FORUM GIOVANI

Che fine faranno i lavoratori dell'AVIOINTERIORS di Latina?
Questo punto di domanda così brutale vuole, ahi noi, portare alla luce un problema occupazionale che si sta profilando molto grave nella provincia Pontina e non solo.
Infatti all'AVIOINTERIORS è legata la sopravvivenza di molte famiglie
(circa 500) di Latina, dei paesi limitrofi, della capitale, della Ciociaria e del napoletano. Purtroppo i sindacati confederali non stanno tutelando adeguatamente (ma guarda un po'...) i lavoratori né tanto meno li informano della grave situazione a cui sta andando incontro l'azienda che avvierà alla mobilità chissà quanti dipendenti prendendo al balzo, badate bene, come scusante, la crisi che sta colpendo in particolare il settore aeronautico dopo la tragedia dell'11 settembre. In realtà le incapacità gestionali, di programmazione ecc., dell'azienda stanno mandando allo sfascio una delle realtà industriali più “sicure” del nostro territorio. Per non parlare poi delle note vicende giudiziarie di cui è indagata l'azienda stessa!
Ci (e vi) chiediamo se non è ( non usiamo il condizionale apposta ) più giusto tenere in organico al loro posto lavoratori di vecchia data e con esperienza e più diritti e trovare, al tempo stesso opportunità per non "mandare a casa" lavoratori con contratti a tempo determinato e in affitto ( condizioni che comunque non condividiamo essendo per il pieno diritto al lavoro nel rispetto delle conquiste sin qui acquisite e che si cercano di demolire) o addirittura in ... prestito da altre aziende (leggi MECCANO HOLDING che ha rilevato lo stabilimento ex Good Year di Cisterna di Latina con non pochi miliardi dello Stato) e non solo per qualche giorno, come è già accaduto due anni or sono per aggirare “all'italiana” leggi vigenti per mandare in mobilità una sessantina di “vecchi” lavoratori.
A tal proposito non ci conforta affatto il modo in cui i sindacati stanno gestendo il licenziamento  di quattro lavoratori (avvenuto il 22 ottobre) cioè spingendo queste prime vittime del disegno Berlusconi- Maroni ad accontentarsi accettando la “proposta” di mobilità con incentivo da parte dell'azienda e a non intentare la causa legale perché, a quanto dicono, non è poi tanto certo il futuro dell'AVIO che non ha praticamente commesse per il prossimo anno.
Noi rendiamo note queste trame sotterranee non per gettare nell'incertezza e nello sconforto qualcuno  ma per far conoscere ,soprattutto ai diretti interessati, non solo che il loro futuro è veramente a rischio e che si troveranno nella stessa condizione dei loro quattro colleghi i quali ,improvvisamente e senza alcun motivo, si sono ritrovati con una strada impervia da dover percorrere ma anche per cercare, usando una metafora purtroppo attualissima, di fare di tutto per disinnescare una bomba piuttosto che dover piangere poi tutte le distruzioni che si porta dietro soprattutto palesandola a chi non sa che è  proprio lì vicino ai loro/nostri piedi.    
Forum Giovani
di Latina  e Sermoneta

 

 

Il nostro progetto politico: 
Rosse Bandiere
 

Quando nacque, il 23 agosto del 2001, Rosse bandiere era un piccolo nucleo di giovani comunisti e di sinistra che non volevano disperdere la loro unione politica precedentemente esercitata nel Partito dei Comunisti Italiani. Le nostre forze materiali - e di conseguenza anche quelle economiche e di produzione di iniziative - sono ancora molto limitate, ma vi sono in Rosse Bandiere elementi sufficienti per ben sperare che questa struttura politica possa trovare una sua concretizzazione in sempre più vasti settori sociali, e in più vaste e diversificate aree della provincia di Savona e del Paese.

Sin dall'inizio abbiamo detto e specificato più volte che non siamo un partito politico, né un movimento politico, ma un circolo culturale comunista che vuole avere un ruolo politico e culturale nella sinistra savonese e non.

L'attribuzione di questo ruolo la possiamo avere solo con lo svolgimento di determinate iniziative volte ad attuare il nostro progetto politico: la diffusione di quella "coscienza critica" verso il metodo di produzione capitalistico, che consenta a sempre più vasti strati di persone di comprendere appieno i meccanismi del mercato e le sue contraddizioni, nonché le sue quotidiane produzioni di barbarie ed ingiustizie.

Il progetto politico di Rosse bandiere è dunque quello di essere un soggetto politico culturale altamente comprensibile per chiunque ci incontri, per chiunque venga in contatto con noi.

Abbiamo anche ripetuto che non siamo di quella categoria di circoli culturali "d'elite", che si pongono su posizioni privilegiate guardando dall'alto in basso tutto quello che li circonda.

Siamo tra le persone e con le persone e vogliamo stare con i giovani. Sulla base di questi princìpi, sanciti dal nostro Statuto, abbiamo promosso iniziative in favore della pace e contro l'assurda guerra che si sta combattendo in Afghanistan, nonché, da ultima, la nostra partecipazione allo sciopero generale studentesco contro i provvedimenti del ministro Moratti sulla scuola pubblica.

 

Un circolo culturale comunista, dunque, che è aperto anche a culture che comuniste non sono, ma che “parlano” di libertà individuale e collettiva, dell'eguaglianza sociale e della fraternità universale. La triade espressionistica della Rivoluzione Francese è per noi elemento di riscoperta dei valori fondamentali per dare ad ogni essere umano una concreta possibilità di vita. Una vita che sia degna di essere vissuta.

Per questo respingiamo e denunciamo l'uso immorale che della parola libertà si viene facendo da parte del Polo berlusconiano e di tante altre forze politiche che sottintendono ben altri intenti: dall'intolleranza razziale a quella ideale e scientifica. Dalla restrizione degli spazi democratici attuata da questo governo si evince chiaramente, come anche i poteri dello Stato possano entrare in conflitto con loro stessi a causa di tentate sovrapposizioni, insultando e calpestando così il più elementare dei diritti dello Stato democratico: la separazione dei poteri e la loro indipendenza reciproca.

E' di poco tempo fa la dichiarazione del sottosegretario Taormina, di Forza Italia, secondo cui sarebbe opportuno istituire una Commissione bicamerale che controlli l'azione giudiziaria. Il potere legislativo verrebbe così a controllare il potere giudiziario. Questo, a detta dell'avvocato Taormina, permetterebbe una tutela democratica della Magistratura.

Secondo noi questo non farebbe altro se non favorire ancora una volta il signor Berlusconi, Presidente del Consiglio, e le sue alterne e numerose vicende con la Magistratura dello Stato. Come interpretare, altrimenti, le recenti disposizioni di legge approvate dal Parlamento – nonostante l’opposizione della sinistra - in merito alle rogatorie internazionali? Oppure come non ricordare l'uso (o sarebbe meglio dire il "non uso") delle forze di polizia nel corso delle giornate del G8 a discapito dei cortei pacifici e l'indisturbato “devastare” del black block oppure i metodi contrari alla Legge esercitati dalle Forze dell'Ordine nella caserma di Bolzaneto?

In realtà quel comportamento era già la preparazione di un più ampio disegno governativo inerente l'uso indiscriminato della forza verso chiunque porti in piazza il dissenso e verso chiunque si trovi in una posizione di precarietà rispetto alle vigenti norme sulla permanenza sul nostro territorio, essendo non cittadino dell'Unione europea.

Per ultime le dichiarazioni del vicepremier, Gianfranco Fini, sulla liquidazione dell'opera di prevenzione attuata dai Sert verso le tossicodipendenze e sull'applicazione di uno sfrenato proibizionismo che favorirà il foraggiare le tasche dei mafiosi importatori di droghe pesanti. La fine dei Sert significa la chiusura di un servizio ambulatoriale (e non solo) di aiuto per tutti quei “poveri ragazzi” che cadono nel labirinto della droga e che possono uscirne anche senza i metodi di feroci comunità privatistiche come quella di Muccioli, a cui il governo è politicamente molto vicino, e viceversa.

Così l'attacco alle strutture pubbliche va avanti, anche con la vicenda che ha coinvolto la Rai Tv e il ministro Gasparri circa Raiway e sulla “privatizzazione-gestione” del servizio informativo accentrato in poche mani… 

L'assenso alla guerra di questo Parlamento, di questo governo, è un esplicito tradimento della Costituzione della Repubblica. Ancora una volta, come ai tempi della guerra del Kosovo, l'Italia accetta la guerra come metodo per la risoluzione di controversie internazionali, e i ministri del governo si impegnano addirittura - in quanto l'Italia membro della Nato - a piegarsi alla volontà del ripescato articolo 5 dello Statuto dell'Alleanza atlantica. Amico aiuta amico. E così anche l'Italia si dispone a schierarsi anche militarmente a fianco della guerra barbara che il popolo afghano sta subendo con bombardamenti sempre più massicci e sempre più ricchi di "effetti collaterali": ossia di civili morti a centinaia dall'inizio del conflitto.

 

La lotta al terrorismo di qualunque bandiera e di qualunque parte politica o religiosa va fatta necessariamente. E' un'azione imprescindibile. Ma la guerra non porta altro che sangue, e le centinaia di vittime che si sommano di giorno in giorno in Afghanistan e Pakistan (con allargamenti del conflitto anche alla regione del Khashmir, tra India e Pakistan) si vanno ad aggiungere alle uguali vittime del crollo delle Torri gemelle.

Profonde riflessioni sono già state fatte sulla natura del conflitto e sullo scenario internazionale ed economico che lo muove (si veda la costruzione degli oleodotti e dei gasdotti che dal Pakistan finirebbero nelle repubbliche islamiche della Comunità di Stati Indipendenti), così come si è a lungo ragionato sul ruolo che la sinistra ha avuto in questo frangente.

Noi pensiamo che una sinistra che non abbia smarrito i sani valori della pace e dell'eguaglianza umana, non possa accettare una guerra come risoluzione di problemi di un popolo che da vent'anni patisce conflitti, oppure come vendetta mascherata da ipocrita giustizia per la strage dell'11 settembre 2001 a New York.

Siamo, chiaramente, in una nuova fase di espansione della potenza americana che, proprio da quello che sembrava il suo punto storico più basso in merito alla sicurezza, ha tratto la spinta per riacquistare non solo quel nemico che aveva perso con la scomparsa del gigante sovietico, ma anche la possibilità di congelare la crescita dell'economia asiatica, ponendo un proprio controllo sulla regione del medioriente e dell'Asia del Sud Ovest.

Ma questa volta la partita giocata è molto più ampia del solito: vede insieme Europa, America, Giappone e Russia, con la sola differenziazione di una Cina che ha capito l'intento del gioco americano e che tenta di rimanere ai margini di questo "risiko", giocato a più mani e con più intenti che quello della cattura di Osama bin Laden e della sconfitta del terrorismo, per evitare anche implosioni nazionalistiche interne di regioni come il Turkmenistan orientale, il Tibet e l'irrisolta questione di Taiwan.

Ed ecco che il conflitto si estende nella parte musulmana delle ex colonie olandesi e portoghesi, in Indonesia, nelle Filippine sino ad arrivare nella poverissima Nigeria, dove lo scontro assume un aspetto prettamente religioso e centinaia di cristiani e mussulmani si affrontano e si uccidono a vicenda nella zona settentrionale di Kano. Così le vicende del popolo palestinese e di quello israeliano sarebbero meno cruenti se a guidare il Paese che fu di Ben Gurion non fosse il massacratore fascista Sharon.

 

In questo scenario internazionale, la sinistra italiana - o meglio parte di essa - accetta il conflitto e dimentica quel grande valore della fratellanza tra i popoli, dimentica che non vi sono poveri mussulmani e poveri cristiani. Dimentica la lotta di classe, dimentica che la povertà non ha colore se non quello meno polveroso delle nostre città intinte da un falso benessere diffuso.

Invece lo scontro mondiale e globale tra poveri e ricchi, la differenza di classe esiste eccome. Ma una certa sinistra, convertitasi al libero mercato, allo scopo di moderare gli eccessi del capitalismo senza auspicarne un suo superamento, rischia di trascinare parti importanti della cultura del nostro paese nell'oblio di tendenze e valori difesi per quasi un secolo dai comunisti e dalle masse proletarie di un tempo.

Anche nel mondo del lavoro si stanno facendo vive diverse correnti di interpretazione delle vicende mondiali; e si ripropone la questione sindacale. Quindi diviene nuovamente centrale il rapporto fra forza lavoro e imprenditoria: una maggiore espansione dei salari è, in questo momento, soffocata da un mercato del lavoro che uccide le speranze dei giovani di poter giungere, dopo il conseguimento di una specializzazione scolastica, sia di tipo tecnico che non, ad un lavoro appagante sia in senso pecuniario che morale.

Oggi il lavoro è tutto tranne sicurezza nelle fabbriche e nei vari luoghi di prestazione della propria forza lavoro. E’ tutto tranne la certezza del mantenimento del proprio impiego o della propria mansione.

Oggi il lavoro è, prima di tutto, ricatto diretto tra padrone e lavoratore.

Il tanto richiesto “rapporto singolare” tra salariato e padrone, caldeggiato dalle forze di centrodestra, da alcune del centrosinistra e dai radicali, nonchè dai battimani di Confindustria, è la mina posta sotto l'edificio della conquista del contratto nazionale di lavoro.

Dove il lavoratore è solo a contrattare con il padrone, ebbene lì la sua forza di contrattazione è vicina allo zero assoluto.

Dove, invece, il lavoratore è ancora rappresentato da un sindacato di categoria (con tutte le critiche giuste di alta tendenza all'adeguarsi ai "problemi" degli industriali, dimenticando quelli dei salariati, da parte del sindacato), nell'ambito di una contrattazione nazionale, ebbene lì il padrone è costretto a contrattare non con un solo individuo, ma con un intero ambito diverso di impostazione della dialettica di fabbrica.

La singolarità dell'azione del salariato è la morte della lotta di classe, è il seppellimento dei più elementari e fondamentali diritti del lavoratore per non essere riportato ad un regime di vera e propria schiavitù del lavoro.

Infine, compagne e compagni, ci preme sottolineare dunque il nostro ruolo come circolo comunista di politica e cultura: abbiamo proposto soprastante alcune analisi politiche che riassumiamo in pochi punti che vi sottoponiamo di seguito e che saranno i punti fermi a cui faremo costante riferimento per mantenere vivi gli ideali e le pratiche per raggiungere una società libera dalla merceologia e dal capitalismo, per una società dove la produzione delle merci sia volta non al profitto personale, ma alla ricchezza sociale.

Noi comunisti di Rosse Bandiere siamo:

Marco Sferini

 

SULLA STORIA ATTUALE   
Premessa

In questi giorni strani in cui è il rumore della Storia a dare il ritmo alle azioni del quotidiano siamo portati a riflettere sul mondo e sulle cose, sulla nostra stessa vita.

In questo particolare momento io credo che stiamo realmente vivendo la Storia. E si tratta ancora una volta di una storia segnata dalle decisioni di pochi, dettata dagli interessi economici, intrisa del sangue di persone indifese che muoiono, loro malgrado, per la Storia. Nessuno dei nomi di quei disgraziati comparirà domani nei libri di storia. Nessuno dei loro nomi compare oggi nelle cronache. Molti di loro forse non hanno neanche un nome.

Davanti a tutto questo, davanti alla Storia, che è fatta, come sempre dall’intrecciarsi caotico di tante storie diverse, tutto il vivere quotidiano appare banale, anche la propria vita.

Davanti alla Storia tutto è piccolo, anche la mia vita.

Forse anche per questo oscillo tra la frenesia del fare (come se non ci fosse più tempo e io volessi spingere al massimo l’acceleratore della produzione) e il bieco nichilismo che mi abbatte e che mi fa pensare che nulla della mia vita abbia senso, né lo abbia mai avuto.

Di questi giorni, un domani, se mai ce ne sarà uno, ricorderò l’angoscia e la malinconia. Ma mentre con la seconda si può convivere (ed anzi vi si può trovare addirittura una piacevolezza intellettuale), della prima farei volentieri a meno.

E’ una angoscia che non capisco, ma che mi riempie fino nel più profondo della mia anima. E’ qualcosa che non controllo come fossi presa all’improvviso in trappola, come se fossi legata mani e piedi, come se non avessi più fiato per parlare , né voce in corpo, come se la mia bocca fosse tappata da una barriera di plastica, come se provassi ad articolare parole che però non ce la fanno ad uscire.

Nessuno sente la mia angoscia. Ma tutti coloro che mi sono vicini la subiscono.

In tutto questo continuo a pensare. Ma anche il pensiero è pigro.

Penso al fatto che occorrerebbe avere uno spazio critico per discutere criticamente con altri le vicende del mondo. Penso che vorrei parlare con qualcuno. Penso che l’unica arma in nostro possesso è il dialogo.

E improvvisamente ho voglia di dialogare.

La mia voglia è talmente forte che penso che questa mia voglia di dialogo stia assumendo la veste egoista di un monologo e così inizio a scrivere.

E scrivo del dialogo e del bisogno degli altri.

Questa società ci ha insegnato che l’individuo è importante.

Anzi questa società ci sta facendo credere che ciò che conta è l’individuo che consuma, in quanto elemento produttivo (produce consumo e quindi preferenza) del sistema globale dei mercati.

Siamo nel bel mezzo dell’era postcapitalistica. Siamo nel pieno della folgore e della ricchezza tronfia del peggior capitalismo di tutti i tempi. Anche questa guerra, non nuova, è una guerra capitalistica.

Non si può più parlare di rivoluzione. Né questa è una rivolta. Ma certo i paralleli storici sono molteplici.

Una razza inferiore si è ribellata uccidendo uno dei simboli del potere  della razza superiore e questa ha reagito con la repressione armata; ha reagito con la legge del taglione, si è vendicata in maniera grossolana e stupida.

Ogni azione violenta, ogni reazione violenta, è per sua natura stupida e grossolana.

Prima di agire e, soprattutto, prima di reagire violentemente occorre riflettere e riflettere significa valutare in maniera critica se stessi e gli altri.

Le posizioni non sono mai aprioristicamente giuste  o sbagliate.

Il dialogo fra diversi aiuta a capire la nostra posizione e quella degli altri. Il dialogo dà la consapevolezza della storia. Non illumina sul senso. Ma nel contingente dà senso al vivere umano che, se affidato solo alla cieca violenza è, realmente, privo di senso alcuno.

Dunque questo vuole essere anche un inno al dialogo.

Ciò di cui io ho bisogno e ciò di cui  presuntuosamente penso abbiano bisogno gli altri è senso critico, dialogo, libertà.

Ma perché queste peculiarità possano esprimersi occorre che ci sia uno schema, una scena appropriata. E l’unica scena giusta è una società civile di liberi dove siano possibili il dialogo e la critica. Dialogo e critica che non sono mai fini a se stessi.  

ESSERE CRITICI

Essere critici significa leggere ciò che accade in maniera assolutamente razionale. Significa in prima istanza interrompere il giudizio, estraniare il proprio essere, per sua natura orgoglioso e appassionato, e fare un passo indietro. Solo in questo modo non si viene colpiti in pieno viso dal pensiero unico glorificante e rassicurante. E solo così non si cade nell’errore intellettuale della presunzione.

La presunzione che solo il nostro pensare ed agire sia giusto e che tutto il resto non lo sia. Non si tratta mai di stabilire chi ha ragione e chi ha torto. L’importante è non bere tutto come verità assoluta, né scartare  tutto come spazzatura.

Di fronte al mondo e agli altri, di fronte al mare di informazioni quotidiane che ci bombardano, siamo soli e inermi. Siamo nudi. E l’unico strumento in nostro possesso è l’intelletto.

L’onestà intellettuale sta nel leggere le cose non in maniera ideologica e comunque leggerle.

I valori e le idee sono l’unica nostra fonte di piacere.

Noi siamo uomini perché abbiamo valori e idee. Senza saremmo solo atti del mondo privi di intelletto.

Ma l’ideologia, qualunque essa sia, ci fa vedere le cose, anche le più semplici, appannate da un velo che ne altera le caratteristiche. In balia dell’ideologia perdiamo l’onestà intellettuale e il senso critico.

E invece sono proprio questi i due elementi fondamentali per il dialogo.

E non perché occorra a tutti i costi vivere la vita in maniera problematica..

Ma semplicemente perché è impossibile viverla in maniera non problematica.

Chi non si pone mai problemi, forse, apparentemente, è felice, ma in effetti la sua è una forma di non vita. Campare è essenziale. Vivere è fondamentale. E non si può vivere senza prima campare. Ma si può campare senza vivere, proprio come gli animali, i quali non hanno senso critico, né onestà intellettuale, né parola.

 

SUL DIALOGO

Onestà intellettuale, parola e senso critico sono gli elementi fondamentali e fondanti del dialogo.

E il dialogo è in assoluto l’attività più umana che ci sia. Ecco perché è la più difficile. Ed ecco perché spaventa i più.

Il dialogo è difficile perché interessa l’uomo nella sua intimità più profonda, perché interessa l’intelletto e anche l’inconscio.

Dialogare significa smascherare le maschere. Significa mettersi a nudo e denudare gli altri. Significa essere onesti con sé e con gli altri e poi anche essere critici.

Forse questo è il senso. E forse è per questo che i più sono spaventati dal dialogo.

Dialogare significa che non esiste più un io e un tu, ma che esiste solo un momento di sintesi in cui io e tu sono uniti e interessati e in cui io diviene tu e diviene io.

Io e tu sono sempre diversi. Il dialogo avviene sempre fra diversi. Io e tu non saranno mai uguali. Ma io e tu assieme formano un noi, cioè una microcomunità fondata sul dialogo in cui io e tu sono liberi di essere diversi e assieme liberi di diventare uguali.

Tanti i e tanti tu possono non capirsi. Il mondo è una Babele di diversi fino a quando un io e un tu non iniziano a dialogare, anche, a volte, in lingue diverse.

Il medium non è importante. La lingua non è fondamentale. L’importante è la volontà di superare il caos iniziale in vista di una comunità, o, meglio, di una società.

Alla base dell’una, prima, e dell’altra, poi, c’è il dialogo.  

Il momento storico che stiamo vivendo ci sta facendo dimenticare che esistono l’intelletto e il senso critico. Ci vogliono far credere che con gli altri (ma tutti sono altri per ognuno di noi!) non è possibile dialogare.

Ma noi dobbiamo essere sufficientemente lucidi e critici per capire che non è così.

Siamo di fronte al punto di non ritorno. Non ce lo dicono, ma è così. E se non iniziamo ad essere critici e onesti, se non iniziamo a dialogare con gli altri perdiamo prima la libertà e poi anche la vita.  

Occorre ricominciare dai piccoli gruppi, dalle microcomunità.

Siamo nel villaggio globale, ma, come tanti hanno detto, proprio in questo momento in cui gli altri sono nostri vicini e nostri fratelli, noi ci chiudiamo a loro e loro a noi.

La globalizzazione è una invenzione pubblicitaria.

Ciò che stiamo vivendo è la localizzazione (glocalizzazione non è un errore, bensì un vero e proprio concetto. alcuni teorici, ad esempio, Beck, parlano di glocalizzazione come l'avanzata della globalizzazione, ma anche, nello stesso tempo, della localizzazione).

Non esiste più il sistema nazione. Esiste solo il sistema mondo.

Ma contemporaneamente c’è sempre più bisogno di trovare il senso e la dimensione umana. E se la dimensione dell’informazione è quella dell’intero globo, la dimensione umana è sempre più quella delle (micro) comunità.

Non è un caso che negli ultimi anni siano prolificate dovunque le leghe e le sette: ognuno ha bisogno di un proprio dio e di una propria appartenenza etnica. E quando questi due elementi non ci sono occorre che qualcuno li inventi.

Siamo di fronte ad un periodo di reale instabilità.

Il capitalismo è arrivato al suo culmine e, proprio come previsto da Marx, si sta ribaltando e si sta uccidendo da solo.

Non so se dopo ci sarà il comunismo. Forse dopo non ci sarà niente. Ma certamente siamo di fronte ad un periodo di grande cambiamento. E come dimostra la storia umana in tutti i periodi di grande cambiamento c’è stata una esponenziale crescita di partiti e di chiese, questo perché la gente ha bisogno di appartenenza. Questo era vero al termine dell’impero romano, come durante la fine del feudalesimo, ed è vero oggi, perché nel corso del tempo può cambiare tutto, ma non cambiano i bisogni umani. Non a caso ciò avviene anche ora.

Questa volta siamo nel terremoto. E dobbiamo provare a campare in questa situazione estrema. Non è facile. Di certo non è giusto. Forse non è neanche sensato.

Chi crede in un dio o in una ideologia, il che è la stessa cosa, può pensare che il senso sia ulteriore e futuro.

In quanto a me ho bisogno di sapere che tutto questo ha senso per me ora. Da qui nasce la mia angoscia. E da qui nasce il mio attuale scoramento.

Sono consapevole della realtà.

Provo a leggerla in maniera onesta e critica. Provo a vivere. Il rischio è quello di continuare in eterno a campare in attesa che il terremoto finisca e che la normalità riprenda.

Ma il terremoto questa volta non finirà.

Non prima di averci trascinato nelle viscere della terra, oppure di averci lanciato su in alto in cerca del senso e della verità. Provare a dialogare può servire a trovare, se non la verità, almeno il senso.

Ma per dialogare occorre leggere la storia, presente e passata e volere il futuro.

E per fare questo occorre accettare gli altri e dimenticare, almeno in parte, il sé.

Io credo che formare (micro) comunità, spazi critici, in questa fase sia utile e vitale. Credo che questi potrebbero essere le cellule iniziali del comunismo. Credo che assieme, noi e gli altri, possiamo essere finalmente una grande società che riconosce le piccole comunità e le piccole storie e le accetta con onestà intellettuale e spirito critico.

Le storie e le comunità dialogheranno assieme per mezzo degli uomini e delle parole e solo allora, quando questo dialogo sarà finalmente in atto, potremo dire di aver vissuto e di aver toccato con mano il senso della Storia.

 

SULLO SPAZIO CRITICO

Ecco cosa significa per me Spazio Critico.

Ed ecco perché questo spazio deve diventare lo spazio di tutti coloro che abbiamo voglia di interfacciarsi lealmente e onestamente con gli altri.

La modernità è finita ormai da tempo. Lo dimostra la lingua che sono costretta ad usare. Non a caso parlo di interfacciare le realtà umane e non più di incontrare. La vita di tutti noi, per merito e a causa della tecnologia, muta ed è mutata velocemente ed inesorabilmente. McLuhan diceva che sarebbe bastato capire i media, la tecnologia, e quindi, in ultima istanza, la Storia per riuscire a sopravvivere. Nietzsche diceva che “capire interrompe l’azione”.

Io credo che questi insegnamenti siamo sempre più validi oggi.

Io sono un abitante della postmodernità e, per quanto questa mia consapevolezza tolga molto al romanticismo legato alla modernità, è con essa che devo convivere. E’ in essa che devo agire. E noi possiamo agire solo qui e ora. Il tempo a nostra disposizione  è limitato. Per di più la fine della modernità ha decretato inesorabilmente la fine degli intellettuali. Quindi nessuno di noi è oggi un intellettuale. Sarebbe molto per noi giovani diventare specialisti o professionisti capaci. Ma al di là di questo: se anche mutano i nomi e la lingua non mutano nel corso del tempo le esigenze. E l’esigenza dell’uomo è quella di  vivere in comunità che siano società.  Una sua esigenza è dialogare con gli altri e prima ancora, o dopo, o contemporaneamente, interrogarsi su sé e sul mondo. Uno Spazio Critico serve anche a questo.

Viviamo la postmodernità e non saremo intellettuali in senso classico, ma quel che è certo e che ci animano gli stessi bisogni di tutti i tempi e forse anche gli stessi valori. E sugli uni e sugli altri è bene lavorare e riflettere criticamente perché “se non sappiamo ciò che è Bene, sappiamo comunque sempre ciò che è Meglio”.