Disarmiamoli!


di Riccardo Navone

 

I recenti fatti di Castiglion Fiorentino hanno dato - nella brevità estrema in un attimo - un netto colpo di spugna su molti luoghi comuni che circolano anche e ancora negli ambienti della sinistra italiana, sia quella istituzionale che quella antagonista. Questi luoghi comuni si riferiscono alle opinioni più diffuse in merito al problema del terrorismo e della lotta armata in Italia.

Non é vero che tutti i militanti delle formazioni armate siano dei fascisti prezzolati che sparano e uccidono perché hanno in odio la classe operaia, i movimenti e la lotta politica legale.

Non é vero che non esistono settori di movimento che disdegnano la violenza, o che rifiutano a priori l'uso della forza quando non intravedono altre strade per l'affermazione alle proprie aspirazioni. Ci sono anche altri luoghi comuni. Un rifiuto diffuso di capire e di ammettere che all'interno dello Stato esistono settori eversivi che commettono atti illegali, e che questo stato di cose é ancora una realtà in Italia, oggi come negli anni '70. Magari oggi esitano a finanziare gruppi della delinquenza comune (banda della Magliana) o dichiaratamente nazi-fascisti (ON e similari) da utilizzare per le loro porcherie. Però non hanno interrotto questi contatti. Li tengono in sonno nel caso possano tornare utili in futuro. Ci sono molti elementi che possono portare ad ulteriori errori di valutazione e diffondere confusione di analisi fra molti sinceri democratici, pacifisti e - perché no - anche fra quanti rivendicano l'antagonismo come pratica politica e poi si attrezzano con il paracadute e il freno a mano per non oltrepassare i limiti del possibile. Sulla vicenda dei due militanti delle Br-Pcc Lioce e Galesi l'unico che ha detto qualche cosa é Casarini e - purtroppo - poteva anche stare zitto perché ha detto delle cose non molto ponderate. Ha parlato di un "atto contro il movimento" senza rendersi conto che questi signori sarebbero presenti anche in assenza di qualsiasi movimento e che comunque giudicano il presente come una fase priva di movimenti in attività.  Ai Br i no-global fanno schifo, i cattolici non interessano, il PRC viene giudicato come un qualsiasi partito revisionista e l'area dell'autonomia é vista come una manica di deficienti pieni di piercing e tatuaggi. Loro sono duri e puri, sono il “partito rivoluzionario”, sono quelli che faranno la rivoluzione. Ci vuole un atto di coraggio, molto profondo, per ammettere che certe contraddizioni della nostra società sono presenti ancora oggi - come negli anni '70 - e che ne determinano da un lato le scelte dello stato e dall'altra le scelte di chi lotta per la loro esplosione e successivamente per il loro annullamento. Le vicende del G8 di Genova rivelano che settori eversivi sono presenti nelle Stato e che quando é il caso diventano operativi. Queste vicende - le torture a Bolzaneto, l'aggressione alle piazze pacifiche, l'irruzione e la mattanza alla Diaz - dimostrano che lo Stato non disdegna la "maniera forte". Non si ferma davanti alle mani pitturate di bianco e se é il caso inventa prove false, costruisce teoremi, produce terrore e uccide. Il terrorismo delle cosiddette nuove-Br é il "naturale" agire di frange minoritarie e isolate di militanti che non si sentono disposti ad accettare la violenza dello Stato senza dare un segnale - delirante - di reazione sullo stesso piano.  Quando dico "naturale" intendo dire che é quasi "auspicabile", da parte dello Stato, che qualcuno vi si opponga in modo violento, proprio per giustificare una contro-reazione e mantenere in vita apparati che altrimenti diverrebbero obsoleti.  La Digos era quasi in fase di smantellamento e i Ros masticavano di politica come noi tutti di cibernetica (mi scuso con i cibernetici). Erano in una fase di stanca fino ai delitti D'Antona e Biagi e da lì hanno trovato nuova linfa. In altre parole é un cane che si morde la coda. C'è il terrorismo che spara e uccide e ci sono settori dello Stato che pestano indiscriminatamente la gente in piazza. C'è chi vuole criminalizzare qualunque forma di dissidenza e chi criminalizza qualsiasi forma di Stato. é un'alternanza drammatica e dolorosa che esisterà fino a quando non saranno annullate certe contraddizioni. Non parlo dei massimi sistemi ma di cose molto concrete. Non parlo del terrorismo islamico, di anti-americanismo o di lotte di religione o di movimenti geopolitici legati al petrolio o a speculazioni economiche su scala planetaria. Parlo delle cose di tutti i giorni. Di lavoro interinale e di gente che viene licenziata all'età di 40 o 50 anni. Parlo della Fiat di Termini Imerese, delle telecamere montate agli angoli delle strade, della giustizia che é rimasta ancora oggi quella del codice Rocco, di giustizia sociale a livello elementare. In Italia esiste ancora il problema del lavoro minorile, ci sono nicchie di povertà estrema, c'è l'arroganza di una burocrazia che é riconducibile più alle pratiche di uno stato autoritario di stampo fascista che ad una democrazia evoluta. C'è uno Stato arrogante che protegge i potenti e condanna i più poveri. Che assolve i ladri e li premia con un condono e punisce chi ruba la classica mela. E' quindi "naturale" che esista un conflitto, strisciante o palese, che combatte questo stato di cose. C'è chi lo fa con le armi della democrazia e chi con quelle - senza metafore - che sparano proiettili di piombo.

Dalla fine degli anni '70 ad oggi sono stati molti i tentativi di dichiarare finita un'epoca e darne degna sepoltura con una serie di atti concreti. Tutti questi tentativi sono stati vani. Anche Cossiga si era a suo tempo pronunciato a favore della chiusura del periodo emergenziale. Si sperava che sotto il governo dell'Ulivo si sarebbe potuto risolvere il problema. Questo non é avvenuto. Nel mercimonio della politica la ragione é risultata una moneta svalutata. Nessuno ha voluto premere fino in fondo l'acceleratore e il dibattito si é bloccato su aspetti devianti e di poco spessore. Le origini del terrorismo e le colpe della resistenza. I ragazzi di Salò e i partigiani. Le vittime del terrorismo in toto e non le vittime delle stragi e quelle della lotta armata. La paura di dividere l'Italia in due fronti contrapposti. Un guazzabuglio che ha congelato tutto. Fa paura dirlo - ma bisogna farlo - il terrorismo e la lotta armata sono un fardello che ci troveremo a trascinare ancora per molto tempo.  Le ragioni perché esistano i terroristi sono insite all'interno della società nella quale viviamo. Le giustificazioni politiche e ideologiche perché qualcuno prenda in mano una pistola per fare "giustizia" ci sono tutte e sono tutte belle in evidenza.  Naturalmente chi sceglie questa soluzione estrema non é padrone di una analisi lucida né si pone il problema di costruire una società migliore.  Reagisce e basta. E reagendo cerca di trovare tutte le motivazioni politiche ed ideologiche per giustificare il proprio agire. Forse crede di essere il vendicatore di chi é ancora esule all'estero dopo 20 anni, oppure di essere il vendicatore di quelli che sono morti. Forse pensa di spostare l'asse dello scontro sociale su un livello più radicale. Cosa pensano i pistoleros é spesso oscuro.

Non dobbiamo commettere gli stessi errori che sono stati commessi negli anni '70 quando ci accostiamo ad una analisi di questi fenomeni. Non esistono i "sedicenti" brigatisti rossi. Esistono le Brigate rosse e basta.  La motivazione del loro esistere sono tutte nella nostra società e - ammettiamolo - la loro origine non é oscura o manovrata da forze occulte.  Chi fa la malaugurata scelta della violenza armata é il nostro vicino di casa. Appartiene alla tradizione storica del movimento operaio, dei movimenti sociali, della lotta per l'emancipazione.  E' una visione assolutamente distorta delle motivazioni profonde di chi lotta storicamente per la liberazione dei popoli dall'oppressione, da qualsiasi oppressione. Però é una visione presente e operativa, che può affascinare ancora molte persone. Il nostro compito non é quello di combattere questa visione con le armi della repressione né con l'atteggiamento dello struzzo. Oggi possiamo battere queste tendenze deliranti e lo possiamo fare proprio perché la storia ci insegna come farlo.

Possiamo disarmarli.

Ritengo che il problema sia innanzitutto culturale e poi politico. Possiamo costruire quella cultura della pace e della sana lotta politica, anche aspra e conflittuale, che costruisca consenso intorno alle idee universali di giustizia sociale nel mondo globale che ci prospetta il futuro. Possiamo affermare l'idea che la violenza sia da negare come pratica politica senza negare che esiste il problema della forza. Fermare i treni della morte non é violenza, é uso della forza. Chi ha letto la biografia di Gandhi sa benissimo che il suo movimento era antagonista e per nulla votato al martirio. Possiamo dire a quei settori della sinistra istituzionale che sono tutti votati all'uso del potere che sbagliano rifiutando il conflitto. Il conflitto é un sano e giustificato livello dello scontro politico. Senza conflitto non c'è dialettica politica e la mera ricerca dell'uso del potere porta solo all'accettazione di valori che non hanno nulla a che vedere con la giustizia sociale. Blair, "sedicente" governante di sinistra, é un caso patologico di "fascismo" di sinistra. I fatti di Napoli del Global Forum hanno visto l'Ulivo comportarsi esattamente come la destra. Ha pestato la gente in piazza e poi ha cercato di nascondere le prove esattamente come é successo a Genova. I Ds hanno giustificato la guerra in Kossovo - i bombandamenti all'Uranio impoverito - esattamente come hanno fatto gli americani in Afganistan con i defolianti. La posizione dei Ds sulla guerra preventiva di Bush é solo un nuovo tassello di questo modo di agire e di interpretare la storia. In precedenza abbiamo potuto vedere il loro comportamento in merito al G8. Quella "sinistra" ci diede all'epoca un raro esempio di miopia politica e di cinismo. La sinistra ha i suoi bei scheletri nell'armadio. La rinuncia di certi settori di porre dei valori chiari in contrapposizione a quelli del sistema capitalistico é una delle colpe della sinistra istituzionale. Viene voglia di dire che esiste una sinistra reazionaria. Oggi possiamo porci al di sopra della politica istituzionale - quella dei potenti e aspiranti tali - proprio perché siamo agli albori di un movimento destinato a crescere in modo esponenziale. La voglia di lotta e di giustizia si leva ormai in tutti gli angoli del pianeta. Anche nei paesi più poveri e lontani si stanno affermando queste idee. In Africa nasce la stessa voglia di riscatto che anima i Sem Terra, nel continente indiano i movimenti si moltiplicano. All'Est si respirano venti nuovi così come all'Ovest, negli Usa. Ogni povero, ogni semplice persona onesta della terra, può avere quei referenti e costruirsi il proprio movimento di liberazione proprio perché é svincolato da giochi di potere precostituiti.  Qui non c'è nessuno che vuole il potere. Nessuno che vuole rivoluzionare la società per costruirci sopra un'altra società magari ancora più oppressiva. Queste sono le motivazioni che ci possono portare a costruire quella "cultura" che é la base essenziale per battere ogni tendenza violenta. Per battere le Br occorre una cultura più forte e più motivata. Una cultura che riscopra il conflitto e che faccia piazza pulita di tutta la finta sinistra in doppiopetto e barca a vela. E' necessario un dibattito diffuso e molto coraggio così come viene ben individuato da Sergio Segio quando affronta il tema della reticenza della sinistra a parlare dei propri errori. Non ci dobbiamo nascondere dietro l'angolo e non dobbiamo provare paura per il futuro. Non dobbiamo terrorizzarci né avere paura di ammettere certe superficialità ed errori del passato. Possiamo costruire una sinistra "vera" e contemporaneamente neutralizzare gli “avventuristi”. Discutiamo serenamente di questi temi proprio per evitare che ci siano oggi altri giovani che - per un malinteso senso di giustizia o per un incattivimento della repressione - facciano delle scelte suicide per loro e dannose per tutti. E' per questo che insisto sulla necessità del dibattito, proprio per scongiurare questi pericoli e per informare i giovani, che queste esperienze non hanno vissuto, di quale fu la tragedia di quegli anni.
Disarmiamoli, con le armi dell'intelligenza.

 

 

VILE PIOMBO
di Ivano Malcotti

Uomini di follia
con schegge di pensiero
per canne grigie puntate al cervello:
“Nessun fragore annienta abbastanza per la sordità della violenza”
Donne di follia
Per risposte imbavagliate dal vomito dell’odio:
“il sangue concima il silenzio, seppellisce il respiro sogno”
Vile Piombo


NO AL TERRORISMO
di menene 
Terrorismo "rosso", "comunisti combattenti", "rivoluzionari armati": quante invenzioni per descrivere (oggi e diversamente dal passato) una teppaglia di delinquenti, assassini senza regole, manovrati da chissà chi e che sono la semplice antitesi di ogni movimento che lotta per mutare lo stato di cose presente… Nemici, senza se e senza ma, da sempre, del mondo del lavoro, dell’antagonismo, della sinistra in genere, vengono valorizzati da una incosciente informazione e da politicanti senza scrupoli (sciacalli altrettanto pericolosi sulla via della destabilizzazione di ogni regola democratica e protagonisti di un distacco sempre più crescente tra popolo e Istituzioni) inventando che abbiano una ideologia, idee o, e non vi è niente di più ridicolo, progetti e scopi. Sono Comunisti Combattenti: e dove è documentato che i comunisti, in particolare in Italia, abbiano mai avuto a che fare con scelte vili e barbare? Mentre è vero esattamente il contrario ed è condizione imprescindibile per qualsiasi militante di sinistra (anche la più estrema) un lavoro incessante per l’emancipazione dei popoli, avere e far prendere coscienza di diritti e doveri, stare dalla parte degli oppressi e degli ultimi, realizzare un consapevole blocco di alleanze per edificare una società alternativa, inedita, creativa, partecipata: ovvero la democrazia di fondo. La storia d’Italia è costellata di tentativi meschini, cinici quanto infami ed ipocriti di insozzare la sua stessa dignità per, poi, cercare di trarne vantaggi esclusivi o di giustificare qualsiasi altra nefandezza che collima con repressione gratuita verso la parte sana della sua gente e il soffocamento della stessa convivenza civile e del pensare in libertà e del lottare per una necessaria trasformazione progressista: ieri era la strage di Milano, le bombe sui treni, l’eccidio di Brescia, i morti di Reggio Emilia e di Portella della Ginestra, gli attentati a giudici antimafia… oggi si replica con altrettanta ferocia e falsità cercando, ancora una volta, di intorpidire la realtà e di fermare, in qualunque modo, non i sicari che agiscono nelle tenebre ma chi a viso scoperto reclama il rispetto dei diritti, difende ogni conquista figlia delle battaglie di un popolo e chiede un futuro migliore. Il vecchio stenta a morire e nella sua agonia cerca di trascinare con sé ogni cosa come se si preferisse al nuovo (che pure stenta a nascere) la decomposizione delle classi in lotta sullo stesso terreno che le ha generate. No al terrorismo, comunque mascherato, no ai tentativi di eversione che vedono in alcuni rappresentanti “legali” dei veri e propri campioni, no a chi fomenta le guerre e arma fondamentalismi (religiosi, di mercato…) e poteri occulti (mafie, spacciatori di armi…), no all’organizzazione delle disuguaglianze che partorisce quotidianamente odio e disastri. Un’altra strada è possibile e per quanto originale è il proseguimento della lotta democratica ed antifascista che conosciamo come Resistenza e puoi incontrarla anche e semplicemente guardando una bandiera appesa ad un balcone con sopra scritto “pace”, in un’assemblea studentesca per difendere il diritto all’istruzione, in un sit-in per tutelare una legalità  sempre più umiliata, in un posto di lavoro per difenderlo o pensando ad un disoccupato, in un qualsiasi luogo d’aggregazione per una cultura e lo sport disinteressati e ovunque il popolo degli uomini e delle donne non si è rassegnato ed ancora insegue un sogno di liberazione al plurale.

Il nostro sangue e la cosa pubblica

di L
anfranco Caminiti  - http://www.lanfranco.org


La lettera con cui il giuslavorista Pietro Ichino il 27 febbraio si è rivolto dalle pagine del "Corriere della sera" ai terroristi, che - secondo le informative del ministero degli Interni - lo avrebbero messo
nel proprio mirino, è di inaudita potenza. Il dibattito che ne è seguito è stato invece, con qualche rara eccezione, fiacco e balbuziente, bruscamente troncato poi dalle pistolettate sul treno Roma-Arezzo. Meritava ben altro, quella lettera, e a maggior ragione dopo quell'episodio. Che cosa dice Ichino? Rivolto ai suoi potenziali assassini chiede di guardarlo negli occhi prima di premere il grilletto: chiede la sospensione della morte reciproca in nome di qualcos'altro, "qualcosa
davvero di nuovo". Ma se questo non accadrà - se entrambi i gesti, guardare e uccidere, saranno ancora meccanici - allora sarà comunque valsa la pena di morire. Chiede di essere rispettato nel momento estremo per quello che è, un uomo, un uomo "pubblico" certo, ma non una funzione, un trafiletto di giornale, una carica amministrativa, un'icona, un'appendice di un'analisi ideologica. Spera, Ichino, di costruire anche solo per un momento uno "spazio" tra i nemici, qualcosa
che si interponga tra loro e sia superiore a loro stessi: uno spazio pubblico, magari estremamente lacerato, ma comune. E' una lettera di qualità morale altissima, è una lettera di nobiltà altissima. Ci rimanda alle tragedie greche, ai latini, a Shakespeare. Ci rimanda alle grandi pagine della storia antica, alla democrazia di Atene, alla repubblica di Roma, alle parole che la grande esperienza umana della "cosa pubblica" ha rivolto ai propri nemici, quelli ottusi e quelli fieri, riscattando
spesso con la propria fierezza quella ottusità. Con frasi che sembrano strappate alla letteratura, ci rimanda al valore della "qualità pubblica" delle nostre vite e pure delle nostre morti.  La banalità delle considerazioni con cui ci si è sbarazzati della cosa - in nome dell'urgenza, in nome della praticità, in nome della "realtà" - a me sembra offensiva. La lotta al terrorismo - dicono - è fatta di
indagini, rilievi, pratiche, magistrati, arresti, dichiarazioni politiche di unanime o bipartisan cordoglio, condanna e soddisfazione: non c'è tempo per la "letteratura". Tutto vero. Ma di cosa, di cosa - in nome di dio - dovrebbe occuparsi la cosa pubblica, se non del nostro sangue, delle nostre morti e delle  nostre vite? Forse degli impianti di illuminazione, delle mense scolastiche, della pulizia dei marciapiedi, degli svaghi per gli anziani e delle giuste mercedi per il lavoro? E non dovrebbero essere invece queste preoccupazioni solo "amministrazione"? Non dovrebbe essere questo il pane quotidiano degli amministratori pubblici, dei buoni amministratori di qualunque parte essi siano ? Chi è bravo rimanga, chi non s'è dimostrato all'altezza se ne vada, chi ne approfitta sia spedito in galera. Che c'entrano gli impianti di illuminazione, le mense scolastiche, la pulizia dei marciapiedi, gli svaghi per gli anziani e le giuste mercedi per il lavoro con la cosa pubblica?
Non è proprio nel momento in cui la nostra vita è in pericolo, la nostra vita sociale, minacciata dai nemici interni e da quelli esterni – il terrorismo, la jihad, la guerra - che la tempra morale di una società e dei suoi responsabili si mostra tutt'intera? E quale tempra morale può esservi in una società che tratta come un cane rognoso un suo nemico, un suo assassino? Questo fa più forte una società? Il corpo del terrorista Galesi è abbandonato in una camera mortuaria, nessuno, nemmeno i parenti più stretti vanno a riscattarlo. Il suo odio, ostinato e cieco, rimane come sospeso. Terribilmente sospeso. E' questa la forza della condanna pubblica? E d'altra parte il dolore - inesauribile - dei familiari di chi viene ucciso dai terroristi diventa cosa pubblica solo con l'affetto
delle istituzioni, un funerale di stato, una medaglia, una carica, con la ritualità pubblica? Perché questa ritualità nulla riesce a assorbire - se non il dolore stesso - trasformandolo in una coscienza collettiva più forte e tenace? Da venticinque anni le nostre strade sono insanguinate dai terroristi,
da venticinque anni questo cancro ricorre, distruggendo vite, famiglie, lasciando marchi indelebili. Si è imparato a convivere con il terrorismo, facendone "questione di polizia" o agitandolo con volgarità  nelle beghe della lotta partitica. Adesso, proprio adesso che nel mondo esso si spande a macchia d'olio, proprio adesso che nel mondo l'odio diventa forma della lotta politica? E' possibile che tutto quello che questo paese - proprio perché la sua vita pubblica è stata lacerata,
irreversibilmente - ha da dire al mondo sia la diffusione di foto segnaletiche? Tutto quello che si sa dire al mondo dei nostri nemici è la guerra -  che sia preventiva, duratura o a bassa intensità?
La qualità propriamente "politica" della lettera di Ichino a me sembra altissima: forse trova orecchie sorde in una società politica impegnata in dio sa cos'altro. Quella lettera non è un "tentativo estremo" ma, al contrario, potrebbe essere un inizio. Forse, non è da loro, dai "nemici del nostro mondo" che ci si può aspettare altro, forse. Forse il loro odio ha raggiunto una irreversibilità - e anche una praticità - difficile da disinnescare. Ho sempre l'idea che occorra disinnescare le
anime prima che i corpi di un kamikaze.  Venticinque anni fa veniva rapito e ucciso Aldo Moro: in quella terribile tragedia, umana e politica, nessuno fu all'altezza della situazione, reagendo solo agli obblighi del proprio "ruolo": non lo furono i politici, non lo furono i brigatisti. Solo Moro provò a
scartare di lato, a tirarsi fuori da quella tenaglia, a inventare politica, a dire "qualcosa davvero di nuovo". Anche Moro aveva guardato in faccia i suoi carnefici, che gli buttarono addosso una coperta, prima di ucciderlo, non sostenendone lo sguardo. Lo sguardo politico di quell'esperienza. Quello "spazio comune" restò confinato nel bagagliaio di una Renault rossa.

Note sul Terrorismo
ISTITUTO DI STUDI COMUNISTI 
   
        KARL MARX – FRIEDRICH ENGELS                    
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Un contributo per una riflessione collettiva sulle forme della lotta politica..

La teoria politica del terrorismo, ossia della teoria e della pratica della soppressione di un soggetto fisico al fine di impedire l’attuazione di un progetto da parte della classe dominante o del gruppo dominante, sostanzialmente è riconducibile alla teoria del " regicidio". L’uccisione del re è la soluzione ai problemi, danni che quella determinata società sta vivendo. Soppresso lui e venendo un altro la classe dominante o il gruppo dominate o migliora o il singolo per timore agirà in maniera diversa, determinando così un miglioramento della situazione. In definitiva la teoria del regicidio ascrive ad un soggetto la causa di una determinata situazione, sopprimendo questo le cose riprenderanno il corso normale.  Questa teoria sorge sul terreno delle antiche società greco-romane e si mantiene per tutto il periodo feudale quando cioè la struttura delle società era sostanzialmente semplice, a differenza delle attuali, ed il potere si concentrava nelle mani di un solo soggetto. Nell’epoca feudale le teorie cristiane elaborano la giustezza del regicidio quando questo si poneva fuori della grazia divina, se questo governava in maniera tiranna. Per tutto il periodo di transizione tra il Quattrocento ed il Cinquecento questa pratica della soppressione del capo di una fazione è stata una pratica diffusa della lotta politica. La teoria politica sviluppatasi dalle antiche società schiaviste fino al Cinquecento comportava la teoria del regicidio, costituiva cioè una categoria portante della scienza della politica dell’epoca, come strumento di risoluzione di contraddizioni, contrasti e conflitti che attraversavano una società. Il modo di esprimersi dei contrasti e di conflitti sociali e le forme di difesa che il sistema aveva elaborato consentivano una certa validità ad una tale pratica e sostanziavano una tale categoria, facendo di questa una categoria della scienza della politica dell’epoca. Questa categoria aveva un senso in una società politica ove esisteva ancora la dipendenza personale del suddito al re, o al capo: della fazione, della classe dominante. Perde qualsiasi valore quando nella società civile si ha il superamento della dipendenza personale; non ne viene ad avere alcuno con l’ingresso dei movimenti di massa e l’organizzazione della società in partiti politici: siano essi i clubs della rivoluzione francese, o le associazioni di categoria, o l’associazionismo più vario, che caratterizza le società civili borghesi. La struttura organizzativa portante di tale teoria era la congiura, l’organizzazione in sette segrete di congiurati e tutta la tortuosità di tale organizzazione, con pratiche di iniziazione e fedeltà e nella maggior parte dei casi si è risolto in un rovescio.  Un esempio classico è l’uccisione di Caio Giulio Cesare da parte di Bruto e di congiurati romani, ritenendo Cesare responsabile della decadenza della Repubblica Romana. La soppressione di Cesare non ha arrestato neppure di un giorno il corso della storia di Roma ed il suo approdare all’impero. Gli oppositori dei congiurati li sconfissero a Filippi dando inizio all’impero romano con la casa dei Cesare Augusto. La pratica degli avvelenamenti ed uccisioni e congiure di cui è attraversato il Quattrocento e il Cinquecento non ha mai comportato una modifica profonda degli eventi, ma accordi tra i gruppi di potere e sempre regolamenti di conti all’interno del gruppo di potere. Non maggiore fortuna ha mai riscosso la pratica delle congiure e delle sette segrete, dei colpi di mano. L’esperienza della repubblica napoletana del 1799, di cui quest’anno si ricorda il bicentenario è lì a testimoniarlo: la pratica del colpo di mano da parte di un gruppo di congiurati, anche se legati all’esercito francese vincente, ha visto esaurire nel giro di alcuni giorni tutta la sua capacità di modificare gli eventi; il suo distacco dalla società civile ne ha comportato l’abbattimento. La pratica del regicidio nel corso del Risorgimento italiano riceve un nuovo impulso, attraverso la teoria e la pratica del mazzinianesimo con i suoi colpi di mano e le pratiche individualiste. Con l’effetto di facilitare l’ascesa delle teorie cavouriane nel movimento rivoluzionario italiano da una parte e registrare la totale influenza di questo movimento dal corso degli eventi storici. Un ulteriore alimento lo ha ricevuto all’inizio dell’Ottocento dalle teorie anarchiche, che vedevano nel re, nel capo dello Stato, il responsabile di tutte le miserie del popolo la cui soppressione costituiva la vendetta contro soprusi e brutalità del potere. Puntualmente queste azioni fallivano e quando hanno avuto un esito positivo, si è visto poi che vi era qualcuno che ne tirava le fila, come l’assassinio del 1914 a Sarajevo. Ma non ebbe effetto alcuno l’eccidio del re d’Italia di inizio secolo, se non l’accelerazione all’ascesa al regno del suo successore. Tali teorie esprimevano tutta l’ingenuità di leggere i processi sociali, il modo decisamente manicheo di leggere lo sviluppo storico. Esprimevano l’ostinazione a non voler imparare dai fatti e cioè che un gruppo di potere è l’espressione di una complessità e quel gruppo esprime quella complessità, per cui il sistema più generale, se ha prodotto quel quadro, ne avrà prodotto anche altri con gradi e livelli e sfaccettature diversi: è quindi in grado di sostituirlo. E quello stesso è ben servito da tutto un apparato teorico, ideologico, amministrativo, sociale, civile che costituisce poi l’ossatura vera della continuità, le casematte gramsciane,  e che ha mostrato poi sempre la capacità di saper assorbire il colpo e provvedervi immediatamente. Quanto più una società è complessa, quanto più al rapporto personale si sostituisce la capacità di egemonia della classe dominante, tanto più il sistema è in grado di assorbire qualsiasi azione della teoria del regicidio.