SULLE LOTTE IN GENERALE
di Giuseppe Bronzini

Tormenti Autunnali
Ha scritto Marco Revelli sull'ultimo numero di Carta "lo dico brutalmente: può un soggetto politico sociale come la CGIL, profondamente innervato nella cultura industrialista, progressista "lavorista" del secolo scorso, costruito sulla centralità e positività del modello industriale, metabolizzare la sfide, le provocazioni di un movimento che si muove con piena consapevolezza dei limiti delle figure del lavoro, un movimento che ha superato l'idea che le figure del lavoro siano di per sé portatrici di liberazione universale e consapevole che i problemi che abbiano davanti siano appunto il prodotto dello sviluppo anziché del suo deficit?"
Ed ancora più avanti " ... La CGIL pensa di rappresentare le nuove figure del lavoro estendendo i propri confini, inglobando le nuove figure come negli anni ‘70 aveva inglobato gli operai di linea, quando queste sono figure che non accettano di essere rappresentate, che si autorappresentano e quando ci riescono si autorganizzano". L'articolo di Revelli è forse un po’ impietoso con la linea della CGIL, sottovaluta lo storico evento del disgelo del maggior sindacato italiano che non può di certo trascendere di colpo (come cercando di tirarsi su afferrandosi  per i propri capelli) la propria base sociale, il lavoro dipendente. C'è poi forse una enfasi eccessiva sulla capacità di autorganizzazione delle nuove figure lavorative, ben lontana dal manifestarsi se non in forme allusive e pionieristiche. Tuttavia Revelli finisce con l'affrontare una questione che a me pare decisiva: per garantire oggi il "lavoro" si può, attualmente, semplicemente ribadire (e generalizzare) il vecchio armamentario di diritti individuali e collettivi che si è stabilizzato nelle società occidentali nel secondo dopoguerra e che ruota attorno alla figura idealtipica del lavoratore subordinato? Il problema, in vista dell'Autunno e di un nuovo sciopero generale, comincia a divenire spinoso poiché la sinistra (nelle sue varie articolazioni, compresi quindi Verdi, Rifondazione e Correntone) e la CGIL sembrano nel complesso più che arroccate nel principio dell'estensione e riconferma dei diritti

classici del lavoro dipendente, raccolti per i più fortunati nello Statuto dei lavoratori del 1970. Non voglio soffermarmi sul masochistico referendum sull’articolo18 per tutti, che mi pare concepito solo per dare fastidio a Cofferati e che faccio fatica a prendere sul serio, ma ad iniziative più importanti e, in un certo senso, rispettabili, come quella della riforma della subordinazione. Alla Camera un vasto gruppetto di deputati, capitanati dal leader del Correntone dei Democratici di Sinistra Grandi, ma con l'adesione anche di Paolo Cento (Verdi), di Alfonso Gianni (PRC)  e di  Salvi (quindi con la convergenza di tutta la sinistra che dissente dalla leadership attuale dell'Ulivo) ha depositato un progetto di legge per la riforma dell'istituto della subordinazione. Trattandosi di questione ipertecnica mi limito a qualche elemento generale di carattere informativo. Si dice: oggi si moltiplicano le figure contrattuali e diventano sempre più incerti i confini tra lavoro autonomo e lavoro subordinato; la moltiplicazione della  tipologia contrattuale mette in pericolo la capacità rappresentativa del sindacato ed in prospettiva l'esistenza stessa di un contratto collettivo.

In parte questo dipende dal fatto che la subordinazione è individuata in modalità tipicamente fordiste di prestazione, come l'obbligo di osservare le direttive di superiori gerarchici o di osservare un orario rigido di  lavoro. Occorre arrivare quindi ad una concezione più ampia e comprensiva di lavoro per conto altrui. La proposta quindi enuclea una nuova figura generalissima contrattuale di  “prestazione lavorativa per conto terzi" che unificherebbe tutte le attuali forme di lavoro dipendente e quelle del cosiddetto lavoro autonomo di seconda generazione (COCOCO). A questo contratto corrisponderebbero gli obblighi tipici dell'attuale subordinazione (orario, esecuzione degli ordini ecc.) ed i suoi attuali diritti (compresa la reintegrazione oltre i quindici dipendenti). Però si potrebbe arrivare ad un patto contrattuale con cui si stipulano diverse modalità (diremmo post-fordiste) di lavoro: maggiore autonomia, niente orario ecc.

In quest'ultimo caso non si applicherebbero  le norme che presuppongono la situazione classica della subordinazione (per fare un esempio le norme sullo straordinario).

Con questa mossa si dice: il lavoro verrebbe ricomposto in un unico contenitore, varrebbero per tutti un insieme di diritti fondamentali (vedi articolo18), il sindacato recupererebbe una funzione generale di rappresentanza del lavoro in senso lato.

Con questi appunti e per non appesantire l'intervento vorrei solo aprire un dibattito di metodo e di merito sull'iniziativa (che non è stata espressamente sponsorizzata dalla CGIL  ma che nei documenti CGIl riceve un certo appoggio), e in ogni caso sembra godere anche del consenso di Rifondazione e di settori di movimento. Le questioni sul tappeto sono: è possibile tutelare le nuove forme di lavoro aggregandole sic et simpliciter al vecchio lavoro dipendente? E'  pensabile una superfigura lavorativa? Ha senso comunque stabilire che valgono per tutti i diritti tradizionali del dipendente, anche se in concreto in alcune situazioni non hanno più significato (ad esempio la reintegrazione di un telelavoratore a casa propria)? Non finisce la proposta con il negare proprio lo scopo dichiarato? Se infatti si lavora sempre di più con modalità atipiche moltissimi saranno indotti a stipulare il cosiddetto patto in deroga e quindi il lavoro "per conto terzi" si frantumerebbe nuovamente in un settore tradizionale e in uno innovativo, in barba a quell'unità forzata che la legge voleva costituire.

Il giuslavorista Massimo Roccella ha criticato piuttosto seccamente la proposta Grandi (e altri) sul lavoro "per conto terzi" sull'ultimo numero della Rivista de “il manifesto”.

Dice in sintesi Roccella; in primo luogo il contenitore è troppo ampio perché finisce per l'inglobare tutti i COCOCO, compreso il più di un milione di amministratori di società e di condomini. In secondo luogo una riforma della subordinazione (che come istituto con le sue attuali caratteristiche  ha un'estensione globale e trova riscontro anche in atti internazionali come quelli dell'OIL) non può venire dalla sola Italietta, in questo momento governata da un esecutivo non proprio progressista. Roccella aggiunge che non ha senso (come nella proposta Grandi) assumere come situazione tipica quella dell'attività "eterodiretta" della vecchia subordinazione: se si lavora sempre di più in condizione di (relativa) autonomia e comunque con sempre meno vincoli spaziali e temporali, allora tutti dovranno sottoscrivere il patto in deroga previsto dalla proposta di legge Grandi e company e l'unità che la legge voleva raggiungere tra le figure vecchie e nuove del lavoro andrebbe comunque in pezzi. Roccella infine suggerisce di recuperare un indirizzo dottrinario e giurisprudenziale (non maggioritario, ma con qualche riscontro nella giurisprudenza tedesca e in quella della Corte Costituzionale italiana e in quella della Corte europea) secondo cui per la subordinazione non è necessaria l'eterodirezione della prestazione (l'esistenza di direttive puntuali da eseguire) e i vincoli di orario, ma è sufficiente l'inserimento stabile nel ciclo produttivo altrui. Questa impostazione andrebbe oggi affermata per legge, poiché la via giurisprudenziale non è sufficiente a renderla maggioritaria. Non tutti i COCOCO rientrerebbero nella situazione dell'inserimento stabile (per esempio non gli amministratori) ma molti e verrebbero considerati lavoratori subordinati. Per gli altri si potrebbe pensare ad una iniziativa come la vecchia “Proposta Smuraglia” che garantisce a tutti coloro che lavorano non occasionalmente per conto altrui i diritti fondamentali del lavoro (ferie, sicurezza, libertà sindacale, recesso giustificato ecc.).

A me pare che l'ottica di Roccella (anche se non si è espressa in un progetto organico) sia più equilibrata di quella sulla quale si è attestato il Correntone e PRC e vada più d'accordo con le linee prevalenti del giuslavorismo progressista europeo. Ma continuo a dubitare della sensatezza di operazioni di unificazione  delle figure lavorative attorno ad un superconcetto di subordinazione (che qui coinciderebbe con l'inserimento stabile in un ciclo produttivo aziendale). Non solo i tempi non sembrano maturi, sopratutto sul lato soggettivo di questa operazione: la consapevolezza da parte di tutti i nuovi soggetti produttivi di appartenere ad un unico "gruppo" (non voglio usare il termine classe) sociale, ma sul piano delle garanzie, questa " macro-operazione" di riscrittura della soglia di accesso alla cittadella dei garantiti dal diritto del lavoro, si potrebbe rivelare piuttosto inutile. Sulla base del nuovo concetto di "dipendenza" risulterebbero in astratto applicabili tutti i diritti tradizionali del lavoro; ma in concreto molti di questi sarebbero inutilizzabili concretamente: che senso hanno, per fare un esempio, le norme sull'orario (o sulle mansioni, o sulla reintegrazione e via dicendo) a chi è obbligato solo a rendere una prestazione di risultato, anche se per essere inserito in un ciclo produttivo viene considerato dipendente?  Le due proposte di cui ho già parlato condividono alla fine alcune illusioni. Si pensa innanzitutto che la carenza di diritti per chi lavora sia riducibile al problema dell'estensione dell'area della subordinazione, il che è vero solo in parte.

Nessuna riforma della subordinazione in sé può risolvere la vera questione che finisce con il minare la capacità contrattuale del lavoro "eterodiretto", la precarietà dei rapporti e la volatilità delle imprese contemporanee. La inedita fluidità  dei rapporti di lavoro non può essere  fronteggiata solo con le vecchie rigidità del garantismo operaio. La reintegrazione in un posto di lavoro che non esiste più o può essere soppresso a breve è un buon esempio di questa  difficoltà. Inoltre si pensa che una reductio ad unum per legge delle varie tipologie contrattuali possa portare in via quasi automatica ad una ritrovata rappresentanza sindacale generale. Tuttavia, almeno in parte, le differenze tra le varie tipologie di lavoro, non sono create dalla legge, ma esistono in realtà. Tra un lavoratore interinale, un impiegato delle Poste, un lavoratore di un'impresa no profitto di una cooperativa, un soggetto che esegue "progetti" in modo continuativo per un'impresa o che fa ricerca a casa propria ed è collegato ad una azienda solo via internet quale è il minimo comune denominatore? Comunque ci si illude sul fatto che, approvato un super- contenitore giuridico, le forme "anomale " di lavoro accettino l'egemonia  dei sindacati del lavoro dipendente tradizionale e non vedano invece, come credo sia più probabile, quest'ultimi come colonizzatori di mondi a loro estranei e incompresi. Si finisce con l'enfatizzare l'estensione  di diritti di cui già gode il lavoro dipendente pleno iure; mentre ad esempio per un lavoratore autonomo in regime di monocommittenza può essere ben più importante un pagamento senza dilazioni che la sacra reintegrazione nel posto di lavoro.

Mi pare che più plausibile sia la terza ipotesi in campo; quella offerta dal progetto di legge Amato-Treu sulla Carta dei diritti dei lavoratori (dispiace dirlo, ma è la proposta ufficiale dell'Ulivo). Mi riferisco al metodo e all'ottica del progetto e non alle soluzioni specifiche che spesso sono prudenti o insufficienti. La logica è quella già suggerita in un noto rapporto sul "lavoro in Europa" a cura di A. Supiot dei "cerchi concentrici". Supiot e gli altri redattori del rapporto partivano dalla constatazione che il sistema delle garanzie doveva abbandonare l'idea di una società dell'"impiego", cioè di una società caratterizzata da rapporti di lavoro necessariamente e generalmente stabili nel tempo, che costituiscono una sorta di "professione" permanente, alla fine irreversibile. Se si assume che la fluidità dei rapporti è inevitabile (e se vogliamo neppure un male in sé) allora le garanzie vanno ripensate a vari livelli. In questa prospettiva la proposta sulla Carta dei diritti distingue tre livelli: il primo è quello dei diritti alla sicurezza sociale che spettano a tutti i soggetti e che garantiscono un reddito di base e la possibilità di una formazione permanente e continua (ripeto per chiarezza che sul merito la proposta è deludente); il secondo livello vuole assicurare i diritti fondamentali del lavoro (ferie, recesso giustificato, tutela antinfortunistica a antidiscriminatoria, libertà  sindacale),  con riferimento alle varie tipologie contrattuali.Si recupera, ad esempio, la vecchia proposta di  legge Smuraglia per i COCOCO. Il terzo livello riguarda la subordinazione classica (vengono qui ribadite le tutele tradizionali).

Il merito della proposta  sulla "Carta dei diritti" sta nell'evitare una reductio ad unun di tutte le forme di lavoro; apre la strada ad una maggiore considerazione per diritti di cittadinanza che spettano (vedi reddito di base) indipendentemente dalla situazione o condizione di lavoro, nonché - in una chiave europea - ad una regolazione settore per settore. Alle proposte specifiche per i COCOCO , si dovrebbero aggiungere statuti differenziati per il lavoro no-profit, per le cooperative, per il telelavoro, per chi opera in rete (vedi netcharta), per gli interinali, sapendo distinguere tra quei diritti che sono effettivamente universali (ad esempio non discriminazione), quelli che sono specifici di alcune situazioni (vedi il problema della privacy o del copyright per chi  opera in rete), ed infine le prerogative che continuano ad avere un senso solo per la dipendenza tradizionale. Si dirà: ma non si accetta così una frammentazione insopportabile tra le figure lavorative?

A mio parere se un'unità può essere cercata, il terreno di ricerca è al di fuori del rapporto di lavoro, è sul territorio attraverso (parlo per slogan) la partecipazione ad un nuovo welfare autogestito che valorizzi capacità e istanze connesse alla produttività umana "in generale". Su questi  temi il movimento deve assolutamente cercare di formarsi un'opinione che si confronti con quelle oggi in campo ed alimentare un dialogo stretto con la CGIL. che vada al cuore del problema. L'idea di una riregolazione dei rapporti di lavoro e del rifiuto della loro  balcanizzazione è certamente meritorio; occorrerebbe però trovare il modo per mantenere un punto che sembrava acquisito nel dibattito di movimento degli anni 90 (vedi il volume “il lavoro autonomo di secondo generazione”): garantire le nuove forme lavorative senza forzarle nella camicia di nesso della vecchia (e aggiungerei  anche nuova) subordinazione.

Perdonatemi la lunghezza.

Ninguna persona es ilegal