Educare e valutare
di Tiziano Tussi

 

Da circa dieci anni la scuola è diventata terra di prova e di inventiva selvaggia per cercare di allontanare sempre più la scuola dalla vita reale. Anche la recente “riforma“ Moratti va in questo senso. Un bersaglio molto colpito è il crinale della valutazione. Nella vita si viene valutati, sempre. Le nostre azioni vengono pesate e calcolate con la bilancia della vita e della società in cui si vive, dato che contengono un sostrato significativo per la nostra vita collettiva. Ma ai nostri politici questo non piace, non piaceva. Troppo lontano da stilemi cattolici di fondo, di cui è pervasa la nostra italica cultura. Già con il primo governo Berlusconi il ministro della Pubblica istruzione D’Onofrio, che aveva qualche problema nell’uso del congiuntivo presente, aveva improvvisamente abolito gli esami di riparazione di settembre alle superiori. Ma, tralasciando il governo Dini,  il duo Berlinguer-De Mauro, parrebbe, da  altre sponde politiche  ha proseguito la demolizione del binomio educazione-valutazione. Berlinguer si è inventato i crediti scolastici che non sono proprio un sistema razionale di controllo delle capacità dello studente. In pratica viene rimandato nel tempo la comprensione di una parte di lavoro che si svolge in classe. Lo si potrà imparare dopo, anche se non si precisa quando? Gli insegnanti sempre pronto ad ubbidire hanno pensato a diverse modalità di organizzazione di questo non senso pur sapendo che ogni risoluzione pensata avrebbe fatto acqua da ogni parte la si considerasse. L’improvvisazione organizzata o dai collegi docenti oppure dal consiglio di classe è stata feconda: test, quiz, prove mirate, colloqui approntati ad ogni momento dell’anno scolastico successivo, che può anche dilatarsi da un mese ad un anno intero.

L’ex ministro De Mauro era arrivato anche a ipotizzare che la valutazione di ogni studente, nella scuola dell’obbligo, si sarebbe potuta sostanziare solo all’ultimo anno di tale percorso. Per tutti gli altri anni ci sarebbe stata solo una certificazione delle capacità acquisite. Per cui si poteva andare da “respira” a “è un genio”, tanto la valutazione si sarebbe avuta solo dopo sette anni. Grandioso. Ma anche l’attuale ministro Moratti per non essere da meno ha inventato una valutazione ogni due anni, a partire dalla prima elementare. Valutazione lunga che lascia irrisolti alcuni punti importanti e comunque perché ogni due anni, e non tre o addirittura una per ogni ciclo. Le ripetizioni, che sarebbero quindi più probabili anche in seconda elementare, riguarderebbero due anni o uno? Si pensa ad uno, ma allora che senso ha  poteva aspettare due anni? quindi pensare che lo studente ripetente avrebbe dovuto ricominciare da due anni prima, facendolo ripetere per solo un anno, porta ulteriore scompiglio nell’ordinamento scolastico con il risultato o di trasformare tale valutazione in un puro proforma, non volendo accanirsi sui giovani, oppure si trasformerà in una chiara persecuzione. Pensiamo cosa potrebbe volere dire una doppia bocciatura nel corso del curricolo scolastico classico: ben quattro anni di ripetenza culturale, ma solo due di bocciatura. Assurdo. Ma la vera domanda è:  perché tutta questa improvvisazione? O gli ultimi ministri sono strutturalmente incapaci di capire le dinamiche scolastiche, fra l’altro non ricordandosi più nemmeno della loro storia scolastica oppure hanno in mente un modello di scuola assolutamente funzionale alle necessità delle attuali forme di capitalismo. La formazione di giovani lavoratori non necessita più livelli di saper fare, scegliere e di saper cercare. Basta essere genericamente capaci di poche e basilari attività di comprensione per poi schiacciare tasti di macchine sempre più complesse e capaci che altri hanno progettato e costruito.

Il problema della valutazione si trova perciò strettamente intrecciato con quello dell’educazione.

Necessaria appare una richiesta di seria valutazione non punitiva, non meramente selettiva,  ma effettiva. È dalla riforma Gentile che la scuola italiana non viene investita da una riforma generale che sviluppi un chiaro significato di intervento rispetto agli obiettivi che si intendono perseguire. La riforma Moratti, o almeno i suoi tentativi, nasconde solo una fortissima volontà di depotenziare la carica rivoluzionaria che la cultura, sempre, porta con sé.