Diritti dei lavoratori arbitrio dei padroni
di Fausto Concer

 

Premessa
È del tutto evidente che la società che si fonda e si regge sul dominio del capitale ha come sua cifra e suo cemento il lavoro alienato. Anzi ne è il costituente: il lavoro alienato sta al capitale come l’atomo sta alla materia.
L’individuo nel lavoro non è in sé, ovvero nella piena consapevolezza e autonomia di ciò che produce e fa e, tanto meno, per sé, ovvero possessore del suo prodotto, dei mezzi di produzione, della materia che produce, del suo tempo e della sua creatività autonoma; bensì è fuori di sé, sottomesso e sussunto al capitale - impersonificato dal singolo capitalista o struttura del capitale - e alla sua logica. Tutto ciò non è una novità, ne aveva già detto più e meglio Karl Marx. La donna e l’uomo, nel momento in cui lavorano, in quella che dovrebbe essere la loro attività vitale, di espressione e realizzazione, in quella che dovrebbe essere, assieme ad altre, costitutiva della loro umanità, si ritrovano ad essere strumento, automi sotto il regno e l’arbitrio di qualcuno o qualcos’altro. Una paradossale macchina provvista di cervello alla quale non è dato di esprimersi come donna o uomo ma come agente della produzione, o della riproduzione, o del controllo, o del servizio ecc. Da questo stato d’alienazione fondante e permanente ha origine una sorta di schizofrenia; una cosa è l’essere umano, il cittadino, l’elettore, e così via; un’altra è il lavoratore, il produttore. L’emigrato va bene in fabbrica, quando lavora e produce, non va bene quando si vuole cittadino, o più semplicemente donna o uomo. Gli stessi che lo schivano impauriti nei vicoli, lo disprezzano sui treni, lo maledicono al bar o in famiglia, quelli stessi lo sfruttano nelle piccole aziende, nelle fabbriche e nei campi, o più semplicemente godono del suo apporto oggettivo al tessuto sociale, non solo come colf, badante, ma solamente anche quando, mangiandosi una italica pasta al pomodoro, raccolgono col pane quello che un qualche marocchino o moldavo aveva raccolto in precedenza, con molta più fatica e molta meno soddisfazione, nei campi. Questo processo materiale, ma anche spirituale e psicologico, determina la reificazione, ovvero la riduzione dell’uomo a cosa. Questa macchina provvista di cervello deve essere efficiente ed obbediente, operosa e silenziosa, sussunta totalmente al capitale e felice d’esserlo, perché altrimenti non potrebbe essere.

 

Cartina di tornasole

Il referendum per estendere anche alle imprese al di sotto dei 15 dipendenti l’articolo 18 è una cartina di tornasole. Il quesito referendario chiede una cosa semplicissima, chiara, elementare: una misura minima ma fondamentale e forse per questo strenuamente avversata da un sempre più inquietante e innaturale “arco incostituzionale” e blocco sociale. Chiede che anche per i lavoratori e le lavoratrici che si trovano ahiloro a lavorare in imprese al di sotto dei quindici dipendenti ci sia la tutela minima, ripeto minima, di non essere licenziati senza giusta causa, ovvero per l’arbitrio, o la prepotenza, o la vendetta del padrone. Non si chiede che venga tutelato quando l’impresa va incontro a inaffrontabili crisi economiche (che, sappiamo, è sempre il lavoratore a pagare), o che sia tutelato se ruba, se trovato a sabotare le macchine, se si assenta reiteratamente e senza motivo, o per qualsiasi altra forma di crimine verso il capitale e la proprietà. Al contrario: si chiede solamente che venga protetto da ricatti sessuali, da abusi quali la ritorsione se richiede un giusto salario, o rivendica diritti come quello di sciopero, di non lavorare più di otto ore al giorno o quaranta alla settimana senza, magari, percepire gli straordinari, di iscriversi ad un sindacato, di partecipare ad attività sindacali o politiche che coinvolgano e prevedano la difesa del lavoro suo e dei compagni, la sua qualità in termini igienici, ambientali, di salute, di dignità, la sua giusta retribuzione… Insomma, la tutela contro l’ingiusto licenziamento dovrebbe essere un diritto universale, come quello al voto, quello di esser curati e, per rimanere sempre in ambito lavorativo, quello allo sciopero. Dovrebbe, appunto; ma, quando di mezzo ci sono il mercato ed il profitto, la logica e la giustizia devono sacrificarsi, immolarsi sull’altare della compatibilità e della convenienza, ripiegare e piegarsi ai nuovi sacri totem: la flessibilità, la competitività, il sistema ed il tessuto produttivo. Ci si trova così di fronte a uno dei più tipici ribaltamenti ideologici, quello della presunta necessità di proteggere i piccoli imprenditori dallo strapotere della burocrazia sindacale (che, peraltro, pare si accodi tranquillamente alla tendenza) e dalla “prepotenza” del lavoratore, di tutelare la libertà del padrone - a casa propria ognuno fa ciò che gli pare, come dice Berlusconi -, di non farlo sottostare a “ricatti” (cioè regole) “vessatori” (cioè fondamentali per il lavoratore). La macchina provvista di cervello deve produrre e riprodursi come macchina, nel senso di riprodurre le proprie forze necessarie per il lavoro, deve creare profitto, deve spendersi affinché l’azienda, la fabbrica, l’impresa o l’attività lavorativa proceda spedita e possa quindi continuare a mantenerla - altro rovesciamento ideologico, visto che sono le lavoratrici ed i lavoratori con il loro lavoro a mantenere l’azienda -. Questa macchina deve essere, come recita il motto dei carabinieri, “usa ad obbedir tacendo”. Il lavoro deve essere la fonte del profitto e chi lo eroga, ovvero la paradossale macchina provvista di cervello, deve essere uno strumento efficiente, sicuro, duttile; non può credersi, e tanto meno pretendersi, una variabile indipendente (per usare il gergo degli economisti), non può aspirare ad essere un soggetto autonomo che contribuisce a determinare la sua mansione, ciò che produce, come lo produce, o, più semplicemente e meno ambiziosamente, un soggetto autonomo che si esprime e si organizza in modo libero e indipendente anche nell’ambito lavorativo, senza subire pressioni e ricatti determinati, oggettivamente oltre che soggettivamente, da una situazione di eterno precariato