L’ultimo
lavoro dello storico del movimento operaio Ferdinando Dubla, “La Resistenza accusa ancora - Pietro Secchia e l’antifascismo
comunista come liberazione popolare e lotta di classe (1943/45)”,
Nuova Editrice Oriente (€ 7,75), ha un suo senso complessivo che non può non
precedere una qualunque recensione: attualizzare i valori resistenziali per
combattere la retorica imbelle da una parte e il revisionismo storico e politico
dall’altra. Dubla ha dedicato il libro ad Angelo Gracci (il partigiano
comandante ‘Gracco’ della Brigata “Potente” che liberò Firenze
nell’agosto del ’44) per l’intero esempio della propria vita: combattente
allora, combattente sempre in prima fila anche oggi per l’affermazione degli
ideali comunisti e di eguaglianza sociale. E il punto è proprio questo: quale
Resistenza, come ricostruire, attualizzandola, la Resistenza storica
antifascista? L’autore ha seguito la documentazione delle carte
dell’Archivio Secchia, un protagonista decisivo dell’antifascismo comunista,
il più radicale e nello stesso tempo il più efficace nella lotta contro il
nazifascismo. Dunque il testo propone la questione della preminenza militare
delle Brigate “Garibaldi” rispetto alle altre componenti resistenziali, che
non si tradurrà, se non in parte, in egemonia politica per evidenti ragioni
oggettive come la presenza nel nostro paese delle truppe angloamericane. La
“ricezione” della strategia togliattiana dopo il marzo del ’44, da parte
della direzione milanese del PCI guidata da Luigi Longo e Pietro Secchia, fu
funzionale alla vittoria militare per spostare in avanti i rapporti di forza
complessivi nella dialettica fra moderatismo e rivoluzione, esemplificato dai
CLN. E quale concezione muoveva i comunisti per il carattere della lotta
partigiana? Liberazione popolare, perché dall’esempio delle avanguardie la
lotta doveva essere allargata alle masse popolari guidate dalla classe operaia:
dunque lotta di classe. Solo così si spiega la forza degli ideali resistenziali
comunisti: si combatteva con il popolo al servizio del popolo per costruire
l’Italia socialista dei liberi e degli uguali, senza ricadere nelle
contraddizioni dello Stato liberale prefascista e i lavoratori dovevano essere
il perno della nuova Italia.
In definitiva, la Resistenza
comunista è l’antifascismo più coerente e conseguente: cioè anticapitalismo
e antimperialismo militante, per un processo rivoluzionario in direzione del
socialismo. Un carattere attualissimo oggi, se questa disamina passa alle
giovani generazioni, a cui volutamente si cerca di annichilire la memoria: ecco
perché il revisionismo nelle sue forme peggiori passa al negazionismo e alla
negazione (appunto) dei valori della Resistenza comunista. E’ la ragione per
la quale queste pagine di densa ricerca storica (che ha comportato anni di
lavoro) sono precedute in premessa da altre pagine altrettanto dense e toccanti
scritte da Luigi Longo, “La consegna dei nostri morti”, tratto dal
bellissimo Un popolo alla macchia: perché quel testimone non sia
lasciato cadere, ma preso nelle coraggiose e audaci teste e cuori dei giovani
militanti d’avanguardia. Ecco perché la Resistenza “accusa ancora”: “La
Resistenza accusa”, così titolò Secchia un suo bellissimo discorso al Senato
del 28 ottobre 1949, in cui denunciava la persecuzione pretestuosa di partigiani
nel dopoguerra, come quella, ad esesmpio, di Cino Moscatelli. Mentre fascisti e
collaborazionisti vari godevano di protezioni e impunità. E questo fu il titolo
da lui scelto per la raccolta dei suoi scritti, edita da Mazzotta nel 1973.
Ma la Resistenza accusa ancora?
Noi crediamo di sì, e continuerà ad accusare fino a quando gli ideali di
liberazione popolare e lotta di classe non si saranno inverati. Nelle battaglie
di oggi per la nuova Italia socialista di domani.
Quattro edizioni in due mesi: la Critica della retorica
democratica di Luciano Canfora, edito da Laterza (€9,50) è indubbiamente
uno di quei piccoli libri dalle grandi idee, che mette sotto accusa l’uso
distorto e strumentale (retorico, appunto) del concetto di democrazia, brandito
dalle classi dominanti come “sistema” superiore rispetto a “sistemi
totalitari”. Ma il libro è un dis-velamento, tramite la storia,
dell’inconciliabilità tra liberalismo capitalistico e democrazia. Ci
torneremo; intanto, vale la pena di leggerlo in quest’epoca di pensiero unico.
Da segnalare anche un bel testo di Vittorio Nisticò,
direttore storico de L’ora di Palermo, uno dei punti alti della
resistenza antimafiosa e antipadronale in Sicilia, che ci aiuta a ricomprendere
il significato dell’impegno militante in prima persona per “cambiare lo
stato di cose presenti” nell’epoca della resistenza alla globalizzazione
neocapitalista e imperialista: Accadeva in Sicilia: gli anni ruggenti
dell’Ora di Palermo, Sellerio, due volumi,
€ 24,79.
La sigla Laf sta ad indicare
l’ex Laminatoio a freddo, una palazzina presente all’interno dell’impianto
siderurgico di proprietà della famiglia Riva, l’ILVA di Taranto:
il più grande stabilimento siderurgico d’Europa, passato in mani private
grazie alle concessioni e favori dei governi “europei” del centro-sinistra,
tra cui particolarmente quello di Prodi, con Dini ministro imparentato con il
nuovo paròn genovese Emilio Riva, diventa un laboratorio di esclusione,
emarginazione e supersfruttamento. E proprio qui, nel febbraio 1998,
scoppia lo scandalo dei confinati nella struttura da allora denominata palazzina
Laf, come ad evocare “campi” di tristi ricordi. E’ proprio qui che Riva
confina circa una cinquantina di operai e impiegati, ai quali era stato imposto
di lasciare ogni tipo di attività sindacale o accettare il declassamento del
proprio livello raggiunto dopo anni di duro lavoro, in nome di una selvaggia
riorganizzazione di sfruttamento della forza lavoro presente nello stabilimento
siderurgico, con un incremento dei licenziamenti giustificati da presunti
esuberi. Alla luce di quanto la Procura
ha potuto ricostruire soprattutto sulla scorta di ciò che è emerso da una
serie di testimonianze, quella palazzina avrebbe
rappresentato dunque una sorta di spauracchio per tutti quegli operai o
impiegati che non avrebbero seguito gli ordini padronali. A far cosa? Nulla di
nulla, in una progressiva distruzione psicologica e di autostima in sé che
avrebbe portato più di qualcuno sull’orlo del suicidio e comunque in uno
stato di pericolosa depressione.
A documentare la sofferenza e la prostrazione che
hanno vissuto questi lavoratori c’è la parte centrale del libro, il racconto
di Claudio Virtù, anch’esso confinato nella Laf, la cui lettura dimostra come
la realtà a volte possa superare l’immaginazione. La testimonianza, il
racconto-inchiesta di Claudio non solo lo rende vittima-protagonista, ma monito
a quanti dipendenti a vari livelli e appartenenti a diverse categorie, sono
costretti a vivere in condizioni di vessazione, non solo da parte dei padroni,
ma addirittura dei propri colleghi, vittime evidentemente delle stesse logiche
padronali.