ARGOMENTI
a cura di Edoardo Nucci

 Anche il cielo è di Dio
di Giovanni Franzoni

Il debito estero dei Paesi più impoveriti è una spirale maledetta che non ha soluzione, oppure potrebbe esserci una via di uscita che permetta al Sud del mondo di rompere le catene con cui il Nord sempre più opulento lo
opprime? Questa domanda è cruciale per l'oggi e, soprattutto, per il domani del pianeta. Provare a dare una risposta giusta è dunque della massima importanza economica, geopolitica, etica. Non ho la pretesa di aver trovato la soluzione perfetta e definitiva ad un interrogativo che affatica molte menti; e, tuttavia, credo di aver
individuato un nodo, e proposto un'ipotesi di soluzione meritevole di essere approfondita. La ricerca di questo nodo, ed il tentativo di scioglierlo positivamente è comunque il filo conduttore del mio ultimo libro Anche il cielo è di Dio (Edup-Edizioni dell'Università Popolare, Roma 2000, p. 120, L. 16.000). Il titolo del libro richiama quello de La terra è di Dio, la lettera pastorale che scrissi nel 1973, quando ancora ero abate di san Paolo fuori le Mura, a Roma. Allora, in previsione del Giubileo del '75 indetto da Paolo VI, affermavo che uno dei mali da cui la "città eterna" doveva guarire era la speculazione edilizia, una piaga di cui aveva responsabilità anche l'istituzione ecclesiastica cattolica. Adesso, in occasione di un altro Giubileo, quello del 2000, indetto da Giovanni Paolo II, la mia riflessione è tornata sull'argomento, ma ampliandolo verso nuove
prospettive: non solo la terra, il suolo, ha di per sé una destinazione universale, in modo che tutti possano vivere in dignità e libertà, ma anche lo spazio ha questa destinazione. Esso è di tutti, e per tutti. Da secoli, ormai, nessuno nega, in teoria, il principio della "destinazione universale dei beni del pianeta"; ad una condizione, però, che rimanga in vigore anche il principio della "res nullius est primi occupantis", la cosa di nessuno è di pertinenza del primo che la occupa. Esattamente in base a questo principio spagnoli e portoghesi, e poi inglesi e francesi, occuparono le due Americhe. Secondo loro, infatti, le terre del Continente "scoperto" non erano di nessuno, in quanto i nativi non avevano diritti. I diritti di conquista e di possesso li avevano solo i
colonizzatori. Adesso nessuno oserebbe fare affermazioni esplicite così blasfeme. I potenti sono diventati più abili e più raffinati. Ma è cambiata la sostanza? Ancor oggi i beni del creato fuori da ogni proprietà e sovranità (risorse minerarie dei fondi oceanici o della luna, Antartide, orbite satellitari per le comunicazioni) sono spesso usati e sfruttati dal primo che, forte della sua potenza economica e delle sue conoscenze tecniche, li occupa o li conquista. I Paesi (o le Multinazionali) che si dedicano a queste imprese sostengono di avere il diritto di ricavare guadagni da imprese che esigono grandi investimenti di mezzi, capitali, persone. Ma se i beni sfruttati sono di pertinenza dell'intera umanità, è ovvio che coloro che li commercializzano sono in debito verso l'intera umanità. Come, dunque, pagare questo debito?      Qui si inserisce la mia proposta, facendo mio anche il pensiero di scienziati statunitensi, inascoltati però dai politici del loro Paese: creare un "Fondo per la perequazione del debito e per lo sviluppo" con i proventi dei canoni di concessione dei beni di pertinenza comune. In poche parole: un Paese dell'Africa o dell'America Latina che non ha alcuna possibilità di sfruttare, ad esempio, le orbite geostazionarie, va pagato in anticipo, per la sua parte, da quei Paesi o da quelle Multinazionali che queste orbite sfruttano.  Si dice, spesso, che i Paesi del Terzo mondo sono in debito "morale" con il Primo mondo, il nostro: e questo tenendo conto delle immense rapine di materie prime che i Paesi europei e nordamericani hanno compiuto nel Sud negli ultimi cinque secoli. Questo debito "morale" c'è davvero, e non dobbiamo mai dimenticarlo. Ma, prima di questo e oltre questo, il Nord ha verso il Sud un debito "reale", cioè economicamente e finanziariamente valutabile. Esiste insomma "il credito dei poveri": quest'affermazione, che è anche il sottotitolo del mio libro, riassume in positivo il senso del mio pensiero: non solo per doveri di carità, ma per obblighi di giustizia il Nord deve pagare il debito che esso ha contratto con il Sud. Il "Fondo" indicato dovrebbe essere lo strumento attraverso cui tutto ciò avviene, ed ai poveri viene rimborsato il loro "credito". Questo "credito" non può essere soddisfatto "domani", ma "ora, subito", perché "oggi" i Paesi impoveriti vivono situazioni spaventose, e non possono oltre aspettare, pena la morte.
Se le mie premesse sono giuste - ma auspico naturalmente che su di esse si apra un vivace dibattito - la conclusione è inevitabile: va radicalmente ripensato il problema del "debito estero" che molti Paesi del
Sud hanno contratto con il Nord (soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, quando il Sud chiedeva al Nord, a condizioni che apparivano vantaggiose, i "petrodollari"). Non solo perché il solo
pagamento degli interessi sul debito strozza i Paesi del Sud, costretti senza fine a indebitarsi per. pagare i debiti; ma soprattutto perché va rovesciata l'ottica di tutto il discorso, cominciando a mettere in prima
fila il "credito" reale (non simbolico!) che il Sud ha verso il Nord. Insomma, se "anche il cielo è di Dio", esso non può essere per nessuno teatro di accaparramento a spese dei poveri, ma piuttosto il "campo" ove si pareggiano i conti tra Nord e Sud, e tutti insieme, davvero eguali, si costruisce un'umanità giusta.