In
Italia abbiamo una nuova cattiva abitudine: calendarizzare la nostra stessa
vita. E date e scadenze (non sempre decise da noi) diventano qualcosa da
rispettare per non essere emarginati: feste, riti, ricorrenze ecc. (dalla
giornata della donna alla festa della mamma in una confusione di valori e
significati mostruosa). La stessa cosa accade in politica dinanzi ai grandi
accadimenti che viviamo e, infatti, taluni propongono manifestazioni e noi le
rincorriamo così come quelle spesso rincorrono appuntamenti da altri proposti
(G8 e NOG8, WTO e NOWTO ecc.). E’ come se fossimo tutti mobilitati in uno
scontro delle idee per aggiustamenti al sistema del profitto anziché essere
promotori di un programma ed un progetto davvero alternativi e che, dunque,
dovrebbero vederci mobilitati oltre il terreno proposto dalle classi
dominanti… La stessa memoria storica (elemento fondamentale per ogni lotta che
guardi ad un futuro migliore) è labile. Come debole è il rapporto che abbiamo
con la “nostra” stessa storia: quella antica e quella moderna: la lotta
risorgimentale e quella antifascista o le battaglie dei giovani delle magliette
a strisce o del ’68 o del ’77 fino ai nostri giorni. Ecco perché, forse, più
che guardare ai popoli e ai popoli del Sud in particolare, agli sfruttati e ai
lavoratori, agli esempi che ci derivano dalle grandi rivoluzioni del passato
cerchiamo novità in slogan e iniziative che appaiono nuovi e che in gran parte
non lo sono. La novità rimane sempre quella di penetrare e capire la realtà e
sapersi orientare senza inseguire un domani imprecisato! Abbiamo,
incredibilmente, dimenticato i valori della più grande “rivoluzione
italiana”: la guerra di Liberazione. La vittoria, cioè, dei partigiani e di
chi li ha sostenuti sul mostro fascista. Una vittoria figlia di un progetto nato
e cresciuto dentro bisogni dalla parte della ragione e vissuti anche con il
cuore. E lo stesso vale per il nostro ’68 ovvero un percorso politico che
affonda le sue radici nella vittoria della Repubblica sulla monarchia, nella
Costituzione italiana, nelle lotte strenue degli anni sessanta. Che affonda le
sue radici nelle lotte operaie aspre e fortemente represse, sostenute dal più
grande Partito Comunista dell’Occidente e poi ampliatesi nella nascita di un
variegato mondo di formazioni rivoluzionarie. Pensieri ed azioni che intendevano
portarci gradualmente fuori dal sistema capitalistico trasformando con un popolo
protagonista la nostra società e inserendo in questa continuamente elementi
fondamentali di socialismo. Ma una nuova tappa risorgimentale (per una volontà
collettiva e un senso comune nuovo), una nuova tappa della rivoluzione
democratica ed antifascista (per tutelare la democrazia iniziando ad ampliarla)
e conseguentemente una coerente lotta per un socialismo inedito sono state non
sconfitte da una destra sociale ed eversiva ma da scelte irresponsabili dei
nuovi paladini di fuorvianti sistemi maggioritari, bipolarismo, alternanza e
cedimento irreversibile allo stato di cose presente. La piccola-borghesia
dirompe e i giullari sono accalcati in un enorme focolaio invadente. Viviamo non
solo rivoluzioni incompiute ma viviamo in una società incompiuta! Cosa ci resta
oggi di questa memoria? Cosa ci hanno insegnato i fatti della nostra storia tra
vittorie e sconfitte? Non serve un giovane Gramsci e meno che mai un esaltato
che pretenda di avere la verità assoluta in tasca per comprendere che
“dubitare di tutto” (come affermava Marx) invita a formarsi per informare,
ad avere un programma per agire, ad organizzarsi per coinvolgere, ad
entusiasmarsi per non cedere, e ad unire i mezzi con lo scopo finale… Per
costruire, oggi, dobbiamo intanto ricostruire e, quindi, comprendere le nostre
stesse difficoltà, limiti, contraddizioni. Non c’è in questo paese un
“consapevole” Partito Comunista e neppure “collettivi” impegnati
fortemente a creare coscienza di classe, una nuova leva di militanti per la
libertà ed il socialismo. Così come non c’è, con tutti i suoi errori,
l’Unione Sovietica e neppure un dibattito che ci aiuti a comprendere per
migliorarci. Non c’è la visione che la scomparsa dell’URSS ha scatenato una
riscossa senza precedenti di un autoritarismo-liberale e di imperialismi cinici
e antipopolari che non hanno scrupoli di sorta. E non c’è e dovrebbe esserci
un nuovo internazionalismo, oltre le mode, che sappia concretamente contrapporsi
all’organizzazione mondiale delle disuguaglianze e all’avanzare di barbari
portatori di un pensiero unico devastante. Tuttavia sono non pochi coloro che
ricercano la pace contro la guerra e che tentano di fermare la mostruosa
macchina che alimenta i grandi drammi dell’umanità ma per sperare in
cambiamenti una volta per tutte serve qualcosa di più. Il ’68 inserì nella
società grandi contenuti e grandi speranze ed evidenziò il ritardo della
sinistra ufficiale di allora senza per questo allontanare la gioventù operaia e
studentesca dai grandi valori del socialismo. Oggi, invece, la frammentazione a
sinistra assume aspetti inquietanti, di contrapposizione, di lotta in casa per
una sorta di egemonia gli uni sugli altri invitandoci a maggior ragione a
proporre una nuova necessaria unità su un programma e sul fare non rinviabili.
Dobbiamo tutti praticare un passo indietro se vogliamo farne due avanti,
rispettare ogni diversità e autonomia ma, al tempo stesso, imparare a
parteggiare, ad identificarci con una piattaforma che ci educhi a proporre e a
parlare un linguaggio che non ci separi da chi intendiamo avere con noi. E
bisogna farlo senza opportunismi ed ipocrisie! Senza presunzioni ed
esclusivismi! Nonostante sia grande ormai la scelta anche a sinistra (quella di
potere) di oscurare tutto ciò che non controlla, che non gestisce, che non
capitalizza… Le grandi rivoluzioni anche attraverso le loro sconfitte ci
invitano a seguire questa direzione. E ancora ci spronano a farlo la resistenza
cubana o la memoria di quella vietnamita e cilena, le lotte in tanta parte del
mondo latinoamericano e dell’Asia e dell’Africa, in terra di Palestina e
nella moderna Spagna… Dobbiamo saper miscelare le piccole idee e le piccole
battaglie con le grandi idee e le grandi lotte: la storia di ieri e le sue
lezioni con il presente e un futuro da costruire. Tra i nostri obiettivi mentre
ci battiamo per un mondo nuovo (per utilizzare una frase che va consolidandosi e
che dobbiamo saper valorizzare) c’è anche quello non di battere Berlusconi
con un Rutelli di turno ma una cultura di destra con una vera cultura di
sinistra che stenta ad avere cittadinanza nelle nostre piazze e che deve,
obbligatoriamente, sapersi misurare con scelte non solo italiane ma dettate dal
neo-imperialismo e da quella che chiamiamo nuova globalizzazione (che ci ricorda
i disastri del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, guerre a
scopo di lucro e una serie lunga di altre nefandezze). Dobbiamo ridare senso e
significato e vigore a mai eliminabili pilastri (o paletti) politici che vanno
ricondotti all’economia politica, ai concetti di egemonia e rapporti di forza,
alla stessa informazione e alla cultura in genere. E’ con questa fatica che
dovremmo desiderare di riempire di idee i grandi appuntamenti di lotta che ci
aspettano e viverli non come scadenze (calendarizzare) o all’inseguimento di
decisioni prese da chi è nei fatti avversario nostro perché del suo stesso
popolo, avversario di classe perché, qui ed ovunque, oppressore. Non c’è
niente di vecchio nel prenderne atto a meno che milioni di emarginati, di
sfruttati, di uomini mandati a morte o ingiustamente incarcerati, di popoli
costretti ad una povertà incontrollata non siano un inventato film
serial-killer uscito da qualche studio hoollywodiano.