Che ve ne sembra dell'Italia?
di Lanfranco Caminiti (lanfranco@apolis.com)
Il più giovane dei quattro è Vasile. Avrà sì e no diciott'anni. E' anche il
più alto: un ragazzo allampanato, con l'aria di uno che è cresciuto oltre la
sua stessa volontà. Ha in cima una massa arruffata di capelli ispidi e irti
come deve essere il suo carattere, refrattario a che vi si metta ordine con un
pettine o un ragionamento. Penso che a toccarli, quei capelli, debbano fare un
rumore, quello delle foglie secche di pannocchia di mais, che si mettevano nei
cuscini di campagna d'una volta, a far ciciac ciciac quando ci smaniavi sopra.
Ti guarda con diffidenza. Ti guarda sfuggente. E tu non ti soffermi sul suo
volto: ricordo solo un'acne devastante. Su quelle gambe lunghe lunghe - a
malapena un lercio pantalone arriva fino alle caviglie -, sta un tronco ossuto e
breve, un torace striminzito che deve pompare poca aria. A lui sembra bastare.
Le spalle sono strette. Sta un po' curvo e guarda la punta delle sue scarpe come
dovesse ritrovarci una qualche rassicurazione - sono degli scarponcini militari,
che porta slacciati, ancora in buono stato: chissà dove li ha rimediati. Ha
mani grandi e molto arrossate, che continua a strofinare sui pantaloni come
dovesse pulirle di qualcosa - ci pulisce tutto là sopra -, poi le infila nelle
tasche di dietro, poi le strofina sui pantaloni all'altezza delle ginocchia, poi
le infila nelle tasche davanti, poi le strofina sui
pantaloni: un continuo. E' l'unico dinamismo che noti in un corpo che invece
sembra fermo, stolidamente fermo, un palo della luce, quasi aspettasse una
qualche forza esterna per ricevere energia, per essere messo in movimento ché
da sé vi rinuncerebbe. Ha qualcosa di selvatico,
non è solo l'odore che si porta dietro. Pensi che potrebbe morderti, oppure
pensi che se gli buttassi un pezzo di pane duro scapperebbe da qualche parte a
rosicchiarlo. Sono arrivato qui per via di un flash d'agenzia e un'etichetta. Il
flash d'agenzia parlava di un'azienda agricola in provincia di Frosinone posta
sotto sequestro per le condizioni igieniche, per sospetti sulla qualità dei
prodotti e per sfruttamento del lavoro di clandestini. L'etichetta era quella
che avvolgeva una mozzarella che mi trovavo sul piatto di casa e il cui nome era
proprio quello dell'azienda sequestrata. C'è un
che di personale insomma. Adrian,
Gheorghe, Mihai e Vasile sono i quattro giovani romeni che la
Guardia di Finanza ha ritrovato nell'azienda agricola in condizioni di lavoro e
igieniche che non hanno aggettivi adatti per la descrizione: benché nessuno
confermi la cosa - come fosse un segno di debolezza in una istituzione militare,
o di un coinvolgimento emotivo che non può essere
consentito - pare che uno dei finanzieri, un ragazzo, abbia
vomitato quando sono entrati nella casupola dove i quattro dormivano,
mangiavano, cacavano e che faceva da stalla, da macello, da deposito di alimenti
scaduti e nauseabondi. Per quanto i
verbali redatti adottino un linguaggio burocratico e asettico e le notizie
giornalistiche siano striminzite - quale capo redattore spenderebbe più di
dieci righe per una notizia simile? – ne emerge un quadro impressionante.
L'azienda agricola - il cui nome era splendente, "Fattoria del Sole" -
è adesso sotto sequestro e non può
essere visitata e meno che mai è possibile accedere al container - accanto il
porcile - dove i quattro romeni passavano le ore del loro "riposo"
dopo diciotto ore lavorative, insomma la loro "casa".
Il ciclo produttivo applicato alla "Fattoria del Sole" non prevedeva
scarti. Nei magazzini dell'azienda sono stati trovati quintali di prodotti
scaduti o avariati: grosse quantità di latticini e latte
scaduti o avariati finivano nello stomaco dei suini, ma non solo. Secondo gli
investigatori, c'è di peggio: quei prodotti caseari, mischiati a latte fresco,
venivano confezionati di nuovo e immessi sul
mercato. Il sospetto è che prodotti alimentari a rischio possano essere finiti
sui banconi di negozi e supermarket. I maiali venivano immessi anche nei canali
della macellazione clandestina. Sembra che i romeni abbiano macellato maiali e
mucche malate destinate alla vendita in alcuni ristoranti del nord del
Lazio.Anche in questo caso, con gravi rischi sanitari: i suini, infatti si
cibavano di carogne di altri maiali, anche morti per malattia. Sotto i letti dei
romeni sono state trovate carcasse di animali oltre a latticini in putrefazione
e fusti di liquame. Loro mangiavano mozzarelle e ricotte lì prodotte e scadute
da giorni, oltre a frutta marcia. La frutta, chissà, dovevano contenderla
ai maiali. Vasile non dice una parola: è il più giovane e la legge della vita
impone da sempre che i più giovani aspettino il loro turno e oggi non sembra
ancora arrivato il momento. Ma forse non parlerebbe neanche se fosse il suo
turno. E' un gregario e si limita a svolgere il suo compito, dare una mano nel
gruppo, in silenzio: il gruppo è la sua condizione di vita, senza il gruppo
sarebbe perduto. Con questo gruppo è arrivato in Italia dalla Romania - e già
questa è un'impresa che da solo non avrebbe nemmeno immaginato. Agli altri del
gruppo deve tutto. Anche questa sua vita di merda. L'unica che possiede. Adrian,
Gheorghe, Mihai e Vasile non parlano volentieri delle condizioni in cui
lavoravano e vivevano: forse c'è vergogna in questo loro riserbo o forse temono
di poter aggravare ancora la situazione del loro padroncino - tutto sommato
l'unico legame solido che hanno col nostro mondo. La cosa che li spaventa di più
è l'idea di dover tornare in Romania, passando per un tempo indefinito in un
campo di smistamento. Forse diventerebbero lo sberleffo dei compaesani - sono in
tanti della loro gente che riescono a farsi strada qui che bisogna esser proprio
degli stupidi per tornare indietro a mani vuote - e non deve essere una cosa
simpatica sentirsi appiccicare addosso l'etichetta di incapace. Nel paese in cui
vivevo prima di venire a Roma, nel Sud, c'era una certa ferocia nello sfottò
verso gli "argentini", quelli che erano partiti per il Venezuela,
l'Argentina, l'America del sud quando si dovette emigrare e scelsero di andare
giù invece che su, al nord, perché si favoleggiava di tesori al sud, e il
petrolio e la carne e la terra quanta ne vuoi, manco fossero tutti Pisarro alla
conquista dell'oro degli Inca: doppiamente beffati. Perché giù non si è mai
diventati ricchi e perché nel frattempo ricchi si è diventati al paese: hanno
ristrutturato le case, hanno i macchinoni, entrano due stipendi al mese, i figli
vanno all'università, i cellulari te li tirano dietro, i negozi di gioielleria
si sprecano. Adesso gli "argentini" tornano a mani vuote e grazie alla
benevolenza di quelli che sono rimasti qui: insomma, proprio degli incapaci.
Gente buona a nulla. Buona per gli sfottò al bar, mentre si ciondola la
domenica del mercato a comprar cianfrusaglie e le pastarelle. Adrian, Gheorghe,
Mihai e Vasile sembrano buoni lavoratori. Mansueti o ammansiti. Non vengono da
Bucarest o da Timisoara o da Chisinau o da
Sibiu: non sono gente di città: sono contadini, pastori, questo è il loro
mestiere: la terra e le bestie. Il loro padroncino è andato a prenderli là,
nelle campagne della Transilvania o dei Carpazi o della
Moldavia dove già adesso deve essere difficile mettere assieme un pranzo
dignitoso e manco tutti i giorni. Li ha comprati. Proprio come si compra una
bestia da soma o un attrezzo o del concime e delle sementi. Vai, paghi e ti
porti dietro quattro uomini, otto braccia. A prezzi stracciati, perché lì
tutto è a pezzi stracciati, le miniere, le fabbriche, le donne, il turismo, le
opere d'arte, le braccia. Della somma versata, una parte va alla famiglia della
bestia comprata, una parte al mediatore, quello che li ha cercati, li ha
selezionati, li ha intortati, e una parte serve per il viaggio clandestino. La
famiglia ci passerà l'inverno o aggiusterà la casa o penserà di spostarsi
dalla campagna verso una qualche città vicina: magari aspetteranno il ritorno -
una stagione, un anno, due - del loro "uomo" per decidere bene cosa
fare. Qualcos'altro porterà: un po' di soldi in contanti - erano pagati
cinque euro a settimana, cinque euro, ma quasi tutti loro sono riusciti a
metterli da parte, e d'altronde dove vuoi spenderli cinque euro lì, alla
"Fattoria del Sole"? - un vestitino di cotone, una collanina da
bigiotteria di bancarella per la più piccola, una camicia bianca e i mocassini
neri a punta da mettere la domenica alla messa - segni sicuri di eleganza. O si
berranno il lavoro di mesi con gli sfaccendati del paese in una qualche bettola
- pago io - che cazzo, un uomo è anche
questo. Questo, ammesso che tornino: a volte il paradiso li inghiotte senza
lasciare traccia. Adrian e Mihai sono gemelli e è un sollievo per chi deve
descriverli, perché tratteggi uno e ne prendi due: forse anche il
padroncino italiano ha fatto così, li avrà pagati a un prezzo ancora più
conveniente. Hanno un'aria di forza, di forza bruta, spalle massicce e gambe
grosse: il collo lo portano scoperto, deve essere difficile trovare taglie
giuste. Non sono molto alti. I capelli sono bruni ma scarsi, pochi fili stopposi
su una testa sanguigna. Avranno trent'anni. Il viso è color del cuoio, di chi
non ha vissuto altrove che sotto il sole e al vento, alle intemperie, e gli
occhi chiari risaltano di più. Sono acquosi e inespressivi. Adrian e Mihai te
li immagini messi al giogo - come buoi, un campanaccio attorno a quel collo
enorme - a tirare aratri nei campi o carri pieni di fieno: non si fa più ma non
mi sorprenderebbe si fosse fatto ancora lì, all'azienda "Fattoria del
Sole". Dei due parla
solo Adrian - Mihai scuote quel suo testone come a significare che lui direbbe
le stesse cose -, ma non ci ricavi granché da questa sua disponibilità: i
romeni non sono slavi - me lo ripete una decina di volte, devono averlo imparato
come una presentazione affabile -, noi non sappiamo nulla, dove ci manderanno,
dobbiamo ancora prendere i soldi dell'ultima settimana - cinque euro, stiamo
parlando di cinque euro, nel caso dei gemelli sono dieci, forse Adrian è il
contabile dei soldi di entrambi.
Qualcuno mi ha detto che le popolazioni che vivono vicino le discariche delle
megalopoli - Rio, Manila, Città del Messico -, che vivono delle discariche,
grufolando giorno e notte là in mezzo, stanno subendo delle mutazioni
biologiche, sono già alla seconda generazione, degli adattamenti del corpo:
hanno studiato gli stomaci in particolare, riscontrando una capacità di
assimilazione non umana, stomaci capaci di digerire tutto, la plastica anche,
certi metalli. E' una nuova razza
quelle delle discariche, come uno scarto darwiniano. Non mi sono stupito nel
sentirlo: da ragazzo guardavo con orrore e fascino le poche immagini sulle
condizioni di vita nella zolfare siciliane. I "carusi" vi entravano
bambini e spesso non ne emergevano più da quell'inferno: le foto ingiallite
mostravano sempre corpi nudi, uomini che grattavano il ventre della terra,
toraci tubercolotici e gambe possenti, la pelle cotta dal calore che sembrava
spessa due dita e occhi da nittalope. Quella nudità - esibita e necessitata,
uno scandalo e una convenzione - era segno di qualcosa di inimmaginabile per
chiunque non fosse come "loro", per chiunque non appartenesse a quella
"razza" schiava del lavoro. Gheorghe è il quarto dei quattro, ma
forse fra loro è quello più
determinato, quello che li ha tenuti insieme, quello che gli ha dato coraggio
nei momenti più terribili, quello che ha tenuta accesa la speranza del ritorno.
Ha un corpo asciutto, solido - troverà facilmente un lavoro da edile, gli
basterà mettersi qualche mattina sull'Appia Pignatelli per essere reclutato, o
all'Infernetto, se riuscirà a svicolare dal campo - e probabilmente anche una
buona conoscenza del mestiere della terra e delle bestie: sa come trattare
quella e queste. Ha uno sguardo remoto - quasi l'avesse lasciato da un'altra
parte, in un altro paesaggio - in un viso aperto, con una bella fila di denti
bianchi. I capelli castani sono mossi e corti, la barba è un po' lunga,
trascurata. Porta una camicia di flanella a scacchi grandi che tiene arrotolata
sugli avambracci forti e pelosi. Sembra sveglio e non posso fare a meno di
chiedermi come sia potuto finire lì, una vita da bestia,
invece che altrove, più dignitosamente: nel mio palazzo c'è un gruppo di
romeni, uomini e donne, che hanno messo su una cooperativa edile di
ristrutturazioni, le donne vanno a servizio o si prendono cura di qualche
vecchio che nessuno bada: sono puliti, pasciuti, in regola, lasciano il portone
dabbasso sempre chiuso e accostano senza sbatterla la porta dell'ascensore, e il
sabato sera invitano altri connazionali e mangiano pizza e bevono e cantano che
il condominio si rompe i coglioni. Hanno sgobbato per questo. Magari potrei
provare a presentargli Gheorghe, chissà che non rimedino qualcosa. Ma non
glielo dico, credo che per la sua testa passi anche un qualche senso di
responsabilità verso il suo gruppo, verso Vasile, Adrian e Mihai. Dovrà
riportarli a casa. E lungo il viaggio dovrà inventare delle risposte per quando
i loro compaesani - forse dandosi di gomito - chiederanno: "Che ve ne
sembra dell'Italia?"