LA VORACITA’ DELLA SOCIETA’ DELLO SPETTACOLO
di Tiziano Tussi

 

Nella società dello spettacolo e dell’ipocrisia non si può neppure morire in pace. Giorgio Gaber lo sta sperimentando, ora da morto. La sua scomparsa all’inizio di questo 2003 ha scatenato una ridda di interventi che hanno cercato di accaparrarselo.

Non è mia intenzione proporre una nuova interpretazione del suo lavoro di cantautore teatrale. Molti di noi, che hanno l’età che lo permette, hanno seguito l’alba del suo cantare ed i lavori teatrali che su quelle note egli aveva impiantato. Gli spettacoli degli anni ’70 si concludevano con il pugno chiuso, il suo, alzato, in risposta a quello degli spettatori. Poi si è ritirato un po’ in sé,  ha cominciato a scivolare verso chine intimistiche ed interlocutorie. Lui stesso in alcune interviste diceva che avevano vinto i “non so”. Un personaggio di un suo spettacolo si intitolava appunto “dialogo tra un impegnato ed un non so”. Diceva che non capiva l’epoca attuale, il mondo che lo circondava. Si era un poco rifilato. Sino al 2000, tempo nel quale ha pubblicato un nuovo CD, che aveva fatto scalpore per il titolo “la mia generazione ha perso” e che conteneva anche una specie di riedizione di un tormentone degli anni ’70, che si prendeva già in giro da solo con il cercare di scoprire cosa fosse di destra e cosa di sinistra nelle azioni umane. La canzone finisce con un Basta! Contento lui. Soddisfatto lui di questa deriva umanista, di grido di sofferenza, sta bene a tutti. La canzone che gli piaceva di più era infatti “non arrossire”, esile romantica canzoncina, che può piacere molto. Da tutto questo, il povero Gaber è stato tirato per la manica dalla destra che lo ha esaltato (evidentemente non si va lontano dal vero facendo riferimento alla sua signora, presidente della provincia di Milano per il Polo). Berlusconi era ai suoi funerali. Il Corriere della Sera ha dedicato ampio spazio a Gaber, un giorno, a ridosso della morte, addirittura tre. Tutti ad inchinarsi davanti all’uomo di cultura, di teatro, ad una specie di lucida guida per questi nostri tempi confusi. Ma la destra tanto confusa non è dato sapere se gli vuole dedicare una via, una piazza e forse un teatro. Lui in fondo non votava neppure. Forse avrà votato solo per sua moglie, di cui evidentemente aveva fiducia. Ma sua moglie non si era candidata per un “partito non so”, stava e sta con il Polo. Ed allora ecco che la sinistra reagisce. Liberazione, per la penna di Bertinotti, lo definisce “anarchico puro”. Ma non pare che lo stesso fosse presente nel movimento anarchico a nessun livello, che facesse spettacoli per i gruppi o la federazione anarchica, che fosse abbonato a riviste anarchiche, (e chi lo sa?). Insomma si faceva i fatti suoi e che diceva di “non sapere”. Forse va vicino al vero Mogol, che manda una lettera-articoletto a “il riformista” e titola, da parte per altro di uno che non lo vedeva da venti anni o poco meno, come lui stesso dice: “Ciao, amico Giorgio eri qualunquista e non te ne vergognavi”. Dicevo, forse va vicino al vero Mogol. Ma quello che qui interessa sottolineare è l’accaparramento mediatico della “storia” di un uomo che può rimanere nei ricordi di molti ma che anche lui si voleva ricordo, minimalista, e che le ultime “cose” che ha fatto terminano con un Basta. La politica non lo interessava più - abbiamo visto non così la moglie -, l’impegno sociale non lo convinceva più. Ogni tanto tirava fuori qualcosa di cantato perché questo era il suo lavoro e socialmente si era molto rarefatta la sua presenza. Negli ultimi dieci o quindici anni almeno. Perché tutto questo sbattere di cuori infranti ora per la sua morte? La dissoluzione di una vita, in morte, da parte della società dello spettacolo ha fatto un’altra vittima. Basta!

Noi ti salutiamo, caro Giorgio Gaber, tentando di rispettare quell’onestà intellettuale e morale che dovrebbe appartenerci sempre.