Mezzogiorno ieri ed oggi: dinamiche di una terra conquistata

Dall’unità d’Italia ad oggi, il problema del mezzogiorno è stato da sempre presente nell’agenda politica dei governi fino ad oggi succedutesi, con conseguenze a dir poco disastrose. Quotidianamente sentiamo politici di qualsiasi voglia appartenenza urlare ai quattro venti la “questione meridionale” come problema da affrontare immediatamente, come una piega per l’intera Italia (sic): ma è bene partire dalle radici storiche di questo problema, e cioè dall’unità d’Italia in poi, per poterlo affrontare con cognizioni di causa, anche per confutare la retorica esaltazione dell’unità d’Italia e di tutti quei storici al soldo della storiografia di stato.

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All’indomani dello sbarco di Garibaldi in Sicilia, la popolazione tutta, in particolar modo i contadini, lo accolsero trionfalmente, lo aiutarono nella lotta contro le truppe borboniche, insomma non parteggiarono certo contro di lui: un vero trionfo, se si pensa anche che ai contadini furono fatte promesse mirabolanti sulle magnifiche sorti e progressive del loro avvenire, quali la redistribuzione dei latifondi e l’abolizione di varie tasse. Garibaldi, però, si dimostrò più realista del re, e alla rivolta dei contadini contro il ripristino della tassa sul macinato, imposta da Cavour subito dopo l’annessione della Sicilia al Piemonte, rispose con una sanguinosa repressione ordinando l’uccisione di migliaia di contadini, tradendo non solo le proprie promesse, ma soprattutto gli ideali di cui si era fatto alfiere difensore.

Dopo che i Savoia estesero il proprio dominio su tutta la penisola, si infuocò il clima di disobbedienza civile di una grossa parte della popolazione meridionale, con atti di “guerriglia” contadina contro le truppe dei “conquistadores”: infatti il meridione d’Italia fu più una terra di conquista che altro, e quindi non è un caso che, a parte i notabili e i latifondisti (certo al riparo, data la loro condizione oggettiva di classe sociale parassita e opprimente, con funzioni di controllo e repressione, oltre che di profitto), la popolazione fu soggetta a tasse assurde (come quella sul macinato) che al tempo dei Borboni non esistevano, a umiliazioni su umiliazioni da parte del governo e dei soldati (le popolazioni meridionali venivano spesso considerate, e senza nemmeno tanto nasconderlo, come delle bestie!), spogliata dei propri diritti, il tutto a favore dei poteri forti di allora, concentrati tra il Piemonte e la Lombardia, che con i proventi delle “ruberie di stato” modernizzarono il proprio apparato produttivo, a scapito dell’economia rurale e industriale del meridione. L’economia dello stato borbonico, infatti, non poggiava solo ed esclusivamente nell’agricoltura, ma aveva sviluppato altresì una florida industria, prevalentemente estrattiva, e ampliato le vie di comunicazione (la prima ferrovia in Italia fu costruita dai borboni, nel tratto Napoli-Portici): meridione si, ma sviluppato, orgoglioso di sé e soprattutto produttivo, al di là della storiografia di stato che definisce lo stato borbonico come un apparato fatto esclusivamente di clientelismo, favori e assistenzialismo vario.

In questo contesto di aperta sottomissione delle popolazioni meridionali si sviluppò il brigantaggio, durante gli anni 1861-65, forte soprattutto tra i monti dell’Aspromonte, che da subito fu sostenuto da una grossa parte della popolazione, anche se spesso indirettamente con aiuti di tipo alimentare e/o logistico: spesso descritti come “truci” e “assassini” dalla storiografia di stato, i briganti, invece, dimostrarono una più forte sensibilità politica e sociale, oltre che etica, dei governanti piemontesi (epiche le gesta del brigante Musolino e dei suoi compagni, ancora ricordate con bellissime tarantelle), ponendo delle legittime rivendicazioni, come l’abolizione della tassa sul macinato, la redistribuzione dei grandi latifondi, il miglioramento delle condizioni dei contadini (che in molti casi erano in uno stato di aperto servaggio), conducendo una lotta armata contro il potere costituito, senza mai scadere in vigliaccherie o vendette trasversali, come spesso invece fecero le truppe dei Savoia nei confronti soprattutto della popolazione, per creare un clima di terrore in modo da distruggere le basi su cui poggiavano le rivendicazioni di chi era in lotta contro il governo piemontese.

Placata la rivolta, dopo anni di sanguinosi scontri, l’animo dei contadini e di tutte quelle persone spogliate dei loro averi e della loro dignità era più di rassegnazione ed estraniazione, e allora il governo pensò bene di “ammansire” (sempre pensando alle bestie!) la situazione provvedendo a rifornire di “pecunia” e posti di potere i notabili e i latifondisti meridionali, in modo da distribuire favori (soprattutto in termini economici) e lavori, in un contesto politico che vedeva, nei fatti, il meridione e la sua popolazione come una terra e un popolo “conquistati” (e non liberati, come qualche pseudo-storico vuole fare credere nei suoi libri).

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Si sa che un vaso quando è colmo di acqua non può sopportare nemmeno un’altra goccia, pena il trabocco del vaso stesso: ed è proprio partendo da questa elementare quanto sostanziale constatazione che va inquadrata un’altra rivolta dei contadini, un po’ meno violenta ma più organizzata di quella dei briganti calabresi, e cioè quella dei fasci siciliani.

A differenza dei briganti, però, il movimento dei fasci siciliani godeva dell’appoggio del nascente  movimento socialista prima, e del partito dopo, non solo su scala regionale, ma anche e soprattutto nazionale: oltretutto aveva un’organizzazione a monte, che coordinava la politica dei diversi fasci dei lavoratori presenti in Sicilia (il più antico fu quello di Messina, fondato nel 1888) e che, quindi,  li rendeva solidali tra loro.

Il movimento dei fasci siciliani, che all’inizio ebbe le stesse caratteristiche di quello dei briganti in Calabria e che sostanzialmente poggiava sulle stesse rivendicazioni, ben presto si accorse che la strada della lotta armata non li avrebbe portati molto lontani, sia perché lo stato unitario si era molto solidificato, e quindi difficilmente da scalfire, sia perché l’esperienza dei briganti calabresi, ancora viva nel ricordo di molti, si concluse tragicamente: la loro lotta fu centrata più sulle agitazioni sindacali e istituzionali che su quella armata, con una strategia di lotta molto valida e innovativa per quei tempi, creando simultaneamente in tutta la regione “focolai” di lotta (che spesso divenivano incendi!). Nel 1893, anno di massimo splendore del movimento, gli scioperi portarono ad avere in una sola giornata più di 100.000 persone aderenti, anche se circoscritti in delle zone e non su tutta l’isola, ma il risultato fece lo stesso impallidire i latifondisti, che chiesero misure urgenti contro i fasci dei lavoratori; se a questo viene aggiunta la vittoria che ebbero durante le elezioni per il rinnovo di comuni e circoscrizioni (in alcuni ci furono veri e propri plebisciti per gli operai e i contadini), si può benissimo affermare che quel movimento fu un movimento reale di massa, cosciente e organizzato, su posizioni marxiste (uno dei dirigenti, Bosco Garibaldi, diventerà uno dei più stimati dirigenti socialisti dell’Italia intera), che mise seriamente in discussione l’assetto politico-istituzionale dell’isola. Il governo centrale, che fino ad allora stette a guardare preoccupato, sfruttò gli scioperi contro i patti agrari per intervenire contro il movimento dei fasci siciliani: fu pressato dai latifondisti e dalla grossa borghesia per proporre con un decreto legislativo lo scioglimento dei fasci, ma ben presto questa soluzione fu abbandonata, in considerazione del fatto che avrebbe potuto innescare una bomba dalla deflagrazione spaventosa . Per ovviare a questa situazione, un deputato di nome Sonnino fece una proposta di legge sui patti agrari, che prevedeva tra l’altro compensi per i miglioramenti agricoli apportati dai contadini nel fondo, la diffusione del contratto di mezzadria, una apposita disciplina per la protezione del lavoro dei fanciulli nelle zolfare, e più in generale norme dirette alla difesa e allo sviluppo dei piccoli proprietari contadini; come da previsione, questa proposta non fu nemmeno discussa per la forte opposizione dei latifondisti e dei notabili, e fu spogliata praticamente di tutte le sue proposte migliori per renderla più consona ai loro interessi.

Con l’opera del governo Crispi, che condusse un’aspra guerra contro il movimento socialista su scala nazionale, i fasci siciliani si trovarono isolati e accerchiati, schiacciati dalla reazione antisocialista, certo incoraggiata ed aiutata dai latifondisti, dai notabili, dalla grossa borghesia e più in generale da quei poteri forti spaventati dalla reazione popolare e, soprattutto, dalla fondazione (1892) del Partito Socialista, che si proponeva come partito organico alla classe operaia e contadina, guidandone e organizzandone le agitazioni e le rivendicazioni; dopo mesi di arresti e agitazioni, il generale Morra, inviato in Sicilia da Napoli dove aveva represso con la forza qualsiasi dissenso, impose lo stato d’assedio su tutta l’isola e sciolse per legge il movimento dei fasci dei lavoratori siciliani, arrestandone tutti i dirigenti. Triste e inglorioso epilogo per un movimento forte e cosciente, che fu da esempio per la sua forza rivoluzionaria e la sua organizzazione, la sua capacità di combattere a viso aperto contro le ingiustizie sociali e per migliorare le condizioni di vita dei contadini e dei lavoratori siciliani.

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Se nell’Italia settentrionale le agitazioni operaie dei primi anni del 1901-2 furono represse secondo uno schema già collaudato, nel meridione la gente era oramai rassegnata, cercava di vivere una vita migliore possibile: lo stato unitario aveva ormai represso e domato con la forza qualsiasi tentativo di ribellione allo stato di cose esistenti, aveva ormai la situazione sotto controllo: al di là di qualche agitazione locale, non ci fu, come ai tempi passati, un movimento organico e organizzato, ormai le basi furono compromesse per molto tempo.

Con l’entrata dell’Italia nella I° guerra mondiale, ai contadini meridionali che partivano per la guerra fu promesso di tutto, dallo smembramento dei latifondi in favore dei piccoli contadini, alla promessa di una terra e di una casa, all’assunzione nella pubblica amministrazione: la solita strategia, che in questo caso serviva ad arginare il fenomeno della diserzione e quindi ad avere molta più carne da macello per i fronti. Le contraddizioni, ovviamente, scoppiarono all’indomani della fine della guerra, quando tutte le promesse furono sistematicamente disattese e i contadini abbandonati a se stessi, spesso spogliati dei propri averi durante la guerra da parte dei latifondisti con la scusa di pagamenti arretrati o di alimenti dati alla famiglia in sua assenza: in questa situazione disperata, ripresero le agitazioni, ma questa volta la direzione da parte del Partito Socialista si rivelò di straordinaria efficacia. Il merito che ebbe il Partito Socialista, e più in avanti quello comunista, fu quello di coordinare ed organizzare le agitazioni locali in un quadro di lotta nazionale, che vedeva quindi gli operai al nord e i contadini al sud lottare insieme, anche se a distanza di centinaia di chilometri, sotto una stessa bandiera: una situazione pre-rivoluzionaria, che non a caso fu chiamata “il biennio rosso”, cui gli stessi dirigenti, però, non seppero guidare verso la giusta e naturale direzione, cercando di indirizzare la lotta in un quadro riformista più che rivoluzionario. Approfittando di questa situazione di “stallo pre-rivoluzionario”, le forze conservatrici e reazionarie si organizzarono, anche con l’aiuto dello stato, dando forti aiuti economici a Mussolini e le sue squadracce per contenere prima, e distruggere in seguito, il movimento che si era creato: le sanguinarie violenze delle camicie nere, il tacito consenso della polizia di stato e dei carabinieri nei loro riguardi, l’appoggio (soprattutto economico) dei poteri forti, furono determinanti per la sconfitta di quel movimento, che si spostò da una posizione pre-rivoluzionaria alla difesa ad oltranza.

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Come era prevedibile aspettarsi, i fascisti ottennero il potere dal re, ampliando la sanguinaria repressione precedentemente avviata, che culminò con l’uccisione di Matteotti, la proclamazione della dittatura fascista, i processi del tribunale speciale nei confronti di dirigenti comunisti e socialisti, tra cui Gramsci e Togliatti, la persecuzione nei confronti di tutti i dissidenti del regime e, soprattutto, lo scioglimento dei sindacati e delle associazioni dei lavoratori. Sotto la dittatura fascista, e quindi in un quadro di feroce dittatura dei poteri economici, le condizioni dei contadini e dei lavoratori meridionali peggiorarono, anche se il governo fascista cercò con la propaganda e un bieco populismo di mascherare le reali condizioni: ovviamente ogni pretesto era buono, come la costruzione di case o bonifiche di terreni, la distruzione delle coscienze era calcolata scientificamente, in special modo quella dei lavoratori e dei contadini. Cose di poco conto, che però nell’immaginario collettivo dei contadini meridionali erano abbastanza efficaci, vuoi perché la costruzione di case popolari era necessaria da sempre, vuoi perché si era talmente pressati psicologicamente dai poteri forti al punto da mettere in secondo piano le già precarie e disastrate condizioni oggettive: la celebre immagine populista di Mussolini che raccoglie il grano per spronare i contadini a produrne molto di più è sintomatica di quanto fu determinante la propaganda fascista per azzerare i dissensi, e in quel caso per “conquistare” il consenso dei contadini al regime. La crisi del ’29 fu una vera e propria catastrofe per i contadini del meridione d’Italia, con un loro conseguente impoverimento, aumentato grazie anche a una politica di contenimento dell’inflazione e di svalutazione della lira: come al solito, chi trasse vantaggi da questa politica governativa furono senza dubbio i capitalisti del nord Italia, che videro aumentati di molto l’esportazione dei loro prodotti, a scapito dell’economia contadina del meridione d’Italia, poggiante sul mercato dei piccoli produttori, che vide un crollo verticale dei prezzi e delle vendite.

(CONTINUA)