VERSO L’AUTUNNO A PUGNI CHIUSI

In Italia (come in gran parte dei Paesi soggiogati dalla capitalismocrazia ovvero da quello che tranquillamente possiamo chiamare autoritarismo liberista) la gestione della crisi strutturale del sistema sta assumendo, in economia e non solo, aspetti grotteschi quanto pericolosi. Per comprenderlo e per analizzare, al tempo stesso, i limiti dell’opposizione ai giullari della neoglobalizzazione dobbiamo chiamare in soccorso una visione della politica non ridotta all’economicismo né astratta e che abbia come filo conduttore ancora una volta la lotta delle classi (riconoscendone la loro non purezza) in condizioni storicamente mutate e continuamente in sviluppo (positivamente o negativamente dipende da una serie di fattori in piena crisi della stessa rappresentanza della “sinistra”: partiti e sindacati in particolare, essere dei movimenti in generale) e in piena assenza di un progetto e di un programma di “riforma economica”  e di rivolgimento dei rapporti di produzione che sia un tutt’uno con una necessaria e critica e consapevole riforma intellettuale e morale: ecco perché resistere ed avanzare non possono vivere separati. Non si vuole ammettere, cioè, che siamo in piena “eversione antidemocratica” e che il distacco tra popolo ed istituzioni è sempre più grande quanto screditati sono partiti e “poli” e sempre più dirompente il ruolo del capitalismo illegale (mafia, logge massoniche ecc.)  o delle corrotte strutture internazionali (Fondo Monetario Internazionale ecc.) su nazioni e continenti. Allo smantellamento dello stato sociale s’accompagna quello di istituzioni democratiche e libertà soffocando ogni opposizione concreta (incredibile quanto sta accadendo in Spagna ai danni di Batasuna o che si tenta di fare in Slovenia) o assorbendo quella minimal-riformista (o esagerando autodefinitasi socialdemocratica), distruggendo il pluralismo sociale e politico (ricerca di un bipolarismo accentratore o dell’alternanza), emarginando ogni minoranza e ogni diversità (neorazzismo e xenofobia dilagano), soffocando ogni movimento fuori dal coro (foss’anche uno Stato: vedi Venezuela, Cuba ecc.). I grandi gruppi economici e finanziari vogliono in sostanza società piegate alle loro scelte miopi ed esclusive anche se le stesse comportano devastazioni ambientali, massacro dei diritti, esplosione di grandi drammi, miseria, fame, carestie e guerre, licenziamenti liberi, taglio di pensioni, sanità, salari, mortificazione dell’istruzione, monopolio dell’informazione e opposizioni appunto piegate ai voleri di sua maestà l’imperatore. Se il 1945 rappresentò, ad esempio in Italia, una tappa della rivoluzione democratica ed antifascista e il 1948 la realizzazione di una tra le Costituzioni più avanzate nel mondo il nuovo millennio va a caratterizzarsi come quello di una controrivoluzione (per quanto moderata) il cui sbocco è l’imporsi di un regime liberal-autoritario. Gran parte degli Stati e del pianeta non sono, dunque, “malgovernati” da ipocriti ma inoltre da organizzati e impietosi truffatori che sanno utilizzare ad arte anche una buona dose di paternalismo e populismo essendo campioni nella menzogna, ottimi lottizzatori, censori senza scrupoli, spietati profittatori e burocrati corrotti che se potessero privatizzare la stessa aria che respiriamo non esiterebbero un istante. Leggi elettorali maggioritarie e proposte presidenzialistiche, ruolo incontrollato dei grandi gruppi finanziari, Stati asserviti a poteri transnazionali e neoimperialistici, conflitti infiniti, nuovi armamenti e informazione deviata, esplosione di fondamentalismi (religiosi, di mercato ecc.), emarginazione sociale ecc. sono sintomi di una strategia “padronale” eversiva ed evidente. L’inferiorità delle sinistre (non solo in Italia e in Europa) non sta nei numeri, nei risultati elettorali ma in realtà nella mancanza di programmi e progetti che pongano con chiarezza le questioni della trasformazione, di mutamenti radicali, di società alternative con una progressiva fuoriuscita dal sistema capitalistico verso una nuova e moderna “COMUNE” affinché i popoli non esercitino poteri formali o inesistenti ma sostanziali. A destra e anche in tanta sinistra (non tutta fortunatamente) i partiti hanno perso ( e alcuni non hanno mai avuto) il loro carattere di organizzazione collettiva diventando sempre di più veri e propri comitati di affari, comitati elettorali corrispondenti a lobbies e piccoli o grandi gruppi economici (cartine al tornasole le guerre: Balcani e successive. E ancora: privatizzazioni selvagge, riformismo blando e antipopolare, burocrazie, leaderismi, sopraffazione di diritti e Lavoro, esclusione ed emarginazione ecc.). Nessun cambiamento è possibile al di fuori di un nuovo internazionalismo dalla parte dei popoli a partire da quelli del Sud del mondo, superando vecchie e logore logiche etno-marxiste (liberando il marxismo-leninismo e i più marxismi dalle maglie del settarismo e del dogmatismo rendendo la filosofia della prassi una linea per l’azione), valorizzando il proprio senso comune e una propria volontà collettiva, direzionando le lotte nella struttura e nella sovrastruttura, perfezionando la propria tattica e la propria strategia, aprendosi ad ogni, per quanto contraddittorio, movimento antagonista e soprattutto mandando a casa un ceto politico vecchio o falsamente giovane aggrappato al potere e ai privilegi che ne conseguono, sollecitando la nascita di un nuovo collettivo politico nonostante sistemi bloccati e un incredibile “oscurantismo” di tanta sinistra “ufficiale”. Il cervello criminale e nemico dello Stato, della cooperazione tra i popoli e della stessa civiltà è, per sintetizzare, nello Stato e nelle più significative strutture internazionali: prenderne atto è un dovere! Una sinistra nuova deve fare i conti con questi problemi e deve sapersi misurare proponendo soluzioni a importanti questioni (agricoltura, industria, comunicazione, servizi, cultura e sport ecc. ecc.) che si presentano in forma nuova, deve colmare ogni divario esistente tra Nord e Sud, deve fare i conti con la distribuzione delle ricchezze e una nuova qualità dello sviluppo, dell’ambiente, della vita, del rapporto tra i sessi, deve fare i conti non solo con le enormi tragedie che viviamo ma anche con essenziali riforme delle istituzioni (nazionali ed internazionali) che garantiscano grandi cambiamenti sociali e la partecipazione ad ogni scelta delle masse da sempre escluse dalle stesse e dalla loro gestione. Marx ed Engels non fondarono il Partito Comunità ma scrissero il Manifesto dei comunisti e noi, oggi, dobbiamo rinnovare quel Manifesto proponendo una nuova unità a sinistra cementata su un progetto e l’unità dei mezzi con il fine. Lenin ipotizzava la repubblica dei Soviet e non quella del partito e noi, oggi, dobbiamo rilanciare l’idea dei consigli (luoghi di lavoro e di studio, vere e proprie case dei popoli) e di una riforma delle istituzioni che promuova il controllo dei cittadini e riscopra la funzione storica mai sopita del mondo del Lavoro. Se credessimo maggiormente nelle nostre possibilità senza “piangere” dinanzi al padrone, se non misurassimo il nostro agire con il vincere o il perdere, con il contarci, con il capo di turno, se non ci identificassimo con l’opposizione al “palazzo” sognando di entrare nel “palazzo” semplificheremmo di gran lunga le nostre stesse tormentate esistenze e il confronto e lo scontro delle idee. L’insegnamento più significativo che ci viene dalla storia  de “LA COMUNE” di Parigi di un lontano 1871 (a molti ignota), fu che un movimento entrò nel vivo delle contraddizioni di un’epoca e di un sistema e iniziò ad imparare a fare politica incarnando la causa dell’integrale emancipazione dei lavoratori, lanciando un messaggio universale e facendoci comprendere che lo Stato o un “impero” non si abbattono dall’oggi al domani e meno che mai se un movimento è pregno di opportunisti. “LA COMUNE” non è mai tramontata come non lo sono le alternative che proponeva, l’organizzazione dal basso, una democrazia inedita, piani immediati e di lungo respiro. Così come è folle dimenticare la lezione che ci viene dalla Rivoluzione Russa o da quella cubana e cinese (da analizzare e leggere con spirito fortemente critico nel loro svilupparsi, esistere o morire) poiché l’esperienza de “LA COMUNE”, dei soviet o dei barbudos o del libro rosso rimangono esempi che rendono vivo ogni sguardo proiettato verso il futuro e che vanno oltre il puro sentimento o amore verso gli stessi eccezionali protagonisti del secolo appena andato (Lenin, Gramsci, Luxemburg, Guevara e milioni di senza nome). E questo in un tempo, a partire in maniera evidente dagli anni settanta, nel quale l’assoluta libertà dei movimenti delle merci e di capitali unita alla riduzione drastica delle politiche sociali, ad un crescente controllo dei paesi indebitati e condannati al “terzomondismo”, ad un ulteriore mortificazione dei diritti e del Lavoro, rendono il pensiero e la pratica liberista il tumore del pianeta, in giorni in cui, di fatto, non c’è sviluppo ma arretratezza (nonostante le nuove tecnologie) e un’espansione foriera di distruzioni irreversibili condita da un assistenzialismo spregevole.  O siamo capaci di riempire l’autunno caldo di valide proposte e viverlo nel corso di un anno intero e aldilà dei governi di destra, senza tentativi clownistici di cavalcare ogni protesta per scopi particolaristici, oppure involontariamente siamo destinati ad essere spettatori della decomposizione di questo mondo per quanto ci si agiti. Questa non è l’epoca delle disuguaglianze ma dell’organizzazione delle stesse. Noi viviamo sotto regimi oligarchici (dall’Italia all’Argentina facendo scalo in Francia o La Paz o a Bogotà e raggiungendo la lontana Australia) dove ogni decisione (tra un G8 o 9 o 10 e summit giganteschi), dagli apparati militari alla legalità, dall’industria all’energia, dal clima alla sopravvivenza della specie…, è in mano alla “personalizzazione del potere” e lesiva di ogni sovranità popolare. Obiettivo delle classi dominanti è anche quello di rendere il liberalismo economico un modo di vivere in cui  i bisogni siano pensati soddisfatti essendo tutti consumatori individuali ed utenti che creano profitto. La società neoliberale vuole essere nei programmi dei suoi gestori un “assoluto intramontabile” disponibile ad un’alternanza e ai conflitti purché non ne intacchino l’essere e la sua etica dell’avere. Non possiamo, quindi, aderire alle grandi lotte che abbiamo dinanzi proposte dalla CGIL (dopo la svendita di tutto il patrimonio di storia e di esperienza della CISL e della UIL come sollecitato dagli stessi enunciati di Gelli o della P2) o dai girontondini senza pretendere, partecipando come faremo, qualcosa di più: a partire da un’iniziativa forte e consapevole per mandare a casa i nuovi barbari. Bisogna difendere l’articolo 18 contro la libertà di licenziare ma bisogna difendersi dai licenziamenti a macchia di leopardo, dalle politiche finanziarie, dal caro-vita, dall’evasione fiscale e dai paradisi salariali, dallo svilimento del potere d’acquisto, dalla giungla retributiva, dalla disoccupazione, dalle privatizzazioni dei servizi, dall’attacco a pensioni, sanità. istruzione ecc. C’è una gerarchia retributiva, favorita anche da un ruolo sempre più corporativo dei sindacati, irrispettosa di capacità ed intelligenze, nel nostro Paese, spaventosa. Totale è, poi, la mancanza di una vertenza per il Lavoro e mai sepolta la pratica clientelare che regola ulteriormente le disuguaglianze e neo-parassitismo. Assente un briciolo di modello di sviluppo per grandi aree e settori e una concreta politica fiscale (almeno rispettosa del mandato costituzionale). Il denaro pubblico è estorto e poi orientato, in un intreccio marcato con poteri occulti anche d’oltreoceano, per motivi clientelari… Più che le tariffe pubbliche le alte retribuzioni (in mancanza di un tetto) date in gran parte fuori da competenze e “meriti” intervengono in parte sui meccanismi inflazionistici sia dal lato dei costi che dei consumi e a vantaggio di beni di lusso prodotti oltre il nostro stesso cortile di casa. Gli ultimi governi hanno, poi, accellerato, quella che potremmo definire una vera e propria crisi fiscale e dei salari (diretti, indiretti…) inventando vieppiù lavoro interinale e flessibile, sottopagato e nuovo schiavismo. Le stesse classi medie, generalmente conservatrici  e culla dell’apatia politica, iniziano a sentire il peso di politiche economiche, fiscali e finanziarie (anche dopo l’unica unione europea realizzata: quella della moneta. Mentre altre nazioni vivono una violenta dollarizzazione) scellerate. Nell’agricoltura e nei servizi, nel turismo e nell’artigianato, nel piccolo commercio e in taluni lavori autonomi abbiamo, invece, toccato il fondo. Non basta impegnarsi nella contrattazione nazionale se questa non è finalizzata a ragionamenti sul Welfare, sull’accumulazione e la distribuzione di ricchezze, sulla cooperazione internazionale, importazione ed esportazione, sulla ricerca e il cosa produrre attivandosi contro squilibri di classe e nei consumi sociali che vanno raggiungendo livelli inquietanti. Un euro vale quasi mille lire in realtà  e la FIAT come la divisione sociale del mercato del lavoro e la svalorizzazione del lavoro produttivo stanno lì a dimostrare che i privilegi derivano da strutture politiche ed istituzionali che favoriscono unicamente posizioni corporative, di parte, istituzionali e di potere. Ciò che è fortemente in crisi è l’organizzazione del lavoro e il rapporto (con l’aiuto, inoltre, della controriforma per la scuola) tra lavoro manuale e intellettuale. Tuttavia nessuna lotta ha davvero senso se non è accompagnata da una grande consultazione di massa che crei coscienza e consapevolezza. Rimane, per noi, non rinviabile una lotta strenua per la riduzione dell’orario di lavoro (36 ore) a parità di salario scomparsa dalla agenda politica di qualsiasi forza politica di sinistra in Italia. Rimane importante rivalutare in forme nuove la scala mobile (rapporto tra stipendi e processi inflattivi aggiungendo rapporti tra valore del salario e spesa) e la nascita di sedi istituzionali intese come sportelli per una mappatura reale del non lavoro e sedi per l’ottenimento immediato di un reddito minimo garantito nelle condizioni del disagio verso la piena occupazione equamente e giustamente retribuita. Bisogna in sostanza far uscire il Paese da una microeconomia alle dipendenze di una macroeconomia che ci vede servi sciocchi e rilanciare lotte sindacali e politiche per l’alternativa a questo stato di cose a maggior ragione dopo gli accordi tra CISL  e UIL e governo delle destre realizzati per normalizzare e ingabbiare tutta la politica contrattuale e sindacale riducendola ad una pratica rivendicativa, limitata e consociativa. Dobbiamo chiedere alle lotte d’autunno governi alternativi e una sinistra per la democrazia popolare, la contrattazione come valore riconosciuto al pari del diritto a vivere la piazza, la promozione della condizione operaia e bracciantile, egualitarismo salariale, controllo sociale dell’impresa e dell’economia per non continuare solo a difendere. Se il sindacato è mosso dalle stesse preoccupazioni della Confindustria e dei ceti dominanti dinanzi alla crisi non si va lontano e non si interviene su crisi e recessione in maniera determinante. Se il sindacato (e la sinistra che ne è addirittura scavalcata) ha le stesse preoccupazioni del padronato, della stabilità del quadro economico, dell’equilibrio nei rapporti economici internazionali, della regolazione dei rapporti tra le classi siamo in presenza di un cedimento che anziché proporre sviluppo e occupazione, diritti e nuovi lavori, ci ingabbia in una riduzione della capacità produttiva e in un arretramento di tutto il vivere sociale. Salvaguardare a tutti i costi il livello di produttività delle aziende intervenendo sul costo del lavoro e convivendo con la sottoccupazione e disoccupazione, favorendo gabbie salariali, privatizzando oltre misura, pensando alla quantità delle merci e non alla qualità, manipolando bisogni e condizionandoli è approfondire la crisi. In questo momento sembra che non esistano piani che inseriscano nella società elementi di socialismo che spingano verso un mondo nuovo. Libertà di licenziare, costruzione di un esercito di riserva controllato, condoni e agevolazioni ai detentori del profitto, apertura del proprio territorio e senza regole a poteri economici forti, smantellamento dello stato sociale, evasione fiscale e sfruttamento da legalizzare, messa all’asta di ogni bene collettivo, sottomissione alla banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale e in genere alle scelte delle strutture di Bretton Woods, valorizzazione dell’industria delle armi e delle manipolazioni genetiche senza controllo, rapporto coercitivo con l‘ambiente ecc. sono espedienti microeconomici che danno il quadro di scelte macroeconomiche che abbiamo chiamato autoritarismo liberale e che in Italia trovano nel paladino del falso in bilancio e dell’attacco alla legalità e alla Costituzione democratica uno dei servi più fedeli. Quanto più ci si allontana dalla lotta di classe e dalla realtà di uno sviluppo mondiale ineguale da contrastare in cui lo stesso fenomeno dell’immigrazione assume aspetti distorti tanto più la politica economica si riduce al piccolo compromesso, al solo problema corporativo. In realtà ci aspettiamo che dall’autunno 2002 la lotta ritrovi la sua dimensione politica, la ritrovi nella manifestazione del 14 settembre che intende evitare l’assassinio di giusti processi e dello stesso ruolo democratico della Magistratura in questo Paese, la viva nella manifestazione, che ci vede protagonisti, degli immigrati del 15 settembre che terminerà al Vaticano, si rinnovi in una battaglia quotidiana in ogni luogo di studio e di lavoro e si rafforzi gemellandosi con lotte analoghe in ogni parte d’Europa e del pianeta. Lo scandalo per questo Paese (come in Colombia o negli USA, in Uruguay e in Argentina, in Giappone e in tanta parte dell’Africa ecc.) è rappresentato da forze antidemocratiche che sono annidate nelle istituzioni e che lavorano quotidianamente per privarle di senso e ruolo insieme all’emarginazione non di una parte della società e dell’ opposizione ma del popolo stesso. Forse chiediamo troppo ma ci appartiene anche l’utopia e il desiderio di cristallizzarla.

Michele Capuano