Sullo sciopero in generale  
di Massimiliano CARBONIERO

 

Un Paese si ferma quando un gran numero di lavoratori di diversi settori produttivi non si presentano sul posto di lavoro. E’ lo sciopero; un’astensione collettiva dal lavoro da parte di dipendenti, a tutela dei propri interessi. Lo sciopero è cosa legittima e legale: l’articolo 40 della nostra Costituzione ne garantisce l’esistenza. Di scioperi, sul Pianeta, se ne sono fatti tanti e tanti se ne faranno sempre. Si sciopera per i diritti, per i salari, per gli orari, per la sanità, per la pensione, per vivere meglio e comunque, generalmente, sempre per giuste cause. Si può scioperare a scacchiera, a catena, a singhiozzo; esiste lo sciopero bianco e quello selvaggio. Lo sciopero può essere anche individuale, della fame o della sete. Di fatto però, scioperare deriva dal latino exoperare, ovvero smettere di lavorare. Il 16 aprile 2002 c’è stato uno sciopero generale in Italia.

Milioni di persone hanno smesso di lavorare. Quelli che hanno smesso di lavorare hanno perso una giornata di busta paga: dai 50 ai 100 euro, qualcuno un po’ di più, altri meno. Scioperare è anche un po’ soffrire, almeno a livello salariale. Lo sciopero era contro diversi provvedimenti del governo in materia di lavoro e pensioni ma, soprattutto, per difendere l’articolo numero 18 della Legge 300 del 1970. La Legge 300 è lo Statuto dei lavoratori, cioè un documento di una decina di pagine dattiloscritte che parla di libertà e dignità dei lavoratori, dell’attività sindacale, degli studenti che lavorano etc. In tutti gli Stati democratici i lavoratori sono tutelati. In qualche luogo del mondo i lavoratori sono più tutelati che altrove; in Europa, lo Stato più progressista in questo senso è la Francia. La Francia non è uno staterello qualsiasi ma una potenza mondiale. In Italia si vuole tornare indietro con gli anni. Il presidente del Consiglio è padrone d’impresa e, come tale, vuole la flessibilità in uscita. Flessibilità in uscita si pronuncia licenziamenti più facili. Funziona così: un lavoratore viene assunto da un’impresa qualsiasi, dopo qualche mese si scopre che il lavoratore si è iscritto ad un sindacato. L’impresa si allarma, trova un cavillo e, articolo 18 abolito, gli dice che la sua collaborazione non serve più. Il lavoratore rimane su una strada. Magari ha 45 anni e figli a carico. L’impresa è contenta e, al posto del licenziato, trova un altro lavoratore meno sindacalizzato.

Oppure funziona così: una lavoratrice viene fatta oggetto di lusinghe e proposte da parte di un caporeparto farfallone, la lavoratrice non ci sta a fare la bella statuina e non accetta gli inviti a cena del suo capo. Un giorno gli arriva una lettera e viene licenziata senza giusta causa. La lavoratrice perde il posto di lavoro. Il caporeparto  aspetta la prossima preda. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori tutela queste e altre angherie. Il titolo dell’articolo è: “reintegrazione nel posto di lavoro”. Significa che se un magistrato scopre che un lavoratore è stato licenziato perché faceva attività sindacale oppure che una lavoratrice è stata licenziata perché non voleva andare a letto col suo capo, il datore di lavoro è obbligato a reintegrare il lavoratore, cioè farlo tornare a lavorare. In un Paese democratico e civile dovrebbe essere una cosa normale. In Italia c’è un presidente del Consiglio che è membro di Confindustria, quindi per lui è normale fare gli interessi delle imprese. E le imprese vogliono poter licenziare. Il Paese si è dunque fermato per difendere i diritti dei lavoratori. I lavoratori sono quelli che si svegliano la mattina alle cinque, bevono il caffè, prendono il tram e si presentano in fabbrica. Per otto ore. D’estate, se possono vanno al mare dieci giorni per cambiare aria. A mezzogiorno panini in spiaggia, di sera una pizza. Devono pagare il mutuo della casa, così i figli un tetto sicuro ce l’hanno. I lavoratori sono anche quelli che vanno in ufficio alle dieci, davanti allo schermo del computer. Loro di notte non lavorano ma, con i contratti che hanno, non sanno mai se il giorno dopo saranno ancora occupati. Sono lavoratori anche i ferrovieri, i panettieri, i bancari, gli infermieri, gli impiegati, gli autisti, i giardinieri, i portalettere, i tecnici industriali, i braccianti e i muratori. Anche le tante donne e i tanti uomini dei Call Center sono lavoratrici e lavoratori. Tutte queste persone, per sapere se possono progettare il loro futuro, se possono comperare una casa, se possono avere dei figli o andare in vacanza hanno bisogno di sapere se, domani, un lavoro lo hanno ancora. L’articolo 18 garantisce al lavoratore la sicurezza di un’occupazione quantomeno stabile. Il 16 aprile i lavoratori hanno detto no alle modifiche dell’articolo 18 dello Statuto che li riguarda. Quelli che non hanno scioperato hanno detto che i sindacati fanno politica. Se la politica è difendere le lavoratrici e i lavoratori, gli immigrati e i disoccupati, gli studenti e i pensionati allora è una gran bella politica.