FORUM GIOVANI
Che fine faranno i
lavoratori dell'AVIOINTERIORS di Latina?
Questo punto di domanda così brutale vuole, ahi noi, portare alla luce un
problema occupazionale che si sta profilando molto grave nella provincia Pontina
e non solo.
Infatti all'AVIOINTERIORS è legata la sopravvivenza di molte famiglie
(circa 500) di Latina, dei paesi limitrofi, della capitale, della Ciociaria e
del napoletano. Purtroppo i sindacati confederali non stanno tutelando
adeguatamente (ma guarda un po'...) i lavoratori né tanto meno li informano
della grave situazione a cui sta andando incontro l'azienda che avvierà alla
mobilità chissà quanti dipendenti prendendo al balzo, badate bene, come
scusante, la crisi che sta colpendo in particolare il settore aeronautico dopo
la tragedia dell'11 settembre. In realtà le incapacità gestionali, di
programmazione ecc., dell'azienda stanno mandando allo sfascio una delle realtà
industriali più “sicure” del nostro territorio. Per non parlare poi delle
note vicende giudiziarie di cui è indagata l'azienda stessa!
Ci (e vi) chiediamo se non è ( non usiamo il condizionale apposta ) più giusto
tenere in organico al loro posto lavoratori di vecchia data e con esperienza e
più diritti e trovare, al tempo stesso opportunità per non "mandare a
casa" lavoratori con contratti a tempo determinato e in affitto (
condizioni che comunque non condividiamo essendo per il pieno diritto al lavoro
nel rispetto delle conquiste sin qui acquisite e che si cercano di demolire) o
addirittura in ... prestito da altre aziende (leggi MECCANO HOLDING che ha
rilevato lo stabilimento ex Good Year di Cisterna di Latina con non pochi
miliardi dello Stato) e non solo per qualche giorno, come è già accaduto due
anni or sono per aggirare “all'italiana” leggi vigenti per mandare in
mobilità una sessantina di “vecchi” lavoratori.
A tal proposito non ci conforta affatto il modo in cui i sindacati stanno
gestendo il licenziamento di quattro lavoratori (avvenuto il 22 ottobre)
cioè spingendo queste prime vittime del disegno Berlusconi- Maroni ad
accontentarsi accettando la “proposta” di mobilità con incentivo da parte
dell'azienda e a non intentare la causa legale perché, a quanto dicono, non è
poi tanto certo il futuro dell'AVIO che non ha praticamente commesse per il
prossimo anno.
Noi rendiamo note queste trame sotterranee non per gettare nell'incertezza e
nello sconforto qualcuno
ma per far conoscere ,soprattutto ai diretti interessati, non solo che il
loro futuro è veramente a rischio e che si troveranno nella stessa condizione
dei loro quattro colleghi i quali ,improvvisamente e senza alcun motivo, si sono
ritrovati con una strada impervia da dover percorrere ma anche per cercare,
usando una metafora purtroppo attualissima, di fare di tutto per disinnescare
una bomba piuttosto che dover piangere poi tutte le distruzioni che si porta
dietro soprattutto palesandola a chi non sa che è
proprio lì vicino ai loro/nostri piedi.
Forum Giovani
di Latina e Sermoneta
Quando
nacque, il 23 agosto del 2001, Rosse bandiere era un piccolo nucleo di giovani
comunisti e di sinistra che non volevano disperdere la loro unione politica
precedentemente esercitata nel Partito dei Comunisti Italiani. Le nostre forze
materiali - e di conseguenza anche quelle economiche e di produzione di
iniziative - sono ancora molto limitate, ma vi sono in Rosse Bandiere elementi
sufficienti per ben sperare che questa struttura politica possa trovare una sua
concretizzazione in sempre più vasti settori sociali, e in più vaste e
diversificate aree della provincia di Savona e del Paese.
Sin
dall'inizio abbiamo detto e specificato più volte che non siamo un partito
politico, né un movimento politico, ma un circolo culturale comunista che vuole
avere un ruolo politico e culturale nella sinistra savonese e non.
L'attribuzione
di questo ruolo la possiamo avere solo con lo svolgimento di determinate
iniziative volte ad attuare il nostro progetto politico: la diffusione di quella
"coscienza critica" verso il metodo di produzione capitalistico, che
consenta a sempre più vasti strati di persone di comprendere appieno i
meccanismi del mercato e le sue contraddizioni, nonché le sue quotidiane
produzioni di barbarie ed ingiustizie.
Il
progetto politico di Rosse bandiere è dunque quello di essere un soggetto
politico culturale altamente comprensibile per chiunque ci incontri, per
chiunque venga in contatto con noi.
Abbiamo
anche ripetuto che non siamo di quella categoria di circoli culturali
"d'elite", che si pongono su posizioni privilegiate guardando
dall'alto in basso tutto quello che li circonda.
Siamo
tra le persone e con le persone e vogliamo stare con i giovani. Sulla base di
questi princìpi, sanciti dal nostro Statuto, abbiamo promosso iniziative in
favore della pace e contro l'assurda guerra che si sta combattendo in
Afghanistan, nonché, da ultima, la nostra partecipazione allo sciopero generale
studentesco contro i provvedimenti del ministro Moratti sulla scuola pubblica.
Un
circolo culturale comunista, dunque, che è aperto anche a culture che comuniste
non sono, ma che “parlano” di libertà individuale e collettiva,
dell'eguaglianza sociale e della fraternità universale. La triade
espressionistica della Rivoluzione Francese è per noi elemento di riscoperta
dei valori fondamentali per dare ad ogni essere umano una concreta possibilità
di vita. Una vita che sia degna di essere vissuta.
Per
questo respingiamo e denunciamo l'uso immorale che della parola libertà si
viene facendo da parte del Polo berlusconiano e di tante altre forze politiche
che sottintendono ben altri intenti: dall'intolleranza razziale a quella ideale
e scientifica. Dalla restrizione degli spazi democratici attuata da questo
governo si evince chiaramente, come anche i poteri dello Stato possano entrare
in conflitto con loro stessi a causa di tentate sovrapposizioni, insultando e
calpestando così il più elementare dei diritti dello Stato democratico: la
separazione dei poteri e la loro indipendenza reciproca.
E'
di poco tempo fa la dichiarazione del sottosegretario Taormina, di Forza Italia,
secondo cui sarebbe opportuno istituire una Commissione bicamerale che controlli
l'azione giudiziaria. Il potere legislativo verrebbe così a controllare il
potere giudiziario. Questo, a detta dell'avvocato Taormina, permetterebbe una
tutela democratica della Magistratura.
Secondo
noi questo non farebbe altro se non favorire ancora una volta il signor
Berlusconi, Presidente del Consiglio, e le sue alterne e numerose vicende con la
Magistratura dello Stato. Come interpretare, altrimenti, le recenti disposizioni
di legge approvate dal Parlamento – nonostante l’opposizione della sinistra
- in merito alle rogatorie internazionali? Oppure come non ricordare l'uso (o
sarebbe meglio dire il "non uso") delle forze di polizia nel corso
delle giornate del G8 a discapito dei cortei pacifici e l'indisturbato
“devastare” del black block oppure i metodi contrari alla Legge esercitati
dalle Forze dell'Ordine nella caserma di Bolzaneto?
In
realtà quel comportamento era già la preparazione di un più ampio disegno
governativo inerente l'uso indiscriminato della forza verso chiunque porti in
piazza il dissenso e verso chiunque si trovi in una posizione di precarietà
rispetto alle vigenti norme sulla permanenza sul nostro territorio, essendo non
cittadino dell'Unione europea.
Per
ultime le dichiarazioni del vicepremier, Gianfranco Fini, sulla liquidazione
dell'opera di prevenzione attuata dai Sert verso le tossicodipendenze e
sull'applicazione di uno sfrenato proibizionismo che favorirà il foraggiare le
tasche dei mafiosi importatori di droghe pesanti. La fine dei Sert significa la
chiusura di un servizio ambulatoriale (e non solo) di aiuto per tutti quei
“poveri ragazzi” che cadono nel labirinto della droga e che possono uscirne
anche senza i metodi di feroci comunità privatistiche come quella di Muccioli,
a cui il governo è politicamente molto vicino, e viceversa.
Così
l'attacco alle strutture pubbliche va avanti, anche con la vicenda che ha
coinvolto la Rai Tv e il ministro Gasparri circa Raiway e sulla
“privatizzazione-gestione” del servizio informativo accentrato in poche
mani…
L'assenso
alla guerra di questo Parlamento, di questo governo, è un esplicito tradimento
della Costituzione della Repubblica. Ancora una volta, come ai tempi della
guerra del Kosovo, l'Italia accetta la guerra come metodo per la risoluzione di
controversie internazionali, e i ministri del governo si impegnano addirittura -
in quanto l'Italia membro della Nato - a piegarsi alla volontà del ripescato
articolo 5 dello Statuto dell'Alleanza atlantica. Amico aiuta amico. E così
anche l'Italia si dispone a schierarsi anche militarmente a fianco della guerra
barbara che il popolo afghano sta subendo con bombardamenti sempre più massicci
e sempre più ricchi di "effetti collaterali": ossia di civili morti a
centinaia dall'inizio del conflitto.
La
lotta al terrorismo di qualunque bandiera e di qualunque parte politica o
religiosa va fatta necessariamente. E' un'azione imprescindibile. Ma la guerra
non porta altro che sangue, e le centinaia di vittime che si sommano di giorno
in giorno in Afghanistan e Pakistan (con allargamenti del conflitto anche alla
regione del Khashmir, tra India e Pakistan) si vanno ad aggiungere alle uguali
vittime del crollo delle Torri gemelle.
Profonde
riflessioni sono già state fatte sulla natura del conflitto e sullo scenario
internazionale ed economico che lo muove (si veda la costruzione degli oleodotti
e dei gasdotti che dal Pakistan finirebbero nelle repubbliche islamiche della
Comunità di Stati Indipendenti), così come si è a lungo ragionato sul ruolo
che la sinistra ha avuto in questo frangente.
Noi
pensiamo che una sinistra che non abbia smarrito i sani valori della pace e
dell'eguaglianza umana, non possa accettare una guerra come risoluzione di
problemi di un popolo che da vent'anni patisce conflitti, oppure come vendetta
mascherata da ipocrita giustizia per la strage dell'11 settembre 2001 a New
York.
Siamo,
chiaramente, in una nuova fase di espansione della potenza americana che,
proprio da quello che sembrava il suo punto storico più basso in merito alla
sicurezza, ha tratto la spinta per riacquistare non solo quel nemico che aveva
perso con la scomparsa del gigante sovietico, ma anche la possibilità di
congelare la crescita dell'economia asiatica, ponendo un proprio controllo sulla
regione del medioriente e dell'Asia del Sud Ovest.
Ma
questa volta la partita giocata è molto più ampia del solito: vede insieme
Europa, America, Giappone e Russia, con la sola differenziazione di una Cina che
ha capito l'intento del gioco americano e che tenta di rimanere ai margini di
questo "risiko", giocato a più mani e con più intenti che quello
della cattura di Osama bin Laden e della sconfitta del terrorismo, per evitare
anche implosioni nazionalistiche interne di regioni come il Turkmenistan
orientale, il Tibet e l'irrisolta questione di Taiwan.
Ed
ecco che il conflitto si estende nella parte musulmana delle ex colonie olandesi
e portoghesi, in Indonesia, nelle Filippine sino ad arrivare nella poverissima
Nigeria, dove lo scontro assume un aspetto prettamente religioso e centinaia di
cristiani e mussulmani si affrontano e si uccidono a vicenda nella zona
settentrionale di Kano. Così le vicende del popolo palestinese e di quello
israeliano sarebbero meno cruenti se a guidare il Paese che fu di Ben Gurion non
fosse il massacratore fascista Sharon.
In
questo scenario internazionale, la sinistra italiana - o meglio parte di essa -
accetta il conflitto e dimentica quel grande valore della fratellanza tra i
popoli, dimentica che non vi sono poveri mussulmani e poveri cristiani.
Dimentica la lotta di classe, dimentica che la povertà non ha colore se non
quello meno polveroso delle nostre città intinte da un falso benessere diffuso.
Invece
lo scontro mondiale e globale tra poveri e ricchi, la differenza di classe
esiste eccome. Ma una certa sinistra, convertitasi al libero mercato, allo scopo
di moderare gli eccessi del capitalismo senza auspicarne un suo superamento,
rischia di trascinare parti importanti della cultura del nostro paese nell'oblio
di tendenze e valori difesi per quasi un secolo dai comunisti e dalle masse
proletarie di un tempo.
Anche
nel mondo del lavoro si stanno facendo vive diverse correnti di interpretazione
delle vicende mondiali; e si ripropone la questione sindacale. Quindi diviene
nuovamente centrale il rapporto fra forza lavoro e imprenditoria: una maggiore
espansione dei salari è, in questo momento, soffocata da un mercato del lavoro
che uccide le speranze dei giovani di poter giungere, dopo il conseguimento di
una specializzazione scolastica, sia di tipo tecnico che non, ad un lavoro
appagante sia in senso pecuniario che morale.
Oggi
il lavoro è tutto tranne sicurezza nelle fabbriche e nei vari luoghi di
prestazione della propria forza lavoro. E’ tutto tranne la certezza del
mantenimento del proprio impiego o della propria mansione.
Oggi
il lavoro è, prima di tutto, ricatto diretto tra padrone e lavoratore.
Il
tanto richiesto “rapporto singolare” tra salariato e padrone, caldeggiato
dalle forze di centrodestra, da alcune del centrosinistra e dai radicali, nonchè
dai battimani di Confindustria, è la mina posta sotto l'edificio della
conquista del contratto nazionale di lavoro.
Dove
il lavoratore è solo a contrattare con il padrone, ebbene lì la sua forza di
contrattazione è vicina allo zero assoluto.
Dove,
invece, il lavoratore è ancora rappresentato da un sindacato di categoria (con
tutte le critiche giuste di alta tendenza all'adeguarsi ai "problemi"
degli industriali, dimenticando quelli dei salariati, da parte del sindacato),
nell'ambito di una contrattazione nazionale, ebbene lì il padrone è costretto
a contrattare non con un solo individuo, ma con un intero ambito diverso di
impostazione della dialettica di fabbrica.
La
singolarità dell'azione del salariato è la morte della lotta di classe, è il
seppellimento dei più elementari e fondamentali diritti del lavoratore per non
essere riportato ad un regime di vera e propria schiavitù del lavoro.
Infine,
compagne e compagni, ci preme sottolineare dunque il nostro ruolo come
circolo comunista di politica e cultura: abbiamo proposto soprastante alcune
analisi politiche che riassumiamo in pochi punti che vi sottoponiamo di seguito
e che saranno i punti fermi a cui faremo costante riferimento per mantenere vivi
gli ideali e le pratiche per raggiungere una società libera dalla merceologia e
dal capitalismo, per una società dove la produzione delle merci sia volta non
al profitto personale, ma alla ricchezza sociale.
Noi
comunisti di Rosse Bandiere siamo:
Marco Sferini
In
questi giorni strani in cui è il rumore della Storia a dare il ritmo alle
azioni del quotidiano siamo portati a riflettere sul mondo e sulle cose, sulla
nostra stessa vita.
In
questo particolare momento io credo che stiamo realmente vivendo la Storia. E si
tratta ancora una volta di una storia segnata dalle decisioni di pochi, dettata
dagli interessi economici, intrisa del sangue di persone indifese che muoiono,
loro malgrado, per la Storia. Nessuno dei nomi di quei disgraziati comparirà
domani nei libri di storia. Nessuno dei loro nomi compare oggi nelle cronache.
Molti di loro forse non hanno neanche un nome.
Davanti
a tutto questo, davanti alla Storia, che è fatta, come sempre
dall’intrecciarsi caotico di tante storie diverse, tutto il vivere quotidiano
appare banale, anche la propria vita.
Davanti
alla Storia tutto è piccolo, anche la mia vita.
Forse
anche per questo oscillo tra la frenesia del fare (come se non ci fosse più
tempo e io volessi spingere al massimo l’acceleratore della produzione) e il
bieco nichilismo che mi abbatte e che mi fa pensare che nulla della mia vita
abbia senso, né lo abbia mai avuto.
Di
questi giorni, un domani, se mai ce ne sarà uno, ricorderò l’angoscia e la
malinconia. Ma mentre con la seconda si può convivere (ed anzi vi si può
trovare addirittura una piacevolezza intellettuale), della prima farei
volentieri a meno.
E’
una angoscia che non capisco, ma che mi riempie fino nel più profondo della mia
anima. E’ qualcosa che non controllo come fossi presa all’improvviso in
trappola, come se fossi legata mani e piedi, come se non avessi più fiato per
parlare , né voce in corpo, come se la mia bocca fosse tappata da una barriera
di plastica, come se provassi ad articolare parole che però non ce la fanno ad
uscire.
Nessuno
sente la mia angoscia. Ma tutti coloro che mi sono vicini la subiscono.
In
tutto questo continuo a pensare. Ma anche il pensiero è pigro.
Penso
al fatto che occorrerebbe avere uno spazio critico per discutere criticamente
con altri le vicende del mondo. Penso che vorrei parlare con qualcuno. Penso che
l’unica arma in nostro possesso è il dialogo.
E
improvvisamente ho voglia di dialogare.
La
mia voglia è talmente forte che penso che questa mia voglia di dialogo stia
assumendo la veste egoista di un monologo e così inizio a scrivere.
E
scrivo del dialogo e del bisogno degli altri.
Questa
società ci ha insegnato che l’individuo è importante.
Anzi
questa società ci sta facendo credere che ciò che conta è l’individuo che
consuma, in quanto elemento produttivo (produce consumo e quindi preferenza) del
sistema globale dei mercati.
Siamo
nel bel mezzo dell’era postcapitalistica. Siamo nel pieno della folgore e
della ricchezza tronfia del peggior capitalismo di tutti i tempi. Anche questa
guerra, non nuova, è una guerra capitalistica.
Non
si può più parlare di rivoluzione. Né questa è una rivolta. Ma certo i
paralleli storici sono molteplici.
Una
razza inferiore si è ribellata uccidendo uno dei simboli del potere
della razza superiore e questa ha reagito con la repressione armata; ha
reagito con la legge del taglione, si è vendicata in maniera grossolana e
stupida.
Ogni
azione violenta, ogni reazione violenta, è per sua natura stupida e grossolana.
Prima
di agire e, soprattutto, prima di reagire violentemente occorre riflettere e
riflettere significa valutare in maniera critica se stessi e gli altri.
Le
posizioni non sono mai aprioristicamente giuste
o sbagliate.
Il
dialogo fra diversi aiuta a capire la nostra posizione e quella degli altri. Il
dialogo dà la consapevolezza della storia. Non illumina sul senso. Ma nel
contingente dà senso al vivere umano che, se affidato solo alla cieca violenza
è, realmente, privo di senso alcuno.
Dunque
questo vuole essere anche un inno al dialogo.
Ciò
di cui io ho bisogno e ciò di cui presuntuosamente
penso abbiano bisogno gli altri è senso critico, dialogo, libertà.
Ma
perché queste peculiarità possano esprimersi occorre che ci sia uno schema,
una scena appropriata. E l’unica scena giusta è una società civile di liberi
dove siano possibili il dialogo e la critica. Dialogo e critica che non sono mai
fini a se stessi.
Essere
critici significa leggere ciò che accade in maniera assolutamente razionale.
Significa in prima istanza interrompere il giudizio, estraniare il proprio
essere, per sua natura orgoglioso e appassionato, e fare un passo indietro. Solo
in questo modo non si viene colpiti in pieno viso dal pensiero unico
glorificante e rassicurante. E solo così non si cade nell’errore
intellettuale della presunzione.
La
presunzione che solo il nostro pensare ed agire sia giusto e che tutto il resto
non lo sia. Non si tratta mai di stabilire chi ha ragione e chi ha torto.
L’importante è non bere tutto come verità assoluta, né scartare
tutto come spazzatura.
Di
fronte al mondo e agli altri, di fronte al mare di informazioni quotidiane che
ci bombardano, siamo soli e inermi. Siamo nudi. E l’unico strumento in nostro
possesso è l’intelletto.
L’onestà
intellettuale sta nel leggere le cose non in maniera ideologica e comunque
leggerle.
I
valori e le idee sono l’unica nostra fonte di piacere.
Noi
siamo uomini perché abbiamo valori e idee. Senza saremmo solo atti del mondo
privi di intelletto.
Ma
l’ideologia, qualunque essa sia, ci fa vedere le cose, anche le più semplici,
appannate da un velo che ne altera le caratteristiche. In balia dell’ideologia
perdiamo l’onestà intellettuale e il senso critico.
E
invece sono proprio questi i due elementi fondamentali per il dialogo.
E
non perché occorra a tutti i costi vivere la vita in maniera problematica..
Ma
semplicemente perché è impossibile viverla in maniera non problematica.
Chi
non si pone mai problemi, forse, apparentemente, è felice, ma in effetti la sua
è una forma di non vita. Campare è essenziale. Vivere è fondamentale. E non
si può vivere senza prima campare. Ma si può campare senza vivere, proprio
come gli animali, i quali non hanno senso critico, né onestà
intellettuale, né parola.
Onestà
intellettuale, parola e senso critico sono gli elementi fondamentali e fondanti
del dialogo.
E
il dialogo è in assoluto l’attività più umana che ci sia. Ecco perché
è la più difficile. Ed ecco perché spaventa i più.
Il
dialogo è difficile perché interessa l’uomo nella sua intimità più
profonda, perché interessa l’intelletto e anche l’inconscio.
Dialogare
significa smascherare le maschere. Significa mettersi a nudo e denudare gli
altri. Significa essere onesti con sé e con gli altri e poi anche essere
critici.
Forse
questo è il senso. E forse è per questo che i più sono spaventati dal
dialogo.
Dialogare
significa che non esiste più un io e un tu, ma che esiste solo un momento di
sintesi in cui io e tu sono uniti e interessati e in cui io diviene tu e diviene
io.
Io
e tu sono sempre diversi. Il dialogo avviene sempre fra diversi. Io e tu non
saranno mai uguali. Ma io e tu assieme formano un noi, cioè una microcomunità
fondata sul dialogo in cui io e tu sono liberi di essere diversi e assieme
liberi di diventare uguali.
Tanti
i e tanti tu possono non capirsi. Il mondo è una Babele di diversi fino a
quando un io e un tu non iniziano a dialogare, anche, a volte, in lingue
diverse.
Il
medium non è importante. La lingua non è fondamentale. L’importante è la
volontà di superare il caos iniziale in vista di una comunità, o,
meglio, di
una società.
Alla
base dell’una, prima, e dell’altra, poi, c’è il dialogo.
Il
momento storico che stiamo vivendo ci sta facendo dimenticare che esistono
l’intelletto e il senso critico. Ci vogliono far credere che con gli altri (ma
tutti sono altri per ognuno di noi!) non è possibile dialogare.
Ma
noi dobbiamo essere sufficientemente lucidi e critici per capire che non è così.
Siamo
di fronte al punto di non ritorno. Non ce lo dicono, ma è così. E se non
iniziamo ad essere critici e onesti, se non iniziamo a dialogare con gli altri
perdiamo prima la libertà e poi anche la vita.
Occorre
ricominciare dai piccoli gruppi, dalle microcomunità.
Siamo
nel villaggio globale, ma, come tanti hanno detto, proprio in questo momento in
cui gli altri sono nostri vicini e nostri fratelli, noi ci chiudiamo a loro e
loro a noi.
La
globalizzazione è una invenzione pubblicitaria.
Ciò
che stiamo vivendo è la localizzazione (glocalizzazione non è un errore, bensì
un vero e proprio concetto. alcuni teorici, ad esempio, Beck, parlano di
glocalizzazione come l'avanzata della globalizzazione, ma anche, nello stesso
tempo, della localizzazione).
Non
esiste più il sistema nazione. Esiste solo il sistema mondo.
Ma
contemporaneamente c’è sempre più bisogno di trovare il senso e la
dimensione umana. E se la dimensione dell’informazione è quella dell’intero
globo, la dimensione umana è sempre più quella delle (micro) comunità.
Non
è un caso che negli ultimi anni siano prolificate dovunque le leghe e le sette:
ognuno ha bisogno di un proprio dio e di una propria appartenenza etnica. E
quando questi due elementi non ci sono occorre che qualcuno li inventi.
Siamo
di fronte ad un periodo di reale instabilità.
Il
capitalismo è arrivato al suo culmine e, proprio come previsto da Marx, si sta
ribaltando e si sta uccidendo da solo.
Non
so se dopo ci sarà il comunismo. Forse dopo non ci sarà niente. Ma certamente
siamo di fronte ad un periodo di grande cambiamento. E come dimostra la storia
umana in tutti i periodi di grande cambiamento c’è stata una esponenziale
crescita di partiti e di chiese, questo perché la gente ha bisogno di
appartenenza. Questo era vero al termine dell’impero romano, come durante la
fine del feudalesimo, ed è vero oggi, perché nel corso del tempo può cambiare
tutto, ma non cambiano i bisogni umani. Non a caso ciò avviene anche ora.
Questa
volta siamo nel terremoto. E dobbiamo provare a campare in questa situazione
estrema. Non è facile. Di certo non è giusto. Forse non è neanche sensato.
Chi
crede in un dio o in una ideologia, il che è la stessa cosa, può pensare che
il senso sia ulteriore e futuro.
In
quanto a me ho bisogno di sapere che tutto questo ha senso per me ora. Da qui
nasce la mia angoscia. E da qui nasce il mio attuale scoramento.
Sono
consapevole della realtà.
Provo
a leggerla in maniera onesta e critica. Provo a vivere. Il rischio è quello di
continuare in eterno a campare in attesa che il terremoto finisca e che la
normalità riprenda.
Ma
il terremoto questa volta non finirà.
Non
prima di averci trascinato nelle viscere della terra, oppure di averci lanciato
su in alto in cerca del senso e della verità. Provare a dialogare può servire
a trovare, se non la verità, almeno il senso.
Ma
per dialogare occorre leggere la storia, presente e passata e volere il futuro.
E
per fare questo occorre accettare gli altri e dimenticare, almeno in parte, il sé.
Io
credo che formare (micro) comunità, spazi critici, in questa fase sia utile e
vitale. Credo che questi potrebbero essere le cellule iniziali del comunismo.
Credo che assieme, noi e gli altri, possiamo essere finalmente una grande società
che riconosce le piccole comunità e le piccole storie e le accetta con onestà
intellettuale e spirito critico.
Le
storie e le comunità dialogheranno assieme per mezzo degli uomini e delle
parole e solo allora, quando questo dialogo sarà finalmente in atto, potremo
dire di aver vissuto e di aver toccato con mano il senso della Storia.
Ecco
cosa significa per me Spazio Critico.
Ed
ecco perché questo spazio deve diventare lo spazio di tutti coloro che abbiamo
voglia di interfacciarsi lealmente e onestamente con gli altri.
La
modernità è finita ormai da tempo. Lo dimostra la lingua che sono costretta ad
usare. Non a caso parlo di interfacciare le realtà umane e non più di
incontrare. La vita di tutti noi, per merito e a causa della tecnologia, muta ed
è mutata velocemente ed inesorabilmente. McLuhan diceva che sarebbe bastato
capire i media, la tecnologia, e quindi, in ultima istanza, la Storia per
riuscire a sopravvivere. Nietzsche diceva che “capire interrompe
l’azione”.
Io
credo che questi insegnamenti siamo sempre più validi oggi.
Io
sono un abitante della postmodernità e, per quanto questa mia
consapevolezza tolga molto al romanticismo legato alla modernità, è con essa
che devo convivere. E’ in essa che devo agire. E noi possiamo agire solo qui e
ora. Il tempo a nostra disposizione è
limitato. Per di più la fine della modernità ha decretato inesorabilmente la
fine degli intellettuali. Quindi nessuno di noi è oggi un intellettuale.
Sarebbe molto per noi giovani diventare specialisti o professionisti capaci. Ma
al di là di questo: se anche mutano i nomi e la lingua non mutano nel corso del
tempo le esigenze. E l’esigenza dell’uomo è quella di vivere
in comunità che siano società. Una
sua esigenza è dialogare con gli altri e prima ancora, o dopo, o
contemporaneamente, interrogarsi su sé e sul mondo. Uno Spazio Critico
serve anche a questo.
Viviamo
la postmodernità e non saremo intellettuali in senso classico, ma quel che è
certo e che ci animano gli stessi bisogni di tutti i tempi e forse anche gli
stessi valori. E sugli uni e sugli altri è bene lavorare e riflettere
criticamente perché “se non sappiamo ciò che è Bene, sappiamo comunque
sempre ciò che è Meglio”.