dittatura dei
poteri economici, le condizioni dei contadini e dei lavoratori meridionali
peggiorarono, anche se il governo fascista cercò con la propaganda e un bieco
populismo di mascherare le reali condizioni: ovviamente ogni pretesto era buono,
come la costruzione di case o bonifiche di terreni, la distruzione delle
coscienze era calcolata scientificamente, in special modo quella dei lavoratori
e dei contadini. Cose di poco conto, che però nell’immaginario collettivo dei
contadini meridionali erano abbastanza efficaci, vuoi perché la costruzione di
case popolari era necessaria da sempre, vuoi perché si era talmente pressati
psicologicamente dai poteri forti al punto da mettere in secondo piano le già
precarie e disastrate condizioni oggettive: la celebre immagine populista di
Mussolini che raccoglie il grano per spronare i contadini a produrne molto di più
è sintomatica di quanto fu determinante la propaganda fascista per azzerare i
dissensi, e in quel caso per “conquistare” il consenso dei contadini al
regime. La crisi del ’29 fu una vera e propria catastrofe per i contadini del
meridione d’Italia, con un loro conseguente impoverimento, aumentato grazie
anche a una politica di contenimento dell’inflazione e di svalutazione della
lira: come al solito, chi trasse vantaggi da questa politica governativa furono
senza dubbio i capitalisti del nord Italia, che videro aumentati di molto
l’esportazione dei loro prodotti, a scapito dell’economia contadina del
meridione d’Italia, poggiante sul mercato dei piccoli produttori, che vide un
crollo verticale dei prezzi e delle vendite. (CONTINUA)