NO
GLOBAL
di Fidel Castro
A cosa servirebbero le nostre analisi se le idee non
fossero confrontate con altre assolutamente opposte sostenute con coraggio da
coloro che asseriscono un’altra concezione del mondo?
Io e gli altri, che come me non sono accademici, abbiamo
bisogno anche d’una dose di coraggio. Anche
se cerchiamo di essere il meglio informati possibile, a volte ci manca il tempo
per soddisfare i nostri desideri di conoscere il crescente numero di fatti e di
opinioni riferite al singolare processo storico che stiamo vivendo e cercare di
indovinare l’incerto avvenire che ci aspetta.
Non possiamo lamentarci.
Ci ha toccato il privilegio di vivere ciò che oserei definire come la più
straordinaria e decisiva epoca che abbia conosciuto la specie umana.
Così come il professore statunitense Edmund Phelps dell’Università di
Columbia, ogni volta che qualcuno abbordava una questione che si allontanava dal
tema economico che stava esponendo, rispondeva: “ciò non rientra nel mio
tema”, io devo anticiparmi a dire che l’economia non è oggi il mio tema.
Il mio tema è politico. Sebbene
non ci sia economia senza politica, né politica senza economia.
Tutto quanto è esistito fino ad oggi o esiste è stato
imposto all’umanità. Dalle leggi
naturali che l’hanno fatto progredire verso la categoria di essere pensante,
fino all’origine etnica e al colore della pelle; dalla condizione di gruppi
che vagavano per i boschi raccogliendo frutti e radici, cacciando o pescando,
fino alle società capitalistiche di consumo con cui oggi un gruppo di nazioni
ricche spogliano la Terra. Il
capitalismo sviluppato e
l’imperialismo moderno, la globalizzazione neoliberale, quali sistemi di
sfruttamento mondiale, sono stati imposti al mondo,
così come l’importante mancanza di principi di giustizia per secoli
reclamati da pensatori e filosofi per tutti gli esseri umani, la cui esistenza
sulla Terra è ancora molto lontana. Nemmeno
coloro che nel 1776 liberarono le 13 colonie inglese del Nordamerica proclamando
“quali evidenti verità” che tutti gli uomini nascevano uguali e a tutti il
Creatore conferiva diritti inalienabili come la vita, la libertà e il
conseguimento della felicità, furono capaci di liberare gli schiavi, per cui la
mostruosa istituzione si è prolungata per quasi un secolo, finché,
anacronistica e insostenibile, una crudele guerra l’ha sostituita con forme più
sottili e “moderne”, sebbene non molto meno crudeli, di sfruttamento e
discriminazione razziale. Allo
stesso modo di coloro che sotto la divisa di libertà, uguaglianza e fraternità
proclamate nel 1789 dalla Rivoluzione Francese non furono capaci di riconoscere
la libertà degli schiavi ad Haiti né l’indipendenza di questa ricca colonia
di oltremare. Inviarono invece 30
mila soldati per reprimerli, in un tentativo inutile di sottometterli un’altra
volta. Al di sopra dei desideri o
degli intenti degli uomini dell’Illustrazione, si iniziava invece una tappa
coloniale che durante secoli coinvolse l’Africa, l’Oceania e quasi tutta
l’Asia, compresi grandi paesi come l’Indonesia, l’India e la Cina. Le porte del Giappone al commercio furono aperte con cannonate, così
come oggi, anche dopo una guerra che è costata cinquanta milioni di morti in
nome della democrazia, dell’indipendenza e della libertà dei popoli, si
aprono con cannonate le porte per la WTO e l’Accordo Multilaterale di
Investimenti, per il controllo delle risorse finanziarie mondiali, la
privatizzazione di imprese delle nazioni in sviluppo, il monopolio di brevetti e
tecnologie, e la pretesa di esigere il pagamento di debiti di trilioni di
dollari impossibili da riscuotere dai creditori e impossibili da pagare dai
debitori, sempre più affamati e lontani dai livelli di vita raggiunti da quelle
che per secoli sono state le loro metropoli e hanno venduto i loro figli come
schiavi o li hanno sfruttati fino a morire, come hanno fatto con i nativi del
nostro emisfero… Ormai il mondo non può più essere spartito perché è
possessione quasi esclusiva di quella che alla fine di questa azzardata storia
si alza come l’unica superpotenza e il più potente impero che sia mai
esistito.
Basta osservare come
quasi tutte le capitali del mondo tremino davanti all’ultima parola o
all’ultima dichiarazione che si pronunci o stia per essere pronunciata a
Washington. Nonostante ci sia stata
l’illusione dell’esistenza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, essa
è stata praticamente sciolta dalla
decisione imperiale dopo il fatidico 11 settembre, appena 17 mesi fa, e il più
feroce unilateralismo ha occupato interamente il suo luogo. In questi giorni, mentre ascoltavo i nostri distinti relatori e
invitati addurre pungenti argomenti durante le discussioni suscitate da temi
quali la crisi economica mondiale e in particolare nell’America Latina, l’ALCA,
gli attuali ostacoli allo sviluppo dei paesi poveri, il ruolo delle politiche
sociali e i fatti reali, molte volte in dettaglio, e dall’analisi delle cause
di tante e tali tragedie, mentre ascoltavo che il PIL è aumentato o è
diminuito, che c’è stata una crescita sostenuta e poi si è interrotta, che
l’aumento delle esportazioni è l’unica via per ridurre il deficit,
equilibrare i bilanci, creare impieghi, ridurre il numero di poveri, promuovere
lo sviluppo, adempiere obbligazioni. o quando si affermava che le
privatizzazioni potevano essere molto utili, generare fiducia, attrarre
investimenti a qualsiasi costo, cercare competitività, ecc., non cessavo di
ammirare la persistenza con cui da mezzo secolo ci viene consigliato il modo di
uscire dal sottosviluppo e dalla povertà. Ho detto prima che ogni opinione è rispettabile.
Ma possono esserlo anche le molteplici questioni e domande che ci vengono
in mente. In quale mondo idilliaco
stiamo vivendo? Dove sono le minime condizioni di uguaglianza che rendano
possibili le soluzioni che ci insegnano nelle scuole di economia per lo sviluppo
dei paesi del Terzo Mondo? Esiste
forse veramente la libera concorrenza, la parità nella disponibilità di
risorse, il libero accesso alle tecnologie pertinenti, monopolizzate da quelli
che possiedono non solo il frutto del proprio talento ma anche di quello altrui,
sottratto ai paesi meno sviluppati, senza pagare per esso neanche un centesimo a
coloro che con le proprie magre risorse lo hanno formato?
In quali mani e sotto quale controllo sono le istituzioni finanziarie
internazionali e i grossi eccedenti di fondi?
Chi sono i proprietari delle grandi banche?
Dove, come e chi lavano e depositano le enormi somme derivate dalle
speculazioni finanziarie, dalle evasioni fiscali, dal commercio di droga a
grande scala e i frutti delle grandi malversazioni?
Dove sono i fondi di Mobutu e di altre decine di grandi malversatori di
beni pubblici, che con il beneplacito dei tutori occidentali consegnarono le
risorse e la sovranità dei propri paesi al capitale estero?
Come, di quali vie si sono serviti e dove sono le centinaia di miliardi
di dollari evasi dall’antica URSS e dalla Russia quando i consulenti, i
tecnici, gli specialisti e gli ideologi dell’Europa e degli Stati Uniti
l’hanno guidata verso il brillante e fortunato cammino del capitalismo, in cui
un stormo di avvoltoi usciti da ogni parte si è impadronito di grande parte
delle risorse naturali ed economiche del paese?
Chi renderà conto morale del fatto che oggi la popolazione russa
diminuisce e gli indici di salute - compresi quelli di mortalità infantile e
materna - sono peggiorati, e molti cittadini, tra cui anziani che lottarono
contro il fascismo, soffrono fame e povertà estrema che colpisce milioni di
persone? Chi distrugge le culture
nazionali di altri popoli attraverso il monopolio dei mass media e semina il
veleno del consumismo in ogni angolo della Terra?
Come giudicare la spesa di un milione di dollari in pubblicità
commerciale ogni anno, con la quali si potrebbero risolvere i principali
problemi d’istruzione, di sanità, di mancanza d’acqua potabile e di
abitazioni, di disoccupazione, di fame e denutrizione che colpisce miliardi di
persone al mondo? Si tratta
semplicemente di un problema economico e non politico ed etico?
La globalizzazione neoliberale costituisce la più svergognata
riconquista del Terzo mondo. L’ALCA
è l’annessione dell’America Latina agli Stati Uniti, un’unione spuria tra
parti disuguali dove il più potente inghiottirà i più deboli; Canada, Messico
e Brasile compresi.
Un immorale
accordo per il transito di capitali e merci, e la morte dei “barbari” che
cercano di varcare i limiti dell’impero passando dal mattatoio della frontiera
tra il Messico e gli Stati Uniti. Per
loro non esiste Legge di Aggiustamento che conceda d’immediato il diritto alla
residenza e all’impiego - ignorando le violazioni e i reati commessi - , e che
è stata ideata per destabilizzare Cuba come punizione per i cambiamenti
rivoluzionari avvenuti nella nostra Patria. Devo
esprimere con decisione e senza esitare, quale rivoluzionario e combattente che
crede veramente che un mondo migliore è possibile, il criterio che la
privatizzazione delle ricchezze e delle risorse naturali di un paese a cambio di
investimenti esteri costituisce un grande crimine, ed equivale alla consegna a
buon mercato, quasi gratis, dei mezzi di vita dei popoli del Terzo Mondo, che li
conduce a una nuova forma di colonizzazione più comoda ed egoista, nella quale
le spese di ordine pubblico e altre spese essenziali, che anticamente spettavano
alle metropoli, saranno adesso a carico dei nativi. Nelle relazioni con il capitale estero, Cuba
ricorre a forme di cooperazione mutuamente vantaggiose e ben calcolate, che non
alienino la sovranità né sottomettano al capitale e al potere straniero il
controllo delle ricchezze e della vita politica, economica e culturale del
paese. Come regola non
regaliamo assolutamente niente e, di fronte al dilemma di pagare un prezzo,
diamo a Cesare ciò che è di Cesare e al popolo ciò che è del popolo.
Nessuno s’inganni, siamo un paese socialista e continueremo ad essere
socialista. E malgrado i colossali
ostacoli, stiamo costruendo una nuova società più umana, con più esperienza, entusiasmo,
forza e sogni che mai. Circola il
dollaro e continua a circolare l’EURO, a queste monete potrebbero seguirne
altre per facilitare il turismo, ma circolano anche e fondamentalmente il peso
cubano e il peso cubano convertibile. La
situazione monetaria è sotto controllo. Il
valore della nostra moneta nazionale si è mantenuto stabile durante tutto
l’anno 2002, qualcosa d’insolito per altri paesi, e non c’è evasione di
valute. Tra gli immensi
mali che pesano su questo emisfero - com’è ben noto - c’è il gigantesco
debito estero, il cui pagamento sia di capitali che di interessi assorbe a volte
fino al 50% dei bilanci nazionali, a scapito di servizi vitali per qualunque
paese: la sanità, l’istruzione e la previdenza sociale. Gli enormi interessi che sono costretti a pagare i governi per i
depositi nelle banche, per difendersi precariamente dagli attacchi speculativi e
dalla fuga di capitali, rendono assolutamente impossibile ogni sviluppo con i
fondi propri di qualsiasi paese. Il libero cambio di monete imposto dal nuovo ordine economico,
costituisce uno strumento mortifero per le deboli economie dei paesi che
vogliono svilupparsi. E’ da molto
tempo che il denaro non è più un valore in sé, com’era nel passato, che
poteva essere custodito e sotterrato all’interno di una bottiglia come i pezzi
d’oro e d’argento. A Bretton Woods -
come sanno tutti gli economisti - gli Stati Uniti, che possedevano l’80% delle
riserve mondiali d’oro, hanno ricevuto il privilegio di svolgere il ruolo di
emittente della moneta di riserva mondiale.
Ma allora, per ogni banconota che emetteva, contraeva l’obbligo di
trasformarne il valore in oro? L’obbligo è stato adempiuto garantendo il
valore della banconota mediante la stabilità del prezzo dell’oro, utilizzando
il semplice procedimento, applicato dal governo del suddetto paese, di
acquistare o vendere il metallo in quantità sufficienti quando c’erano
eccedenti o deficit del medesimo sul mercato.
Questa formula è durata fino al 1970, anno in cui un presidente degli
Stati Uniti, Richard Nixon, dopo colossali spese militari e una guerra senza
tasse, adottò la decisione unilaterale di sospendere la conversione in oro
della banconota statunitense.
Nessuno poteva immaginare quale colossale speculazione si
sarebbe scatenata dopo con la compravendita di monete, che attualmente raggiunge
cifre siderali di affari che superano il trilione di dollari al giorno. Per la credibilità
acquisita, per l’abitudine ad usare il dollaro come strumento di cambio
accettato da tutti, per l’enorme potere economico del paese che lo emetteva e
l’assenza di un altro strumento, il dollaro ha continuato a svolgere il suo
ruolo. Di questo
privilegio non godevano né potevano godere i paesi latinomericani e altri del
Terzo Mondo. Le nostre monete sono
dei semplici pezzi di carta sul mercato internazionale. Il loro valore si limita alla quantità di riserve in valuta
estera, fondamentalmente dollari, di cui dispone il paese.
Nessuna moneta nazionale nei paese dell’America Latina e dei Caraibi è
né può essere stabile. Il loro
valore reale potrebbe oggi essere equivalente a 100, e in pochi mesi, settimane
o giorni, dipendendo da fattori esterni o interni, potrebbe essere il 50%, il
40% o il 10% del valore precedente. Quanto
è avvenuto in Argentina con l’idilliaco, utopico e folkloristico tentativo di
mantenere la parità tra il peso e il dollaro, com’era logico, è stato
disastroso; è successo altrettanto tra il real e il dollaro.
Paesi come l’Ecuador hanno finito per lanciare la propria moneta nella
pattumiera, adottando direttamente il dollaro come unica moneta di circolazione
interna. Nel Messico, come
norma, ogni sei anni il cambiamento di governo cagionava una forte svalutazione
che riduceva in modo considerevole il valore della sua moneta.
Il Brasile, a partire dall’ultimo attacco speculativo e dalla crisi del
1998, perse in appena otto settimane i quasi 40 miliardi di dollari ottenuti con
la privatizzazione di molte delle sue migliori imprese di produzione e di
servizi. L’evasione di capitali è una delle peggiori forme di salasso
economico che abbiano sofferto i paesi dell’America Latina negli ultimi
decenni. Non si tratta di rimesse
di guadagni ottenuti dagli investitori stranieri, non si tratta del saccheggio
che deriva dal pagamento di un debito estero molte volte contratto da governi
tirannici e corrotti che sprecarono e malversarono i fondi ricevuti, o per
assumere responsabilità derivate da debiti privati e a volte da furti o da
affari torbidi della banca privata, nemmeno dalle crescenti perdite cagionate
dal cosiddetto fenomeno dell’interscambio disuguale, si tratta di fondi creati
all’interno del paese, plusvalore strappato agli operai mal pagati, o risparmi
di lavoratori intellettuali e professionisti, o guadagni di piccole industrie,
negozi e servizi. Il
giogo asfissiante che lega i paesi latinoamericani all’evasione di capitali,
è il libero acquisto, senza restrizioni né requisiti, di valuta convertibile
con moneta nazionale, formula imposta come sacro principio neoliberale dalle
organizzazioni finanziarie internazionali.
Si calcola che le suddette evasioni in alcuni paesi come il Venezuela
hanno raggiunto, in un periodo di oltre 40 anni, i 250 miliardi di dollari
circa. Si aggiungano a questa cifra
i fondi nazionali che sono evasi dall’Argentina, dal Brasile, dal Messico e
dal resto dell’America Latina.
Gloria al bravo popolo venezuelano e al suo coraggioso leader, che hanno
appena stabilito il controllo sul cambio di monete con cui mettono fine nel loro
paese alla tragedia che ho riferito. Ricordo che nel 1959, quando ha trionfato la Rivoluzione cubana, il
debito estero dell’America Latina nel suo insieme era pari a 5 miliardi di
dollari soltanto. La sua
popolazione, pari a 214,4 milioni, è cresciuta fino a 543,4 milioni di abitanti
- di cui 224 milioni sono poveri e oltre 50 milioni analfabeti -, e il suo
debito fino a non meno di 800 miliardi dollari al 2003. Qual è la causa per cui questa regione dell’emisfero non ha
raggiunto nel dopoguerra uno sviluppo come quello del Canada, Nuova Zelanda o
Australia, che furono colonie europee all’epoca meno ricche e sviluppate di
noi? Non è forse dovuto al
dubbioso privilegio di essere il patio posteriore degli Stati Uniti?
O sarà perché siamo uno spregevole insieme di bianchi, negri, indios e
meticci, e quindi la negazione di ciò che hanno dimostrato le ricerche
scientifiche e gli studi sul genoma umano, cioè, che non esistono differenze
riguardanti la capacità intellettuale tra le diverse etnie che integrano la
specie umana? Qual è la colpa? Ho iniziato dicendo che tutto quanto è esistito ed esiste è stato
imposto all’umanità. Coincido
pienamente con Carlo Marx, il quale affermò che quando il sistema di produzione
e di distribuzione capitalista non esisterà più, e con esso scomparirà anche
lo sfruttamento dell’uomo dall’uomo, la società umana avrà superato la
preistoria della nostra specie. Questo pensiero può sembrare a molti troppo
semplice e distante. Marx studiò
il capitalismo nella sua prima tappa, che coincise con la nascita di una nuova
classe, chiamata a trasformare quella società, che inevitabilmente divenne
sfruttatrice e spietata, e prepararla per una nuova epoca e un mondo giusto.
Quando lui espose tali punti di vista, l’elettricità, il telefono, i
motori di combustione interna, le navi moderne di grande velocità e capacità
di carico, la chimica moderna, i prodotti sintetici, gli aerei che attraversano
l’Atlantico in poche ore con centinaia di passeggeri, la radio, la
televisione, i computer non esistevano neanche.
Sfuggì quindi alla spaventosa visione del modo irresponsabile in cui
l’uomo ha utilizzato la tecnica moderna per distruggere boschi, erodere la
terra, rendere desertici centinaia di milioni di ettari di suolo fertile,
sfruttare eccessivamente e inquinare i mari, annichilare specie vegetali e
animali, avvelenare l’acqua potabile e l’atmosfera. Marx,
che elaborò la sua teoria nelle condizioni dell’Inghilterra, il paese più
sviluppato dell’epoca, non parlò della necessità di una alleanza
operaio-contadina, né poté allora percepire il colossale problema che sarebbe
sopravvenuto dal mondo coloniale di allora, qualcosa che Lenin, il suo geniale
discepolo, seguendo la linea di pensiero del maestro nelle speciali circostanze
dell’Impero Russo, scoprì e approfondì dopo.
All’epoca di Marx, che osservava lo sviluppo accelerato
della rivoluzione industriale inglese e l’incipiente industrializzazione della
Germania e della Francia, nessuno sarebbe stato capace di prevedere, a meno che
non avesse assunto un atteggiamento da indovino, il che era ben lungi dal suo
carattere, il ruolo che avrebbero svolto gli Stati Uniti appena 60 anni dopo la
sua morte.
Mentre Malthus seminava il pessimismo, lui incoraggiava la
speranza. In quell’epoca la
geografia del pianeta e le leggi della biosfera - terre, boschi, mari e
atmosfera - erano poco conosciute. Molto
poco si sapeva dello spazio. Non
esisteva la teoria della relatività e non era stata scritta nemmeno una parola
sulla grande esplosione, il “big bang”.
Marx non poteva immaginare che il telefono cellulare avrebbe consentito
la comunicazione da un estremo all’altro del mondo alla velocità della luce,
che trilioni di dollari in azioni, monete, operazioni di protezione, prodotti
basici che non si sarebbero mossi dal loro sito, e altri titoli, ogni giorno
sarebbero passati da un titolare all’altro, e che il valore dei profitti
speculativi avrebbe superato il valore del plusvalore. Marx credeva soprattutto nello sviluppo delle forze produttive e
nelle possibilità infinite della scienza e del talento umano.
Concepì un mondo giusto e sviluppato come condizione sine
qua non dell’esistenza di un
sistema sociale in grado di produrre i beni necessari alla soddisfazione piena
dei bisogni materiali e spirituali della società.
Non concepiva la Rivoluzione in un unico paese, e vide tanto lontano che
fu capace di generare l’idea di un mondo globalizzato, così come l’ho
capito sempre, fraterno nella pace e nell’accesso al pieno godimento delle
ricchezze che fosse capace di creare. Non
poteva venirgli in mente l’idea di un mondo diviso tra poveri e ricchi.
“Proletari di tutti i paesi, unitevi”, proclamò, il che nel vero
mondo odierno potrebbe interpretarsi come un appello all’unione di tutti i
lavoratori manuali e intellettuali, i contadini e i poveri di tutti i paesi,
alla ricerca del cosiddetto “mondo migliore”. Per la prima volta nella storia umana, la nostra specie affronta un
rischio reale di estinzione. La
minacciano non soltanto la distruzione del suo habitat naturale, ma anche gravi
rischi politici, armi sempre più sofisticate di distruzione e sterminio massivo
e dottrine estremiste che potrebbero appoggiarsi su mortali e annichilanti
forze. La pace non vive i
suoi migliori giorni di gloria e speranza.
Una guerra esplode ancora. Non
sarà uno scontro tra forze equiparabili. Da
un lato c’è la superpotenza egemonica con tutta la schiacciante forza
militare e tecnologica, supportata da un alleato principale, un altro paese
nucleare e membro anche del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Dall’altro lato, un popolo che ha sofferto più di 10 anni di
bombardamenti e la perdita di centinaia di migliaia di vite, principalmente
bambini, a causa della fame e delle malattie, dopo una guerra disuguale
provocata dall’illegale occupazione irachena di Kuwait, che era uno stato
indipendente e riconosciuto dalla comunità internazionale.
La stragrande maggioranza dell’opinione pubblica mondiale rifiuta in
unanime opposizione la nuova guerra. In
primo luogo, non accetta la decisione unilaterale del governo degli Stati Uniti,
che ignora le norme internazionali e le facoltà delle Nazioni Unite, che sono
già poche. Si tratta di una guerra non necessaria, con pretesti
incredibili e non provati. Interamente
indebolita dalla guerra precedente, svoltasi nel 1991, con gli Stati Uniti, l’Irak
- che nel conflitto con l’Iran è stata appoggiata e armata non in piccola
misura dall’Occidente - manca assolutamente di capacità per frenare
l’armamento offensivo e difensivo di cui dispongono gli Stati Uniti - in grado
di annullare qualunque rischio di uso da parte dell’Irak di un’arma
nucleare, chimica o biologica qualora il suddetto paese ne avesse qualcuna, il
che è molto poco probabile -, e sarebbe inoltre un assurdo politico e un
suicidio dal punto di vista militare che cercasse di farlo. Il vero pericolo risiede nel fatto che tale azione bellica diventerà
una guerra patriottica per il popolo iracheno, e nessuno potrà anticipare la
sua reazione e capacità di resistenza. Quanto durerà la guerra, quanti morti e
quanta distruzione cagionerà, e quali saranno le conseguenze umane, politiche
ed economiche della stessa per ogni contendente?
Senza dubbio il mondo è, ora, sottoposto a colossali rischi economici in
mezzo alla profonda crisi che oggi affronta.
Non si potrà,inoltre, calcolare
ciò che accadrà con i prezzi del petrolio nelle attuali circostanze.
Il 29 gennaio scorso, quando ho parlato in occasione del
150º anniversario della nascita di José Martí, ho ricordato e analizzato vari
discorsi pronunciati dal Presidente degli Stati Uniti.
Questa volta ne citerò solo alcuni paragrafi che parlano da sé: “utilizzeremo
qualunque arma sarà necessaria”, “qualunque nazione, in qualunque luogo,
deve adesso prendere una decisione: o è con noi o è con il terrorismo”,
“questa è una lotta della civiltà”,
“le conquiste dei nostri tempi e la speranza di tutti i tempi dipendono
da noi”, “e sappiamo che Dio non è neutrale.”
[20 settembre 2001]. “La nostra sicurezza richiederà che trasformiamo la forza
militare che voi comanderete in una forza militare che dev’essere pronta ad
attaccare subito in qualsiasi angolo oscuro del mondo, [...] dobbiamo essere
pronti all’attacco preventivo” [...],
“dobbiamo scoprire cellule terroriste in 60 o più paesi”, “questo è un conflitto tra il bene e il male”, [discorso per i
cadetti in occasione del 200º anniversario dell’Accademia
di West Point, 1º giugno 2002.]. “Gli Stati Uniti chiederanno al Consiglio di
Sicurezza dell’ONU di riunirsi il 5 febbraio per analizzare i fatti relativi
alle sfide lanciate dall’Iraq al mondo”, “faremo la consultazione, ma che non ci siano dei malintesi.
Se Saddam Hussein non si disarma interamente, per la sicurezza del nostro
popolo e per la pace del mondo capeggeremo una coalizione per disarmarlo”, “e se ci costringono a fare la guerra, lotteremo con tutta la
potenza delle nostre Forze Armate” [dichiarazione al Congresso, 28 gennaio 2003].
Sebbene il Presidente Bush ha espresso la convinzione
secondo cui Dio non è neutrale, la cosa certa è che il Papa Giovanni Paolo II
e quasi tutti i capi religiosi del mondo sono contrari a questa guerra.
Chi interpreta in realtà la volontà del Signore? Due giorni fa
discutevamo in questa sede quale sarà il futuro dell’umanità.
Alcuni domandavano cosa potrà esserci dopo la globalizzazione, se
l’attuale ordine economico mondiale sarà lungo o breve, quanto durerà il
nuovo sistema imperiale. Cercherò,
malgrado il rischio, di improvvisare una risposta alle suddette domande, sulle
quali ho meditato più di una volta.
Parto da alcune intime convinzioni, in cui credo fermamente.
Gli uomini non fanno la storia? I
fattori soggettivi possono anticipare o ritardare i grandi avvenimenti anche per
periodi relativamente lunghi, ma non sono il fattore determinante, né possono
impedirne l’esito. Incidenti di
grande trascendenza, di origine umana o di origine naturale, una guerra
nucleare, la distruzione accelerata dell’ambiente e il cambiamento
relativamente improvviso del clima, possono alterare tutti i calcoli o
previsioni fatti dai più spiccati talenti della nostra specie.
Ambedue le cose si potrebbero ancora evitare.
I fattori oggettivi derivati dallo stesso sviluppo della società umana
sono quelli che determinano gli avvenimenti. L’economia non è una scienza naturale, non è né può essere
esatta; è una scienza sociale. Concetti
e idee, tendenze e leggi nate in un’epoca dentro un sistema economico e
sociale determinato, tendono a perdurare nel tempo anche quando tali sistemi
sono esauriti o scomparsi, il che non poche volte disturba la più corretta
interpretazione degli avvenimenti. L’enorme
diversità di opinioni e teorie che si sentono durante i convegni ed eventi
delle scienze sociali ne sono una prova. Serviranno di esempio anche gli errori che si commettono in
qualunque processo rivoluzionario profondo. Riguardo alla politica mi pare meglio dire che è una miscela di
scienza e di arte, più di arte che di scienza. Non deve dimenticarsi mai che sia in un caso che nel altro, la
responsabilità del compito spetta agli esseri umani, ed essi sono tanto diversi
e variabili quanto le particole negli abbinamenti della loro mappa genetica. Dalla storia si può trarre una lezione su cui
sono solito insistere. Solo dalle
grandi crisi sono nate le grandi conclusioni.
Ritengo che a questa regola sfuggono pochissime eccezioni. In questo momento c’è una grande crisi
generalizzata , sia economica che politica.
Forse la prima di carattere pienamente globale. L’ordine economico dominante non è sostenibile né sopportabile.
Non c’è soluzione possibile senza grandi e profondi cambiamenti.
Non è necessario citare troppi dati, che vengono ripetuti qui e in ogni
parte, per capire la realtà. Gli
esempi di crisi locali, regionali ed emisferiche che si ripetono con crescente
frequenza lo dimostrano. A esse non
possono sfuggire né paesi poveri né paesi ricchi. Molti partiti sono sprofondati nel più assoluto scredito.
I popoli diventano sempre più ingovernabili.
Gli organismi finanziari internazionali e le istituzioni affini come la
WTO o i gruppi di super ricchi come il G7 non trovano più un posto dove
riunirsi. Le organizzazioni e i movimenti sociali colpiti o
sensibilizzati dalla tragedia che vive il mondo si moltiplicano dappertutto.
Le tecnologie moderne hanno reso possibile la trasmissione di messaggi
senza ricorrere all’aiuto dei mezzi tradizionali di comunicazione. Nonostante
gli 800 milioni di analfabeti che esistono ancora, miliardi di persone in
qualche modo hanno accesso a determinate informazioni e soffrono ogni giorno la
disoccupazione, la povertà, la mancanza di terre, l’insalubrità,
l’insicurezza; la mancanza di scuole, di abitazioni, di condizioni minime
d’igiene, di autostima e di riconoscimento sociale.
La stessa pubblicità commerciale consumistica esacerba la consapevolezza
delle proprie carenze e del proprio scoramento. Non c’è modo di continuare l’inganno sistematico, non è
possibile uccidere tutti; sono
oltre 6 220 milioni gli abitanti del pianeta, che in un secolo soltanto si sono
quadruplicati. All’esercito di
malcontenti del Terzo Mondo si uniscono milioni di lavoratori istruiti, e uomini
e donne dei settori di professionisti e dei ceti medi dei paesi sviluppati, ogni
giorno più preoccupati per il loro destino e quello dei figli, vedendo
avvelenarsi l’aria, le acque, il suolo, le piante, e scomparire tutto quanto
di piacevole li circonda a causa dell’irresponsabilità e dell’anarchia
nell’uso delle risorse naturali. In
ogni parte l’esistenza dei cittadini diventa, sempre di più, una lotta per la
sopravvivenza. Che
l’umanità non ha altra alternativa che cambiare rotta è da non dubitare.
Come cambierà? Quali nuove forme di vita politica, economica e sociale si
avranno? Questa è la domanda di più
difficile risposta; essa mi conduce all’ultima idea che voglio esprimere.
In questo processo il fattore soggettivo dovrà svolgere il
ruolo più importante, e per ciò l’uomo dev’essere informato e incoraggiato
a pensare. Trasmettere
informazione, stimolare il dibattito, creare coscienza, sarà compito dei più
progrediti. Un esempio
incoraggiante relativo ai nuovi metodi di lotta è stato il Foro Sociale
Mondiale di Porto Alegre. Le
centomila persone riunite là per meditare e dibattere hanno mostrato
un’immagine delle forze emergenti e promotrici dei cambiamenti che
oggettivamente si impongono nel mondo. A Cuba questa lotta la chiamiamo Battaglia delle Idee.
In essa siamo fortemente impegnati da tre anni e due mesi.
Oltre cento programmi sociali sono nati da questa lotta, la maggioranza
mirati all’educazione, alla cultura generale e artistica, alla massificazione
della conoscenza, a rivoluzionare i sistemi d’istruzione scolastica, alla
divulgazione di concetti sui più svariati temi politici ed economici, al lavoro
sociale, a moltiplicare le possibilità di realizzare studi superiori, alla
ricerca a fondo dei problemi sociali più sensibili, delle cause e delle
soluzioni; al raggiungimento di una cultura generale integrale, senza la quale
il conseguimento di una laurea non basterebbe a evitare l’essere un analfabeta
funzionale.
I nostri piani sono ambiziosi, ma siamo proprio stimolati
dai risultati ottenuti. Malgrado
la grande crisi economica che affronta il mondo, il nostro paese è riuscito a
ridurre la disoccupazione al 3,3%; alla fine di quest’anno speriamo di ridurlo
a meno del 3%, così raggiungeremo la condizione di paese con pieno impiego. Forse la maggiore utilità dei nostri modesti
sforzi nella lotta per un mondo migliore sarà dimostrare quanto si può fare
con tanto poco se tutte le risorse umane e materiali della società si pongono
al servizio del popolo. Né
la natura dev’essere distrutta, né le putride e sprecone società di consumo
devono prevalere. C’è un campo
dove la produzione di ricchezze può essere infinita: il campo delle conoscenze,
della cultura e dell’arte in tutte le sue manifestazioni, compresa
l’accurata educazione etica, estetica e solidale, una vita spirituale piena,
socialmente, mentalmente e fisicamente sana; senza tutto ciò non si potrà mai
parlare di qualità di vita. C’è
forse qualcosa che ci impedisca il raggiungimento di tali obiettivi? Vogliamo dimostrare ciò che tutti noi
proclamiamo: che un mondo migliore è possibile! E’ giunta l’ora che l’umanità cominci a scrivere la propria
storia!
Grazie