DP INCONTRA IL GIORNALISTA
ALDO GARZIA
a cura di Ines Venturi

 

Gli Stati Uniti hanno messo in moto la loro macchina da guerra per   rispondere all’attentato dello scorso 11 settembre contro le Torri gemelle di New York. Cosa prevedi?

Mentre parliamo, tutto è pronto per un intervento militare degli Stati  Uniti. L’Afghanistan è nel mirino con l’obiettivo di ottenere la resa dello sceicco saudita Bin Laden, ritenuto da Washington il cervello del terribile attentato di New York. La macchina da guerra è pronta a scattare. Lo schieramento internazionale pro Stati Uniti è ampio: va dalla Nato alla Russia alla Cina al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Il che è positivo, perché non lascia solo a Washington la decisione degli strumenti e della strategia. Ma quelle forze in campo condizioneranno davvero le azioni di guerra degli Stati Uniti?

Gli effetti dell’intervento armato in Afghanistan sono imprevedibili, contemplando – a differenza di quanto accaduto nelle guerre di Kosovo e Golfo – l’appoggio delle truppe di terra ai bombardamenti dell’aviazione. Chi conosce la storia dell’Afghanistan e la sua conformazione geologica, sa che una guerra può durare per molto tempo senza la garanzia di essere vinta e con danni mostruosi per la popolazione civile. Lo hanno imparato gli inglesi e i sovietici nel secolo scorso.

Il conflitto contro il terrorismo internazionale – ha detto George W. Bush – sarà lungo, anzi lunghissimo. Le ripercussioni su economia internazionale, stili di vita, libertà di movimento, sicurezza individuale e privacy sono anch’esse imprevedibili. Mass media e leader internazionali ci hanno avvertito che la vita di ognuno di noi non sarà più la stessa. Gli effetti pratici di queste dichiarazioni li vedremo nei prossimi mesi.

Che pensi dell’atto terroristico contro uno dei maggiori simboli del potere economico degli Stati Uniti?

Ciò che è accaduto l’11 settembre 2001 è di dimensioni tali da far apparire ogni aggettivo inadeguato. Difficile prendere le misure al terrorismo internazionale, arduo ricostruire le dinamiche che hanno reso possibile l’assalto alle Torri gemelle, indecifrabili le ripercussioni di quanto accaduto nell’immaginario americano e nei valori simbolici mondiali. Più di 5 mila morti in un colpo solo sono un bilancio tremendo.

Io condanno in modo inflessibile ogni forma di terrorismo. Perché, oltre a non considerare la vita umana individuale e a non distinguere tra forme di lotta diverse, riduce gli spazi di azione della politica. Costringe ognuno a ridurre i propri ragionamenti e le proprie posizioni. E’ avvenuto così in Italia negli anni Settanta, quando un vasto movimento di massa ha dovuto zittirsi e dividersi di fronte alla spirale del terrorismo. Anche nelle prossime settimane, potremmo trovarci di fronte alla “militarizzazione della politica”. Le guerre di liberazione nazionale non hanno niente a che fare con il terrorismo.

Per la dimensione di quanto accaduto a New York e per quello che ne seguirà, gli spazi della politica come governo dei conflitti e critica all’ordine esistente potrebbero chiudersi a tempo indefinito. Ne è consapevole anche il movimento no-global, quello delle insanguinate giornate di luglio a Genova, dove polizia e esercito hanno approfittato delle “tute nere” per scatenare la repressione. Se prevarrà lo stato di guerra internazionale, come si farà a operare distinguo? Per esempio, sui modelli sociali e istituzionali di Europa e Stati Uniti. Sui princìpi democratici, sulle regole di relazione tra maggioranza e opposizione in Italia.

Quando la politica indossa l’elmetto, la guerra – come insegna il generale Karl von Clausewitz – dovrebbe essere la prosecuzione della stessa politica con altri mezzi. Ma è peggio di così. La politica viene semplicemente spazzata via. Ritorna solo quando il silenzio delle armi permette di analizzare i rapporti di forza che quelle stesse armi hanno lasciato sul campo di battaglia. Come sottrarsi alla militarizzazione della politica, o almeno ridurne le ricadute sulla dialettica democratica e dei movimenti sociali, è inedito rovello tra inediti scenari. Guerra e terrorismo rendono impotente la politica.

Quali sono le origini del terrorismo di matrice integralista che si rifà all’Islam?

Come sostengono gli analisti più avvertiti, occorre evitare di identificare il terrorismo con l’Islam. Se la guerra americana dovesse colpire alla cieca il mondo islamico, la deflagrazione avrà dimensioni da terza guerra mondiale. L’integralismo colpisce l’Occidente in quanto luogo di accumulo di ricchezze e esalta la differenza del mondo musulmano rispetto ai nostri stili e costumi di vita. Ecco perché la risposta deve essere innanzitutto politica.

In questo contesto, non si può non analizzare il fallimento del processo progressista di decolonizzazione. Negli anni Sessanta e Settanta le leadership dei paesi arabi (e in generale del Terzo mondo) erano formate da gruppi che avevano vissuto in Europa, assimilando culture progressiste e di sinistra. Ma quei gruppi sono stati abbandonati al loro destino, quando hanno dovuto costruire le loro società. Non avendo altre culture di riferimento, l’integralismo è apparsa la forma politica e culturale più alternativa all’Occidente. La storia post-coloniale deve essere ancora scritta. Le nuove forme del capitalismo non hanno risolto la contraddizione Nord-Sud.

Il primo segnale era venuto dalla rivoluzione khomeynista in Iran. Anche a sinistra, abbiamo in quel momento esaltato la natura nazionale di quella rivoluzione contro lo Scià, sottovalutando l’identità culturale e religiosa che si sarebbe trasformata in potere politico. Poi è venuta la tragedia dell’Algeria, dove l’integralismo miete vittime da almeno un decennio. Poi ancora l’integralismo si è diffuso in Egitto, Sudan, Afghanistan e in altri paesi mediorientali.

Dopo la fine del bipolarismo Usa-Urss, è parso ancora più evidente che non c’è una proposta politica per un nuovo ordine mondiale che contempli l’inserimento di Medio Oriente, Africa, America Latina. Il Terzo mondo vive una situazione più esplosiva e ineguale di dieci anni fa. Non sono nostalgico del Muro di Berlino, mi limito a segnalare la realtà della situazione internazionale. Il mondo a una sola potenza, quella americana, fa venire i brividi.

Cosa può accadere nel Terzo mondo in mancanza di una proposta di nuovo ordine mondiale?

La situazione è disperata. L’Africa, con l’eccezione di alcuni paesi del Medio Oriente, è già fuori della storia contemporanea. Ormai, ha un gap economico con il resto del mondo che sarà impossibile recuperare. In America Latina la ricetta liberista ha fallito nel decennio Novanta e ora sono in crisi paesi-giganti come l’Argentina e piccoli paesi come l’Ecuador. Sono prevedibili migrazioni di massa.

Gli Stati Uniti hanno il progetto di dollarizzare tutta l’America Latina, con l’eccezione di Cuba su cui fanno gravare un anacronistico embargo commerciale. Ma fanno fatica a praticare il loro dominio economico in quell’area, perché mancano le condizioni economiche di base. Africa e America Latina sono polveriere di potenziali conflitti locali. E non bisogna dimenticare che India e Pakistan hanno la bomba atomica come il Brasile, mentre altri paesi – forse anche l’Afghanistan dei talebani – possiedono armi chimiche e batteriologiche. Basterebbe questo a convincere che la politica di pace, dialogo e rispetto è una buona alternativa al fragore delle armi.

Che può fare la sinistra, anche quella italiana, in questo contesto?

La sinistra deve recuperare la sua dimensione internazionale e la sua capacità di pensare su scala mondiale. In Italia, per esempio, soprattutto dopo la fine del PCI, abbiamo perso questa positiva tradizione. Il mondo contemporaneo dei poteri sovranazionali e del mercato globale obbliga a rifare i conti con i grandi processi mondiali.

Il mondo che si pensava pacificato dopo il 1989, anno della fine della “guerra fredda”, si prepara ad un’ennesima “guerra calda”. Il nemico, questa volta, non è un singolo paese o un singolo “dittatore” (come nei casi di Saddam Hussein e Slobodan Milosevic). Il terrorismo, per definizione, può colpire in ogni momento e in ogni luogo, per giunta con le tecnologie sofisticate dell’epoca moderna. Per sconfiggerlo, occorre agire sul suo retroterra politico, oltre che su mandanti e esecutori.

Nel caso specifico del fondamentalismo islamico, bisogna rifuggire da guerre di religione (Cristianità occidentale contro Islam musulmano) e da guerre di civiltà (Occidente sviluppato contro Sud sottosviluppato). Occorre, innanzitutto, dare soluzione alla “questione palestinese” e a quella israeliana (due Stati di pari dignità, con pari sicurezza), come primo passo di un ordine mondiale più egualitario che non può tollerare guerre cosiddette “locali”. Il premier israeliano Sharon punta invece a cogliere la congiuntura di guerra per decapitare politicamente Arafat. Questo, invece, è il momento di aiutare la politica di Arafat. Una Palestina senza guida politica farebbe solo il gioco della destra israeliana.

Per concludere, accenno a un tema teorico su cui varrebbe la pena avviare la ricerca. La politica di “autodeterminazione dei popoli” – antica idea-forza della sinistra – ha ancora un valore nel mondo globalizzato? I regimi religiosi, reazionari e integralisti, con i loro valori oscurantisti (penso alla condizione femminile), non chiedono di rispondere a questa domanda? E’ un interrogativo, me ne rendo conto, anch’esso drammatico.