VERSO L’AUTUNNO
A PUGNI CHIUSI
di Michele Capuano

In Italia (come in gran parte dei Paesi soggiogati dalla capitalismocrazia ovvero da quello che tranquillamente possiamo chiamare autoritarismo liberista) la gestione della crisi strutturale del sistema sta assumendo, in economia e non solo, aspetti grotteschi quanto pericolosi. Per comprenderlo e per analizzare, al tempo stesso, i limiti dell’opposizione ai giullari della neoglobalizzazione dobbiamo chiamare in soccorso una visione della politica non ridotta all’economicismo né astratta e che abbia come filo conduttore ancora una volta la lotta delle classi (riconoscendone la loro non purezza) in condizioni storicamente mutate e continuamente in sviluppo (positivamente o negativamente dipende da una serie di fattori in piena crisi della stessa rappresentanza della “sinistra”: partiti e sindacati in particolare, essere dei movimenti in generale) e in piena assenza di un programma di “riforma economica”  e di rivolgimento dei rapporti di produzione che sia un tutt’uno con una necessaria e critica e consapevole riforma intellettuale e morale: ecco perché resistere ed avanzare non possono vivere separati. Non si vuole ammettere, cioè, che siamo in piena “eversione antidemocratica” e che il distacco tra popolo ed istituzioni è sempre più grande quanto screditati sono partiti e “poli” e sempre più dirompente il ruolo del capitalismo illegale (mafia, logge massoniche ecc.)  o delle corrotte strutture internazionali (Fondo Monetario Internazionale ecc.) su nazioni e continenti. Allo smantellamento dello stato sociale s’accompagna quello di istituzioni democratiche e libertà soffocando ogni opposizione concreta (incredibile quanto sta accadendo in Spagna ai danni di Batasuna o che si tenta di fare in Slovenia) o assorbendo quella minimal-riformista (o esagerando autodefinitasi socialdemocratica), distruggendo il pluralismo sociale e politico (ricerca di un bipolarismo accentratore o dell’alternanza), emarginando ogni minoranza e ogni diversità (neorazzismo e xenofobia dilagano), soffocando ogni movimento fuori dal coro (foss’anche uno Stato: vedi Venezuela, Cuba ecc.). I grandi gruppi economici e finanziari vogliono in sostanza società piegate alle loro scelte miopi ed esclusive anche se le stesse comportano devastazioni ambientali, massacro dei diritti, esplosione di grandi drammi, miseria, fame, carestie e guerre, licenziamenti liberi, taglio di pensioni, sanità, salari, mortificazione dell’istruzione, monopolio dell’informazione e opposizioni appunto piegate ai voleri di sua maestà l’imperatore. Se il 1945 rappresentò, ad esempio in Italia, una tappa della rivoluzione democratica ed antifascista e il 1948 la realizzazione di una tra le Costituzioni più avanzate nel mondo il nuovo millennio va a caratterizzarsi come quello di una controrivoluzione (per quanto moderata) il cui sbocco è l’imporsi di un regime liberal-autoritario. Gran parte degli Stati e del pianeta non sono, dunque, solo “malgovernati” da ipocriti ma inoltre da organizzati e impietosi truffatori che sanno utilizzare ad arte anche una buona dose di paternalismo e populismo essendo campioni nella menzogna, ottimi lottizzatori, censori senza scrupoli, spietati profittatori e burocrati corrotti che se potessero privatizzare la stessa aria che respiriamo non esiterebbero un istante. Leggi elettorali maggioritarie e proposte presidenzialistiche, ruolo incontrollato dei grandi gruppi finanziari, Stati asserviti a poteri transnazionali e neoimperialistici, conflitti infiniti, nuovi armamenti e informazione deviata, esplosione di fondamentalismi (religiosi, di mercato ecc.), emarginazione sociale ecc. sono sintomi di una strategia “padronale” eversiva ed evidente. L’inferiorità delle sinistre (non solo in Italia e in Europa) non sta nei numeri, nei risultati elettorali ma in realtà nella mancanza di progetti che pongano con chiarezza le questioni della trasformazione, di mutamenti radicali, di società alternative con una progressiva fuoriuscita dal sistema capitalistico verso una nuova e moderna “COMUNE” affinché i popoli non esercitino poteri formali o inesistenti ma sostanziali. A destra e anche in tanta sinistra (non tutta fortunatamente) i partiti hanno perso (e alcuni non hanno mai avuto) il loro carattere di organizzazione collettiva diventando sempre di più veri e propri comitati di affari, comitati elettorali corrispondenti a lobbies e piccoli o grandi gruppi economici (cartine al tornasole le guerre: Balcani e successive. E ancora: privatizzazioni selvagge, riformismo blando e antipopolare, burocrazie, leaderismi, sopraffazione di diritti e Lavoro, esclusione ed emarginazione ecc.). Nessun cambiamento è possibile al di fuori di un nuovo internazionalismo dalla parte dei popoli a partire da quelli del Sud del mondo, superando vecchie e logore logiche etno-marxiste (liberando il marxismo-leninismo e i più marxismi dalle maglie del settarismo e del dogmatismo rendendo la filosofia della prassi una linea per l’azione), valorizzando il proprio senso comune e una propria volontà collettiva, direzionando le lotte nella struttura e nella sovrastruttura, perfezionando la propria tattica e la propria strategia, aprendosi ad ogni, per quanto contraddittorio, movimento antagonista e soprattutto mandando a casa un ceto politico vecchio o falsamente giovane aggrappato al potere e ai privilegi che ne conseguono, sollecitando la nascita di un nuovo collettivo politico nonostante sistemi bloccati e un incredibile “oscurantismo” di tanta sinistra “ufficiale”. Il cervello criminale e nemico dello Stato, della cooperazione tra i popoli e della stessa civiltà è, per sintetizzare, nello Stato e nelle più significative strutture internazionali: prenderne atto è un dovere! Una sinistra nuova deve fare i conti con questi problemi e deve sapersi misurare proponendo soluzioni a importanti questioni (agricoltura, industria, comunicazione, servizi, cultura e sport ecc. ecc.) che si presentano in forma nuova, deve colmare ogni divario esistente tra Nord e Sud, deve fare i conti con la distribuzione delle ricchezze e una nuova qualità dello sviluppo, dell’ambiente, della vita, del rapporto tra i sessi, deve fare i conti non solo con le enormi tragedie che viviamo ma anche con essenziali riforme delle istituzioni (nazionali ed internazionali) che garantiscano grandi cambiamenti sociali e la partecipazione ad ogni scelta delle masse da sempre escluse dalle stesse e dalla loro gestione. Marx ed Engels non fondarono il Partito Comunità ma scrissero il Manifesto dei comunisti e noi, oggi, dobbiamo rinnovare quel Manifesto proponendo una nuova unità a sinistra cementata su un progetto e l’unità dei mezzi con il fine. Lenin ipotizzava la repubblica dei Soviet e non quella del partito e noi, oggi, dobbiamo rilanciare l’idea dei consigli (luoghi di lavoro e di studio, vere e proprie case dei popoli) e di una riforma delle istituzioni che promuova il controllo dei cittadini e riscopra la funzione storica mai sopita del mondo del Lavoro. Se credessimo maggiormente nelle nostre possibilità senza “piangere” dinanzi al padrone, se non misurassimo il nostro agire con il vincere o il perdere, con il contarci, con il capo di turno, se non ci identificassimo con l’opposizione al “palazzo” sognando di entrare nel “palazzo” semplificheremmo di gran lunga le nostre stesse tormentate esistenze e il confronto e lo scontro delle idee. L’insegnamento più significativo che ci viene dalla storia  de “LA COMUNE” di Parigi di un lontano 1871 (a molti ignota), fu che un movimento entrò nel vivo delle contraddizioni di un’epoca e di un sistema e iniziò ad imparare a fare politica incarnando la causa dell’integrale emancipazione dei lavoratori, lanciando un messaggio universale e facendoci comprendere che lo Stato o un “impero” non si abbattono dall’oggi al domani e meno che mai se un movimento è pregno di opportunisti. “LA COMUNE” non è mai tramontata come non lo sono le alternative che proponeva, l’organizzazione dal basso, una democrazia inedita, piani immediati e di lungo respiro. Così come è folle dimenticare la lezione che ci viene dalla Rivoluzione Russa o da quella cubana e cinese (da analizzare e leggere con spirito fortemente critico nel loro svilupparsi, esistere o morire) poiché l’esperienza de “LA COMUNE”, dei soviet o dei barbudos o del libro rosso rimangono esempi che rendono vivo ogni sguardo proiettato verso il futuro e che vanno oltre il puro sentimento o amore verso gli stessi eccezionali protagonisti del secolo appena andato (Lenin, Gramsci, Luxemburg, Guevara e milioni di senza nome). E questo in un tempo, a partire in maniera evidente dagli anni settanta, nel quale l’assoluta libertà dei movimenti delle merci e di capitali unita alla riduzione drastica delle politiche sociali, ad un crescente controllo dei paesi indebitati e condannati al “terzomondismo”, ad un ulteriore mortificazione dei diritti e del Lavoro, rendono il pensiero e la pratica liberista il tumore del pianeta, in giorni in cui, di fatto, non c’è sviluppo ma arretratezza (nonostante le nuove tecnologie) e un’espansione foriera di distruzioni irreversibili condita da un assistenzialismo spregevole.  O siamo capaci di riempire l’autunno caldo di valide proposte e viverlo nel corso di un anno intero e aldilà dei governi di destra, senza tentativi clownistici di cavalcare ogni protesta per scopi particolaristici, oppure involontariamente siamo destinati ad essere spettatori della decomposizione di questo mondo per quanto ci si agiti. Questa non è l’epoca delle disuguaglianze ma dell’organizzazione delle stesse. Noi viviamo sotto regimi oligarchici (dall’Italia all’Argentina facendo scalo in Francia o La Paz o a Bogotà e raggiungendo la lontana Australia) dove ogni decisione (tra un G8 o 9 o 10 e summit giganteschi), dagli apparati militari alla legalità, dall’industria all’energia, dal clima alla sopravvivenza della specie…, è in mano alla “personalizzazione del potere” e lesiva di ogni sovranità popolare. Obiettivo delle classi dominanti è anche quello di rendere il liberalismo economico un modo di vivere in cui  i bisogni siano pensati soddisfatti essendo tutti consumatori individuali ed utenti che creano profitto. La società neoliberale vuole essere nei programmi dei suoi gestori un “assoluto intramontabile” disponibile ad un’alternanza e ai conflitti purché non ne intacchino l’essere e la sua etica dell’avere. Non possiamo, quindi, aderire alle grandi lotte che abbiamo dinanzi proposte dalla CGIL (dopo la svendita di tutto il patrimonio di storia e di esperienza della CISL e della UIL come sollecitato dagli stessi enunciati di Gelli o della P2) o dai girontondini senza pretendere, partecipando come faremo, qualcosa di più: a partire da un’iniziativa forte e consapevole per mandare a casa i nuovi barbari. Bisogna difendere l’articolo 18 contro la libertà di licenziare ma bisogna difendersi dai licenziamenti a macchia di leopardo, dalle politiche finanziarie, dal caro-vita, dall’evasione fiscale e dai paradisi  (per le classi dominanti) salariali, dallo svilimento del potere d’acquisto, dalla giungla retributiva, dalla disoccupazione, dalle privatizzazioni dei servizi, dall’attacco a pensioni, sanità. istruzione ecc. C’è una gerarchia retributiva, favorita anche da un ruolo sempre più corporativo dei sindacati, irrispettosa di capacità ed intelligenze, nel nostro Paese, spaventosa. Totale è, poi, la mancanza di una vertenza per il Lavoro e mai sepolta la pratica clientelare che regola ulteriormente le disuguaglianze e neo-parassitismo. Assente un briciolo di modello di sviluppo per grandi aree e settori e una concreta politica fiscale (almeno rispettosa del mandato costituzionale). Il denaro pubblico è estorto e poi orientato, in un intreccio marcato con poteri occulti anche d’oltreoceano, per motivi clientelari… Più che le tariffe pubbliche le alte retribuzioni (in mancanza di un tetto) date in gran parte fuori da competenze e “meriti” intervengono in parte sui meccanismi inflazionistici sia dal lato dei costi che dei consumi e a vantaggio di beni di lusso prodotti oltre il nostro stesso cortile di casa. Gli ultimi governi hanno, poi, accellerato, quella che potremmo definire una vera e propria crisi fiscale e dei salari (diretti, indiretti…) inventando vieppiù lavoro interinale e flessibile, sottopagato e nuovo schiavismo. Le stesse classi medie, generalmente conservatrici  e culla dell’apatia politica, iniziano a sentire il peso di politiche economiche, fiscali e finanziarie (anche dopo l’unica unione europea realizzata: quella della moneta. Mentre altre nazioni vivono una violenta dollarizzazione) scellerate. Nell’agricoltura e nei servizi, nel turismo e nell’artigianato, nel piccolo commercio e in taluni lavori autonomi abbiamo, invece, toccato il fondo. Non basta impegnarsi nella contrattazione nazionale se questa non è finalizzata a ragionamenti sul Welfare, sull’accumulazione e la distribuzione di ricchezze, sulla cooperazione internazionale, importazione ed esportazione, sulla ricerca e il cosa produrre attivandosi contro squilibri di classe e nei consumi sociali che vanno raggiungendo livelli inquietanti. Un euro vale quasi mille lire in realtà  e la FIAT come la divisione sociale del mercato del lavoro e la svalorizzazione del lavoro produttivo stanno lì a dimostrare che i privilegi derivano da strutture politiche ed istituzionali che favoriscono unicamente posizioni corporative, di parte, istituzionali e di potere. Ciò che è fortemente in crisi è l’organizzazione del lavoro e il rapporto (con l’aiuto, inoltre, della controriforma per la scuola) tra lavoro manuale e intellettuale. Tuttavia nessuna lotta ha davvero senso se non è accompagnata da una grande consultazione di massa che crei coscienza e consapevolezza. Rimane, per noi, non rinviabile una lotta strenua per la riduzione dell’orario di lavoro (36 ore) a parità di salario scomparsa dalla agenda politica di qualsiasi forza politica di sinistra in Italia. Rimane importante rivalutare in forme nuove la scala mobile (rapporto tra stipendi e processi inflattivi aggiungendo rapporti tra valore del salario e spesa) e la nascita di sedi istituzionali intese come sportelli per una mappatura reale del non lavoro e sedi per l’ottenimento immediato di un reddito minimo garantito nelle condizioni del disagio verso la piena occupazione equamente e giustamente retribuita. Bisogna in sostanza far uscire il Paese da una microeconomia alle dipendenze di una macroeconomia che ci vede servi sciocchi e rilanciare lotte sindacali e politiche per l’alternativa a questo stato di cose a maggior ragione dopo gli accordi tra CISL  e UIL e governo delle destre realizzati per normalizzare e ingabbiare tutta la politica contrattuale e sindacale riducendola ad una pratica rivendicativa, limitata e consociativa. Dobbiamo chiedere alle lotte d’autunno governi alternativi e una sinistra per la democrazia popolare, la contrattazione come valore riconosciuto al pari del diritto a vivere la piazza, la promozione della condizione operaia e bracciantile, egualitarismo salariale, controllo sociale dell’impresa e dell’economia per non continuare solo a difendere. Se il sindacato è mosso dalle stesse preoccupazioni della Confindustria e dei ceti dominanti dinanzi alla crisi non si va lontano e non si interviene su crisi e recessione in maniera determinante. Se il sindacato (e la sinistra che ne è addirittura scavalcata) ha le stesse preoccupazioni del padronato, della stabilità del quadro economico, dell’equilibrio nei rapporti economici internazionali, della regolazione dei rapporti tra le classi siamo in presenza di un cedimento che anziché proporre sviluppo e occupazione, diritti e nuovi lavori, ci ingabbia in una riduzione della capacità produttiva e in un arretramento di tutto il vivere sociale. Salvaguardare a tutti i costi il livello di produttività delle aziende intervenendo sul costo del lavoro e convivendo con la sottoccupazione e disoccupazione, favorendo gabbie salariali, privatizzando oltre misura, pensando alla quantità delle merci e non alla qualità, manipolando bisogni e condizionandoli è approfondire la crisi. In questo momento sembra che non esistano piani che inseriscano nella società elementi di socialismo che spingano verso un mondo nuovo. Libertà di licenziare, costruzione di un esercito di riserva controllato, condoni e agevolazioni ai detentori del profitto, apertura del proprio territorio e senza regole a poteri economici forti, smantellamento dello stato sociale, evasione fiscale e sfruttamento da legalizzare, messa all’asta di ogni bene collettivo, sottomissione alla banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale e in genere alle scelte delle strutture di Bretton Woods, valorizzazione dell’industria delle armi e delle manipolazioni genetiche senza controllo, rapporto coercitivo con l‘ambiente ecc. sono espedienti microeconomici che danno il quadro di scelte macroeconomiche che abbiamo chiamato autoritarismo liberale e che in Italia trovano nel paladino del falso in bilancio e dell’attacco alla legalità e alla Costituzione democratica uno dei servi più fedeli. Quanto più ci si allontana dalla lotta di classe e dalla realtà di uno sviluppo mondiale ineguale da contrastare in cui lo stesso fenomeno dell’immigrazione assume aspetti distorti tanto più la politica economica si riduce al piccolo compromesso, al solo problema corporativo. In realtà ci aspettiamo che dall’autunno 2002 la lotta ritrovi la sua dimensione politica, la ritrovi nella manifestazione del 14 settembre che intende evitare l’assassinio di giusti processi e dello stesso ruolo democratico della Magistratura in questo Paese, la viva nella manifestazione, che ci vede protagonisti, degli immigrati del 15 settembre che terminerà al Vaticano, si rinnovi in una battaglia quotidiana in ogni luogo di studio e di lavoro e si rafforzi gemellandosi con lotte analoghe in ogni parte d’Europa e del pianeta. Lo scandalo per questo Paese (come in Colombia o negli USA, in Uruguay e in Argentina, in Giappone e in tanta parte dell’Africa ecc.) è rappresentato da forze antidemocratiche che sono annidate nelle istituzioni e che lavorano quotidianamente per privarle di senso e ruolo insieme all’emarginazione non di una parte della società e dell’ opposizione ma del popolo stesso. Forse chiediamo troppo ma ci appartiene anche l’utopia e il desiderio di cristallizzarla.

Note:
il governo ha escluso un confronto con i sindacati sulle questioni della sanità, dell’assistenza e della previdenza mentre i diritti di cittadinanza sociale, delle donne, dei giovani e degli inoccupati e degli anziani sono duramente colpiti. E’ previsto, altresì un taglio di 55 miliardi di euro alla salute, istruzione e pensioni. Si privatizza oltremisura e si intende smantellare il servizio sanitario nazionale, si taglia il prontuario farmaceutico, si rimettono in vita i ticket, si propongono Mutue volontarie che solo i ceti agiati possono pagare, la finanziaria prevede la decontribuzione per i nuovi assunti a tempo indeterminato e il trasferimento forzoso delle liquidazioni ai fondi pensioni mettendo a rischio le pensioni stesse, detassa le rendite opulente e valorizza iniquità anche nella redistribuzione della ricchezza inasprendo i problemi e negando contributi agli Enti Locali li rende protagonisti di nuove e alte tasse. C’è molto di peggio e molto di più ma alcuni esempi possono ben rappresentare il cosa ci attende.

 

Appunti d’autunno
di Massimiliano CARBONIERO

Tra un paio d’anni le miniere di carbone di Selby chiuderanno. Selby è in Inghilterra e le sue miniere erano tra le più produttive del Paese. Oggi, la società che le gestisce, dice: “non sono più convenienti”. Tanti lavoratori rimarranno a casa, disoccupati.

Siamo alle solite: il padrone ha deciso di fare altro o di guadagnare di più, il dipendente si adegui. Questa massima, estrema sintesi del liberismo selvaggio, trova adepti in Inghilterra, in Spagna e in molti Paesi europei ma, anche senza essere pignoli, lo Stato europeo che ha veramente  istituzionalizzato lo scontro con i lavoratori e l’Italia.

Chiamare “Patto per l’Italia” un testo che fa vacillare i più basilari diritti di una democrazia è cosa assai poco elegante, se non tragicamente ipocrita. Se poi questo testo viene controfirmato da due sindacati è un vero e proprio disastro. Disastro per chi ha firmato, s’intende.

Riassumendo e semplificando (ma neanche tanto), il capitolo sul lavoro del “Patto” dice così: “il Governo toglie l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (ma, per carità, non sempre) però aumenta il sussidio di disoccupazione”. E’ come se, a un condannato ingiustamente a morte, si dicesse “ti ammazziamo lo stesso, ma promettiamo di pagarti i funerali”. Capirai.

Il Governo inoltre, ha precisato che l’articolo 18 verrà “sospeso” in “un solo caso”. Analizziamo.

“Sospeso”, per un noto Ministro della Repubblica, significa “a vita”. E’ uno strano modo d’intendere il significato delle parole, ma tant’è, un Ministro può sempre smentire se stesso. Per quanto riguarda il paragrafo relativo all’unico caso in cui il suddetto articolo verrà “sospeso a vita”, si dice che un’azienda che assumendo raggiunge il numero di 15 dipendenti, non è tenuta a rispettare le norme che regolano il reintegro del lavoratore licenziato senza giusta causa. Vuoi vedere che, d’ora in poi, le aziende italiane nasceranno tutte con 14 dipendenti?

Robe da matti. Eppure, l’attacco della destra nei confronti dei ceti meno abbienti, non si arresta al mondo del lavoro. C’è la sanità (anzi, la Salute), la scuola, l’immigrazione, i servizi, i trasporti, l’ambiente, la giustizia e chissà cos’altro. Ci sarà l’autunno caldo?

A giudicare dalle premesse, è facile ipotizzare che ci stiamo avvicinando ad una stagione decisiva per le sorti del nostro Paese. Un governo non può tutto. Un governo, anche se democraticamente eletto, non può cambiare le regole della democrazia; non può schiacciare i diritti. A tutto c’è un limite e, quando si toccano i diritti, il limite è già stato oltrepassato.

Ma come si può fermare un governo che agisce spinto dall’odio per l’altro da sé e dalla ricerca del consenso facile ?

Lasciare al solo sindacato rimasto fuori dal “Patto” il ruolo di strenuo difensore dei lavoratori è cosa impensabile. La democratica battaglia per i diritti va fatta innestando le forze di tutti. Dobbiamo abbandonare pregiudizi e snobismi, personalismi ed estremismi improduttivi, per vincere questa sfida. Se perdiamo anche sul piano dei diritti, oltre che su quello politico, vuol dire che questo Paese sarà consegnato alla destra per generazioni. Forse, è giunta l’ora di unirsi almeno in questa battaglia.

Se salviamo la sanità pubblica, le scuole per tutti e gratis, il diritto di ogni immigrato o immigrata ad entrare in Italia senza dover subire atroci menomazioni della propria dignità, forse avremo almeno salvato una briciola di civiltà. Se anche il prossimo autunno ci divideremo, avremo perso anche quella briciola di civiltà che, in molti, conserviamo e custodiamo come segno di distinzione democratica.

Con l’autunno dobbiamo portare la lotta. Una lotta unitaria e costruttiva, una lotta cosciente e capace di trasformare l’indignazione verso questo governo in partecipazione attiva. 

La benzina per far muovere il convoglio c’è: i tre milioni di manifestanti che in marzo si sono riuniti a Roma sono solo la parte più visibile di un movimento ben più vasto. Non disperdere questo prezioso carburante è un imperativo.

Difendere la sanità pubblica è un imperativo. La privatizzazione della sofferenza e del dolore lascia sgomenti. Ci avviciniamo al modello americano: “se hai un tumore e la carta di credito, il cancro è curabile; senza un conto in banca il male farà il suo corso”.

Anche difendere la scuola per tutti è un imperativo. In un Paese civile si deve pensare alla formazione dell’individuo come un arricchimento dell’intera società e, tale formazione, deve essere garantita a tutti seguendo le tre direttive democratiche di una scuola laica, pubblica e gratuita.

E poi c’è la questione dei migranti. L’Italia di destra ha deciso di trattare il fenomeno migratorio come un problema di ordine pubblico. Si dice: “Se vuoi venire in Italia devi lavorare e produrre, sudare senza rivendicare troppi diritti e, possibilmente, tacendo”.

E’ un’Italia povera, questa. Con poveri uomini al potere. Un’Italia rozza e culturalmente impreparata. L’Italia del messaggio facile gettato in pasto alla folla. Un’Italia demagogica e populista capace solo d’individuare un nemico, possibilmente con la pelle scura.Si è già vista un’Italia così. Poi, fortunatamente, è arrivato l’autunno.

 

UNA NUOVA UNITA'
di Antonello Zecca

Sottoscrivo ogni singola parola dell’intervento sull’autunno caldo che apre queste pagine. In una fase storica come questa è più che mai necessario che tutti i comunisti, al di là dello schieramento in cui militano, riescano a moltiplicare le occasioni di incontro e anche (perché no?) di scontro, per dotarsi di una nuova elaborazione e di una nuova prassi comuni tali da reggere la sfida che il capitalismo attuale ci propone.Contrariamente ai troppo facili ottimismi di qualcuno che vede la rivoluzione a portata di mano, la realtà, i fatti (e i fatti, si sa, sono terribilmente ostinati), ci dicono che il nostro compito è ora la resistenza, una resistenza tanto più necessaria quanto più gli attacchi si fanno profondi e continui. Una resistenza che però sappia riannodare i fili in vista di una riorganizzazione e di un ripensamento critico delle forze comuniste o comunque progressiste e democratiche a livello nazionale ed internazionale.

Nelle proposte avanzate, concrete e ad un tempo ambiziose, si scorgono quegli elementi di rottura con politiche troppo blande, con rivendicazioni solo di principio, con compromissioni (e non compromessi, a volte necessari) che troppo spesso hanno danneggiato e continuano a danneggiare il progetto di una sinistra che si proponga di mutare lo stato di cose presenti. Riprendo allora l'appello perché si riprenda a parlare in modo massiccio delle 35 ore, di una nuova scala mobile dopo il massacro salariale degli ultimi dieci anni, della creazione di un nuovo ed intelligente sindacato di classe; non dimenticandoci della questione dell’immigrazione, punto cruciale e snodo fondamentale della ridefinizione internazionale della divisione del lavoro e quindi di una possibile riorganizzazione di uno schieramento di classe che la assuma come componente centrale. A cominciare, concretamente, da lotte contro la legge Bossi-Fini, contro la nuova schiavitù, con un lavoro minuzioso tra i fratelli immigrati per una unione delle lotte con i lavoratori italiani in un'ottica anticorporativistica, per "unire ciò che il padrone divide" come i compagni di DP dicono spesso (frase molto azzeccata).

Ancora di più le squallide vicende del Summit di Johannesburg ci raccontano della imprescindibile necessità che tutti gli uomini e le donne "di buona volontà" comincino a prendere in mano il destino, a questo punto, dell'intero pianeta, che il capitalismo inevitabilmente distruggerà se non lo fermiamo prima. Allora è importante uscire dalle proprie gabbie, dalle proprie griglie interpretative, spesso stantie, e riproporre con forza, anche sul piano analitico, continuamente ricercando e criticando, l'idea radicale di trasformazione. Ma anche l'opera di aggiornamento analitico non si compie rigettando in toto la tradizione. Questa invece è una fonte continua di confronto per chi, come il movimento operaio, non nasce oggi ma ha una lunga, tragica e gloriosa storia al tempo stesso; uno degli errori che questo movimento fa è quello di credere di essere completamente nuovo non considerando il rapporto dialettico tra modernità e tradizione. Ecco allora che alcune sue componenti ripropongono visioni e soluzioni vecchie, vecchissime talvolta o si abbandonano a velleità anarcoidi non preoccupandosi nemmeno di considerare la natura del potere.

Per questo è opportuno aprirsi alla ricerca considerando anche l'apporto positivo di filosofie e teorie altre, ma senza abbandonare la propria storia.

In conclusione, ribadisco che sarebbe importantissimo creare occasioni di confronto e di lotta comune cosciente, prima che sia troppo tardi...