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SPECIALE POLIZIA:  
DOMANDE E RIFLESSIONI
 
DOPO GLI ARRESTI DI NAPOLI

Otto ordini di custodia cautelare e oltre 100 avvisi di garanzia emessi dalla magistratura di Napoli nei confronti di poliziotti e funzionari di polizia sono le conclusioni di un’inchiesta giudiziaria senza precedenti che vede il maggiore Corpo dello Stato sul banco degli accusati.

Cosa è successo a Napoli?

5 domande e 5 risposte per saperne di più.

Cosa è successo a Napoli il 17 marzo 2001?

Tra il 14 ed il 17 marzo 2001 si svolge a Napoli un convegno, organizzato dall’OCSE (l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), dedicato al cosiddetto E-GOVERNEMENT, cioè il governo elettronico, un’altra trovata della globalizzazione.

Da notare che il convegno avviene sotto il patrocinio di un governo di centro-sinistra e che ministro dell’Interno è in quei giorni uno dei più disastrosi ministri che l’Italia repubblicana abbia mai avuto: il signor Enzo Bianco.

Nel corso di quelle giornate - esattamente come succederà a Genova quattro mesi dopo - i partecipanti al convegno si trincerano all’interno della “zona rossa”, una zona ultra-protetta dalle forze di polizia. Ed esattamente come succederà a Genova: un corteo di manifestanti - che intendeva violare simbolicamente quella “zona” – viene selvaggiamente caricato da agenti di polizia.

La motivazione delle cariche della Polizia sta nel fatto (incontestabile) che – seppur simbolico – al tentativo di invadere la “zona rossa” partecipano non pochi manifestanti muniti di bastoni e mazze di ferro.

Per nulla giustificabile è invece un'altra caratteristica che troveremo ancora a Genova: la deficienza tattica del comportamento della Polizia che, anziché lasciare una via di fuga ai manifestanti, chiude come in una morsa tutta la zona antistante il municipio napoletano (proprio quello che avverrà in piazza Alimonda a Genova dove Carlo Giuliani sarà assassinato da un carabiniere), mettendo così nel conto che a Napoli, quel 17 marzo, ci sarà una vera e propria mattanza.

E così accade.

Questa scelta scellerata da parte della Polizia (il più rudimentale manuale di ordine pubblico spiega che nel contrastare un corteo va sempre lasciata una via di fuga ai manifestanti, altrimenti l’obiettivo non è mantenere l’ordine, ma provocare una carneficina) appare non solo premeditata, ma addirittura fine a se stessa. Tant’è che al termine degli scontri ( o meglio della caccia all’uomo di manifestanti assolutamente pacifici e a mani nude) il bilancio sarà di oltre 200 feriti, ma di appena due arresti.

Nel corso degli incidenti la polizia arriva a prendere a sassate un gruppo di giornalisti che assiste alle scene.

Perché 8 poliziotti sono stati arrestati?  

Non sono stati gli incidenti ad interessare la magistratura di Napoli - che sulla vicenda apre subito un fascicolo - ma quanto accadrà poco dopo: gruppi di poliziotti invasati (così li descrivono i testimoni) prendono d’assalto i pronto soccorsi degli ospedali di Napoli, invadono gli ambulatori e strappano dalle mani di medici ed infermieri diversi giovani che stavano facendosi medicare, nonché altri che si trovano nelle sale d’attesa. Alcuni di loro non hanno partecipato alla manifestazione, uno – ad esempio – è caduto da un motorino, un altro è lì per accompagnare un parente. I poliziotti non guardano in faccia a nessuno e trascinano 82 persone in una caserma, la caserma Raniero.

Le persone – formalmente fermate solo per essere identificate – durante il tragitto vengono pesantemente insultate e maltrattate (specie quelle di sesso femminile). Resteranno alla Raniero dalle cinque alle sette ore e – stando sempre ai racconti raccolti dai magistrati inquirenti – vengono vessate, minacciate, pestate, in alcuni casi brutalizzate e torturate. Tra loro c’è perfino un disabile. In altre parole, il loro habeas corpus – che è alla base di qualsiasi stato di diritto – viene palesemente violato.

Sulla base delle testimonianze convergenti e dei riconoscimenti effettuati da quelle 82 persone, otto poliziotti - tra funzionari e dirigenti di polizia - vengono messi agli arresti domiciliari con le accuse gravissime di sequestro di persona, lesioni personali e violenza privata. In un caso c’è anche il sospetto (non ancora formalizzato) di tentata violenza sessuale.

Sembra di assistere a quella spedizione punitiva che, sempre la Polizia, porterà a termine – quattro mesi dopo – nella scuola Diaz e nella caserma Bolzaneto di Genova.

Era proprio necessario procedere agli arresti?  

Di quanto è accaduto nella caserma Raniero nel pomeriggio di quel 17 marzo non c’è alcuna traccia nei verbali e nei rapporti di Polizia. L’inchiesta della magistratura è proceduta a rilento anche perché molti dei testimoni sono stati pesantemente minacciati prima e dopo il loro rilascio dalla Raniero. Per il GIP che ha firmato gli arresti, quegli otto poliziotti sono socialmente pericolosi, possono continuare ad intimorire i denuncianti e quindi vanno isolati. Non in carcere, ma nelle loro abitazioni.

Perché sono trascorsi 13 mesi?

L’inchiesta della magistratura di Napoli – condotta dal procuratore aggiunto Paolo Mancuso e dai sostituti Marco Del Gaudio e Francesco Cascini – si è svolta lentamente perché sul suo cammino ha trovato mille ostacoli. Non solo vittime terrorizzate, ma anche un deciso ostruzionismo da parte dei vertici della questura di Napoli. Qualche esempio?

I magistrati non riescono a ricostruire la catena di comando. Chi ha ordinato di intervenire nei pronto soccorsi? Risposta: “la decisione è stata assunta ai vari livelli di responsabilità”. Una risposta burocratica e fumosa per non dire chi.

Vengono chieste alla questura di Napoli le foto degli agenti in servizio quel giorno, presenti nella caserma Raniero: vengono recapitate in procura foto vecchissime ed immagini irriconoscibili.

Se a questi sciocchi intralci (la corporazione dei poliziotti si difende) viene aggiunta una certa cautela della magistratura ecco spiegati 13 mesi di indagine.

Napoli è stata la prova generale per Genova?

La domanda sottende una sorta di nuova pianificazione del mantenimento dell’ordine pubblico in Italia, basata sulla violenza e la sopraffazione. Difficile crederlo.

A meno di non voler dimostrare che gestioni politiche diverse (Amato prima e Berlusconi poi a Palazzo Chigi; Bianco prima e Scaiola poi al Viminale) abbiano in realtà gli stessi contenuti e le stesse finalità.

Più semplice ammettere che, nella gestione democratica delle piazze, Polizia e Carabinieri siano tornati all’anno zero, cioè agli anni Settanta quando sulle piazze si apriva il fuoco. Abbiano cioè in primo luogo perso professionalità e capacità operative.

Più inquietante un'altra ipotesi: che i Corpi dello Stato italiano abbiano perduto anche la necessaria tenuta democratica. E che tentazioni corporative e fasciste stiano nuovamente insinuandosi al loro interno.  

 

LETTERA ALLA STAMPA 
DI MAGISTRATURA DEMOCRATICA


2 maggio 2002 

Da giorni le polemiche conseguenti alle misure cautelari emesse dal giudice per le indagini preliminari di Napoli nei confronti di otto appartenenti alla polizia di Stato occupano le prime pagine dei media. I toni, davvero senza precedenti, di tali polemiche, la provenienza delle stesse e i gesti che si sono ad esse accompagnati hanno già indotto l’Associazione Nazionale
Magistrati a segnalare al paese l’improprio e gravissimo condizionamento, tale da alterare la corretta dinamica processuale, esercitato in tal modo sui magistrati (quelli che stanno svolgendo le indagini e quelli che dovranno, in un futuro più o meno prossimo, pronunciarsi sul punto). Il richiamo, preoccupato e pressante, del Capo dello Stato alla necessità di
ritrovare un rapporto di rispetto e di collaborazione tra le istituzioni attenuerà - ce lo auguriamo - le asprezze più evidenti. Ma ciò che è accaduto in questi giorni ha aperto una ferita che difficilmente sarà rimossa.
Il punto di partenza ha dell’incredibile. All’indomani del 17 marzo 2001 numerosi organi di stampa, cittadini di ogni colore politico, organismi internazionali tradizionalmente prudenti, hanno chiesto al ministro dell’Interno di far luce sulle reiterate segnalazioni di “maltrattamenti nei confronti dei fermati, alcuni dei quali minorenni, nelle stazioni di
polizia”, specificando che “secondo quanto riferito, alcuni sono stati obbligati a stare in ginocchio sul pavimento con la faccia al muro per molto tempo e sottoposti deliberatamente a percosse, calci, schiaffi, insulti verbali spesso di natura oscena e a sfondo sessuale e che molti fermati hanno subito perquisizioni intime ed, in alcuni casi, la condotta degli agenti durante le perquisizioni è parsa deliberatamente mirata ad umiliarli e degradarli” (così il segretario internazionale di Amnesty International in un appello al ministro Bianco del 28 aprile 2001). Nessuna conseguente iniziativa è stata assunta - a quanto è dato sapere -  né dal
governo allora in carica né da quello attuale: e ciò pur in un contesto costituzionale che proibisce “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” (art. 13 comma 4) e in un contesto internazionale che parifica alla tortura i “trattamenti inumani o degradanti” nei confronti di fermati o detenuti (Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti del 1987). Un anno dopo la Procura di Napoli e il giudice per le indagini preliminari della stessa città, all’esito di indagini complesse e difficili, hanno ravvisato l’esistenza di “gravi indizi” in ordine
all’effettiva sussistenza di tali maltrattamenti. Questa era la notizia sconvolgente che avrebbe meritato l’attenzione e la riflessione delle istituzioni e della società. O a nessuno interessa il fatto che dei cittadini (dimostranti o meno) entrino in un commissariato incolumi e ne
escano pestati a sangue, umiliati, derisi? Dove sono finite la Costituzione, le convenzioni internazionali, la civiltà giuridica e la civiltà tout court? I fatti, prima ancora che le responsabilità individuali, vanno accertati, ma il solo dubbio che essi (in tutto o in parte) siano davvero accaduti apre una frattura gravissima nel rapporto tra istituzioni e società. Eppure di ciò il dibattito si è occupato solo marginalmente.
Oltre che sui fatti la magistratura napoletana ha ritenuto di avere raccolto “gravi indizi” anche in punto responsabilità individuali e ha disposto, per otto appartenenti alla polizia, gli arresti domiciliari. Il seguito è noto: prima l’aggiramento, da parte della Questura, dei modi e
dei tempi disposti dalla magistratura per l’esecuzione delle misure cautelari, poi il tentativo di appartenenti alle forze di polizia di impedire tale esecuzione (le immagini televisive fanno giustizia di ogni tardiva minimizzazione...), infine il pieno e rumoroso sostegno manifestato
agli inquisiti da esponenti di primo piano del Governo (da cui sono partiti violenti attacchi al provvedimento giudiziario, con argomenti tendenti a configurare l’attività di polizia come una sorta di “zona franca” sottratta al controllo di legalità). Il carattere eversivo di tale sequenza deve preoccupare chiunque abbia a cuore i rapporti tra istituzioni e lo stesso assetto democratico dello Stato. E ancora. Molti hanno gridato allo scandalo e i sindacati di polizia sono insorti denunciando atteggiamenti eccessivamente rigorosi nei confronti
delle forze dell’ordine e scientemente lassisti nei confronti degli autori di gravi reati. L’argomento è tanto suggestivo quanto infondato e strumentale. Se sottovalutazioni e omissioni ci sono state in altri settori di indagine vanno denunciate, precisate e punite. Ma le regole valgono per tutti: per i pubblici funzionari più che per ogni altro. E’ il prezzo da
pagare per godere della fiducia della società ed è assai più utile per la credibilità e il prestigio delle forze di polizia chi ne persegue gli (eventuali) abusi di chi cerca di coprirli e occultarli. C’è stata una norma che ha previsto un regime speciale per la polizia: l’art. 16 del
codice di procedura penale del 1930 secondo cui “non si procede senza autorizzazione del Ministro della Giustizia contro gli ufficiali od agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria o contro i militari in servizio di pubblica sicurezza, per fatti compiuti in servizio e relativi all'uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica”. Ma era il fascismo (e non a caso la norma è stata dichiarata illegittima con una delle prime sentenze della Corte costituzionale).
Infine. Anziché ragionare sui fatti, molti hanno evocato complotti giudiziari, disegni politici realizzati mediante l’azione penale, persecuzioni per motivi di parte; mentre altri hanno ricercato le ”appartenenze politiche” di giudici e pubblici ministeri o hanno riportato
le decisioni assunte nel procedimento a tessere dello scontro in atto, sul tema dell’organizzazione dell’ufficio, nella Procura di Napoli. Chi muove queste critiche proietta, evidentemente, la propria cultura e i propri metodi, fondati sulla logica della pura utilità (che distingue solo tra ”amico” e “nemico”) e sul rifiuto delle regole. Non sono i metodi e la
cultura della giurisdizione. Dimenticarlo, al di là delle utilità contingenti, uccide la democrazia.
Di questo ci saremmo aspettati che si discutesse a margine del processo di Napoli. E poi certo, ma solo dopo, dell’opportunità delle misure, del tempo trascorso dai fatti, delle esigenze cautelari... Temi, questi ultimi, certamente opinabili (come sempre accade nelle vicende giudiziarie) ma, proprio per questo, da affrontare in modo pacato e razionale e non agitando
propagandisticamente “errori” (indimostrati) dei magistrati e necessità di una loro punizione in nome del principio “chi sbaglia paga” (evocato, per di più, in modo strumentale: come se per i magistrati non esistessero le ipotesi di responsabilità previste per tutti i cittadini e le stesse non avessero trovato in questi anni ripetute e ben note applicazioni).
Il confronto mancato nell’immediatezza non può essere ulteriormente rinviato. Noi, in ogni caso, continueremo a sollecitarlo con iniziative specifiche rivolte alla società civile, alla politica, all’avvocatura e alle rappresentanze della polizia che hanno a cuore i valori della
democrazia e delle regole.