OCCUPATI, DISOCCUPATI, ATIPICI
… SFRUTTATI ED OPPRESSI  

Ogni tanto l’ISTAST ci rincuora. Viviamo in un Paese in cui l’occupazione è aumentata del 2,8% ovvero circa seicentomila nuovi soggetti sono andati ad ingrossare le fila della forza-lavoro. C’è di più: da quando l’Ulivo ci governa sono oltre il milione i nuovi “assunti” e la disoccupazione è scesa sotto la soglia del 10%. In realtà centinaia di migliaia di occupati hanno contratti atipici e lavoro a termine o a tempo parziale. Al Sud il tasso di disoccupazione è oltre il 20% e alta è la percentuale dei nuovi migranti mentre le ragazze senza lavoro sono oltre il 63% contro il 13% circa di quelle del Nord. Restano quindi spaventosamente enormi gli squilibri territoriali, tra sessi e altrettanto priva di futuro è la certezza in un lavoro concreto e giustamente retribuito. Si tratta di un’occupazione, spesso, collegata ai servizi e in una fase di bassa crescita economica e produttiva in cui non c’è vera ripresa e, quindi, trionfano lavoro in affitto, part-time, precarietà. E’ l’affermazione della flessibilità e della distribuzione quantitativa di lavoro tra più lavoratori che di fatto lavorano meno e guadagnano ancora meno. Nel frattempo esplode lavoro nero e sommerso: un occupato è e rimane una variabile dipendente dai movimenti del mercato e avanza una logica individualista del rapporto che valorizza arbitri padronali e nuovo sfruttamento e il sogno confindustriale di un regime di regole speciali per il Mezzogiorno da unire alla continua ricerca di “paradisi salariali e fiscali”.  In sintesi possiamo affermare che ad una parziale crescita del lavoro non ha corrisposto una crescita della massa salariale e una qualità del lavoro, meno che mai il tentativo di percorrere la strada di “un nuovo modello di sviluppo”. L’articolo 18 dello statuto dei lavoratori è stato prepotentemente violato (del resto non c’è nessuna novità viste le continue e arroganti violazioni della stessa Carta Costituzionale ormai totalmente ignorata). Inoltre, non solo si sono indebolite le lotte per i diritti del lavoro e la contestazione è espressa in termini di “egoismi” corporativi ma si è abbandonata quasi definitivamente la giusta battaglia per le 35 ore a parità di salario che meriterebbe più di altre questioni “scioperi della fame” almeno per provare quello che migliaia di famiglie già provano o proveranno… La disoccupazione è cresciuta nelle grandi imprese industriali e si è stabilizzata nell’agricoltura. Il lavoro non è più diviso tra quello dipendente e quello indipendente ma ha una terza area (non protetta di fatto) che chiamiamo del lavoro atipico che rischia di diventare la principale e che ha rilanciato lavoro interinale e apprendistato a tempo determinato all’insegna della flessibilità e della precarietà appunto. I salari italiani restano i più bassi d’Europa insieme al tasso d’investimento, all’insicurezza sociale e alle incontabili “morti bianche”. La nostra, dunque, è la società non degli aumenti ma delle sottrazioni: tempo, salario, diritti e la stessa vita… Del resto, mentre avanziamo proposte per resistere, sappiamo che lottare per il socialismo (rivalutando la funzione storica del movimento dei lavoratori e una rinnovata esigenza di realizzare alleanze storiche, necessarie ed organiche) è e rimane un dovere. Il capitalismo ci offre la stessa ciotola di riso distribuendo semplicemente più “bastoncini”… accontentarsi non è da riformisti ma indubbiamente da cinici.