LOTTA PER IL CONTROLLO DELLE RISORSE...
Una prima analisi sulle cause della guerra in corso
di Gennaro Scala

 

L’immenso apparato produttivo integrato a livello mondiale è una macchina che per funzionare ha bisogno di energia. Nel 1999 l’energia nel mondo è stata fornita da petrolio (35%), carbone (23.5), gas (20.7%), combustibile rinnovabile e scarti (11.1%), nucleare (6,8%), energia idroelettrica (2.3%), energia geotermica, solare, eolica, termica ecc. (0,5%). Dal 1973 al 1999 il petrolio pur non perdendo il suo ruolo centrale, ha visto una netta discesa, in favore del gas e dell’energia nucleare.

Il controllo delle regioni in cui sono localizzate le fonti di energia e il controllo del percorso principale del loro trasporto sono decisivi per il dominio globale. Michael T. Klare ha definito “imperialismo energetico” (The Nation, July 23/30) la politica prospettata in un recente (maggio 2001) documento del governo americano, “Reliable, Affordable, and Environmentally Sound Energy for America’ Future. Report of the National Energy Policy Development Group” (membri: Dick Cheney, Colin L. Powell, Paul O’ Neill, Gale Norton e altri), in riferimento soprattutto al suo capitolo conclusivo, nel quale viene delineata una strategia per il controllo delle risorse energetiche. http://www.whitehouse.gov/energy/National-Energy-Policy.pdf

Il documento sostiene che il petrolio delle regioni del Golfo Persico, dove tuttora si trovano un quarto delle riserve mondiali di petrolio, continua ad essere centrale, ma al tempo stesso sottolinea l’importanza delle regione del mar Caspio. “Il Golfo rimarrà il focus primario della politica energetica internazionale degli Stati Uniti, ma il nostro impegno dovrà essere globale (will be global), focalizzando le regioni emergenti e quelle esistenti che avranno un maggiore impatto nella bilancia energetica globale”.

L’idea che questa  non sia tanto una guerra contro il terrorismo quanto una guerra per il controllo delle risorse si sta facendo sempre più strada ultimamente. Tuttavia è bene vedere precisamente in che termini, cominciando con una descrizione delle risorse della regione del mar Caspio, in base alle informazioni fornite dall’Energy Information Administration. Official Energy Statistics from the U.S. Government (EIA, http://www.eia.doe.gov):

“La prospettiva di riserve potenzialmente enormi di idrocarburi è parte del fascino delle regioni del Mar Caspio (incluso Azerbaijan, Kazakhstan, Turkmenistan, Uzbekistan, e le regioni dell’Iran e della Russia che sono vicine al Mar Caspio). Oltre ai 18-34 miliardi di barili attualmente dimostrati, le riserve possibili di petrolio della regione possono fornire altri 235 miliardi di barili. Questo è approssimativamente equivalente ad un quarto delle risorse totali provate (tuttavia, il Medio Oriente ha anche le proprie vaste possibili riserve). Le risorse di gas possibili sono ampie quanto le risorse di gas provate, e potrebbero fornire 328.000 miliardi di piedi cubici.”

Le riserve di petrolio sommate a quelle di gas fanno delle regione del Mar Caspio il secondo deposito energetico mondiale dopo quello del Golfo Persico, ma vi è un considerevole problema relativo al trasporto di queste risorse dalle “landlocked” regioni del Mar Caspio. Tre sono le vie principali che si dovrebbero percorrere per il trasporto di queste risorse. In aggiunta vi è anche l’Iran, tra l’altro la soluzione più semplice, che avrebbe però la stessa destinazione finale della terza: il sud-est asiatico, ma questo percorso è escluso a causa del conflitto economico-politico con l’Iran a cui gli Usa hanno imposto delle sanzioni ormai ventennali. Riguardo alla prima via, quella occidentale verso l’Europa, secondo l’EIA “ci sono alcune questioni riguardo al fatto che l’Europa sia la giusta destinazione per il petrolio e il gas del Mar Caspio. La domanda di petrolio nei prossimi anni è prevista in crescita di poco meno di un milione di barili al giorno. L’esportazione di petrolio a est, d’altro canto, potrebbe servire i mercati asiatici, dove la domanda di petrolio è prevista in crescita di 10 milioni di barili al giorno nei prossimi 10-15 anni. Per alimentare tale domanda asiatica, però, potrebbe essere necessario costruire le più lunghe pipelines del mondo. Considerazioni geografiche potrebbero obbligare queste pipelines a dirigersi a nord delle intransitabili montagne del Kirgizistan e del Tagikistan attraverso le vaste, desolate, steppe kazache, con ciò aggiungendo ancora più estensione (e costo) a qualsiasi pipeline diretta ad est.” (EIA). Un altro fattore che rende questo percorso poco gradito è il fatto che esso resterebbe comunque o sarebbe potenzialmente sotto l’influenza della Russia.

Ma se non ad ovest e non ad est, allora verso Sud? Escluso l’Iran, questa via dovrebbe passare necessariamente per l’Afghanistan attraverso il quale raggiungere i porti pakistani sul mare Arabico, da dove petrolio e gas dovrebbero raggiungere via tanker il sud-est asiatico. Ma su questo percorso ci sono some little problems.

 “La guerra civile afghana ha impedito ai progetti in corso di procedere. Mentre tutte le principali fazioni afghane sono d’accordo in linea di principio alla costruzione delle pipelines, le pipelines non hanno probabilità di attrarre i necessari finanziamenti senza una stabilizzazione pacifica e un riconoscimento internazionale del governo afghano. Sebbene i talebani controllano il 90% del territorio afghano, solo Emirati Arabi Uniti, Pakistan e Arabia Saudita hanno riconosciuto ufficialmente il governo afghano. In seguito ai bombardamenti statunitensi delle roccaforti afghane nei raid del 20 agosto del 1998, Unolocal ha annunciato di aver sospeso i lavori della pipeline per il gas, e nel Dicembre 1998 si è ritirata dal consorzio Centgas.

Nell’aprile 1999, Pakistan, Turkmenistan e Afghanistan si sono accordati per riattivare il progetto Centgas, e per chiedere al consorzio Centgas, ora guidato dalla Delta Oil dell’Arabia Saudita, di procedere. Sebbene i combattimenti si sono allontanati dagli itinerari potenziali della pipeline, il rifiuto dei talebani di consegnare Osama bin Laden, così come la continuazione della guerra civile, ha ridotto la probabilità di attrarre finanziamenti internazionali per il progetto Centgas. Gli Stati Uniti hanno imposto delle sanzioni che vietano il commercio e gli investimenti americani nel 90% dell’Afghanistan sotto il controllo dei talebani, e, il 14 novembre 1999, anche le Nazioni Unite hanno imposto delle sanzioni contro l’Afghanistan nel tentativo di fare pressione sui Talebani perché consegnassero bin Laden.” (EIA, http://www.eia.doe.gov/cabs/caspconf.html)

Ma cosa c’entra con tutto questo Osama bin Laden, dichiaratamente il primo bersaglio di questa guerra? Cominciamo con l’esaminare come mai si trova in Afghanistan, ammesso che non abbia cambiato aria da un pezzo. Il suo rapporto con i talebani nasce al tempo della guerra contro l’URSS. “Il regno saudita forniva un finanziamento pari a quello americano, cui si aggiungevano i milioni di dollari provenienti dai patrimoni arabi privati. Ed in effetti, la combinazione di fondi sauditi pubblici e privati fu decisiva per il finanziamento della guerra. I fondi ufficiali del governo saudita diminuirono gradatamente verso la fine della guerra e furono sostituiti da quelli privati provenienti da fanatici multimiliardari come Osama bin Laden, ansioso di assistere al trionfo mondiale dell’islamismo. I finanziamenti statali furono ben presto superati e quasi dimenticati. […] La privatizzazione strisciante della jihad – perché di questo si è trattato: i responsabili di gran parte del terrorismo politico postbellico in Occidente non sono tanto i governi criminali quanti i magnati privati – fu il frutto dell’alleanza tra Arabia Saudita e Stati Uniti” (John C. Cooley, Una guerra empia, ed. it. p. 182-83). Bin Laden è stato uno dei principali organizzatori e collettore di fondi della jihad afghana, da ciò derivano i suoi rapporti all’epoca della guerra fra Afghanistan e URSS con la CIA.

Bin Laden è il rampollo di una famiglia che possiede uno dei principali gruppi economici dell’Arabia Saudita. La sua ideologia islamista sembra molto distante dal mondo occidentale, tuttavia una serie di articoli hanno ricordato i legami della sua famiglia con quella del suo attuale “nemico” George Bush. Bin Laden è un membro dell’élite borghese mondiale. Ha imbracciato mitra e Corano, ma sotto la tunica spunta il sofisticato orologio da manager. Per molti aspetti infatti questo è un conflitto tra l’élites borghesi mondializzate. Tuttavia in termini strettamente economici l’impero finanziario della famiglia di Osama bin Laden non è fondato sul petrolio ma sulle costruzioni. È meglio però evitare l’appiattimento sulle questioni economiche che pur restano decisive: la funzione che bin Laden ha voluto ritagliarsi in questi anni è stata soprattutto di tipo politico-“militare”, attraverso l’organizzazione del terrorismo e questa funzione va inquadrata nel contesto dell’Arabia Saudita e questa nel contesto del mondo arabo.

Dopo aver contribuito a sconfiggere i sovietici, si convinse che il principale nemico erano gli USA e che la monarchia saudita in quanto aveva concesso le base agli americani per l’attacco all’Iraq andava rovesciata. Nonostante che per queste dichiarazioni gli fu ritirato il passaporto saudita, i suoi legami con i vertici sauditi non sono venuti meno. In primo luogo con uno dei più potenti personaggi del regime il principe Turki al-Faisal, capo dei servizi segreti. Il rapporto fra i due, entrambi relativamente giovani, nasce ai tempi dell’università: fu Turki a favorire la sua ascesa come uno dei principali organizzatori della jihad in Afghanistan.

Anche a causa della logica dei media, sempre alla ricerca del personaggio su cui puntare i riflettori, si è prestata troppa attenzione a bin Laden. Il ruolo di figure come quella di Turki al-Faisal è altrettanto importante. Innanzitutto il suo sostegno al regime dei talebani non è stato secondario. Secondo il resoconto di Ahmed Rashid, cronista pakistano della Far Estern Economic Review, considerato, per la sua ventennale esperienza, uno dei maggiori conoscitori della questione, “nel luglio 1998 il principe Turki fece visita a Kandahar e poche settimane dopo arrivarono 400 furgoni per i talebani che ancora avevano la targa di Dubai. I sauditi diedero anche denaro contante per il libretto assegni dei talebani per la conquista del nord nell’autunno. Fino al bombardamento in Africa e a dispetto delle pressioni statunitensi per la fine del sostegno ai talebani, i sauditi continuarono a  finanziare i talebani ed erano silenti sulla necessità di estradare bin Laden.” (Ahmed Rashid, Taliban, Militant Islam, Oil and Fundamentalism in Central Asia)

Turki al-Faisal è stato direttamente coinvolto nella lotta per la costruzione della pipeline che doveva attraversare l’Afghanistan. Dopo la conquista di Kabul, quando il regime talebano cominciava a dare una parvenza di stabilizzazione, sono stati in lotta per la costruzione di questa pipeline due gruppi principali: uno denominato CENTGAS formato da Unocal Corporation (U.S.A, 46.5 %), Delta Oil Company Limited (Saudi Arabia, 15 %),  The Government of Turkmenistan (7 %), Indonesia Petroleum, LTD. (INPEX) (Japan, 6.5%),  ITOCHU The Crescent Group (Pakistan, 3.5 %),  Oil Exploration Co., Ltd. (CIECO) (Japan, 6.5 %),  Hyundai Engineering & Construction Co., Ltd. (Korea), 5 %); l’altro gruppo formato da una partnership 50 a 50 fra BRIDAS, una compagnia argentina, e NINGHARCO, la quale a sua volta “è vicina al principe Turki al-Faisal”. “Ogni parte ha il supporto di potenti alleati politici. La proposta della Unocal è favorita dal Turkmenistan e dal Pakistan, mentre quella della Bridas è appoggiata dai talebani”, e, non c’è bisogno di dirlo, da bin Laden. “Così la competizione tra Unocal e Bridas riflette anche la competizione all’interno della famiglia reale saudita (Rashid, Taliban…, 167-68). La Delta oil è considerata vicina allo schieramento che fa capo nominalmente a re Fahd. Di questi due schieramenti uno è più “conservatore”, preoccupato di non contrariare il protettore americano, l’altro più “rivoluzionario” diretto a fare una politica del petrolio più aggressiva, anche a costo di andare contro gli Stati Uniti. Quale può essere stata la strategia di questo secondo gruppo riguardo alle risorse del Mar Caspio? Gli obiettivi, fra loro non alternativi, possono essere stati due: o far cadere il trasporto di queste risorse sotto un controllo più diretto di gruppi legati all’Arabia Saudita o mettere in atto delle azioni di disturbo che ostacolassero e facessero fallire questo progetto. Alla fine la gara fu vinta nel 1998 da CENTGAS, ma, come informa anche l’EIA, Unocal subito dopo si ritirò dal progetto in seguito agli attentati attribuiti a bin Laden alle ambasciate statunitensi in Tanzania e in Kenia e alle successive ritorsioni americane attraverso il bombardamento in Afghanistan di alcune località considerate sedi di addestramento di al Qaeda.

I legami di bin Laden con il potere saudita non si limitano a Turki al-Faisal. “La verità riguardo al silenzio saudita era ancora più complicata. I sauditi preferivano lasciare bin Laden solo in Afghanistan perché il suo arresto e processo da parte degli americani potrebbe rivelare le profonde relazioni che bin Laden continua ad avere con membri comprensivi della Famiglia Reale. I sauditi vogliono bin Laden morto o prigioniero dei talebani – non lo vogliono catturato dagli americani.” (Ahmed Rashid, Taliban …)

Klare sostiene che “il vero centro del conflitto è l'Arabia Saudita, non l'Afghanistan". Il suo saggio Geopolitic of War (The Nation, 5/11/01) è molto utile per un inquadramento storico e “geopolitico”, ma è piuttosto singolare che Klare, che pur conosce la questione delle pipelines (esposta sinteticamente e con precisione nel suo libro Resource Wars) non entri nei particolari riguardo alla funzione che le risorse del Mar Caspio possono aver svolto nel suscitare il conflitto più o meno latente con l’Arabia Saudita, mentre invece centra l’attenzione sul progetto di bin Laden di conquistare il potere in Arabia Saudita.

Che le cose non andassero come sempre con il vecchio alleato saudita è apparso chiaro a tutti con la vicenda del rifiuto saudita di concedere le basi per gli attacchi aerei all’Afghanistan. I fatti sono stati sintetizzati in un articolo del U.S news & world report (9/28/01), uno dei settimanali a più ampia tiratura degli stati uniti. L’articolo dal titolo “Relazioni pericolose. Quanto il nostro amico saudita ci sta aiutando?” rileva la contraddizione fra la successione della notizia riportata il 22/7 dal Washinghton Post secondo cui i sauditi avevano respinto la richiesta statunitense della Prince Sultan Air Base (una grande base statunitense costruita recentemente alle porte di Riyadh) e quella riportata due giorni dopo dallo stesso giornale secondo cui il Pentagono aveva pieno accesso alla base di Riyadh. Secondo il settimanale questa “apparente contraddizione” denota “le difficoltose e ambigue relazioni fra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita”. Fra parentesi: il settimanale ha scoperto anche che l’amico saudita “è profondamente antidemocratico e il maggior propagatore del Wahabbismo, la forma più estrema di fondamentalismo islamico”. È interessante riportare come, secondo il settimanale, il ministro degli esteri avrebbe risolto il problema. “È possibile che Powell ha evitato la richiesta di usare la base fino al 23 settembre e che l’ha chiesta immediatamente dopo – o che gli Stati Uniti hanno deciso di andare avanti e di usarla senza permesso. Dopotutto, è la nostra base. Ma sembra del tutto probabile che i leader sauditi non vogliono far apparire di cooperare con gli Stati Uniti anche mentre lo stanno facendo”.

Sebbene la questione del rapporto con l’Arabia Saudita non abbia fatto tanto clamore nei media statunitensi, essa è diventata apertamente un problema da essere affrontato, almeno per qualche analista politico americano. In un articolo del Washington Post (22/10/01) di Simon Henderson, esperto del “The Washington Institute for Near East Policy”, dal significativo titolo “Arabia Saudita: amico o nemico?” si scrive che “il coinvolgimento del terrorista bin Laden, nato in Arabia Saudita, negli eventi dell’11 settembre rende le dimissioni di Turki un problema che deve essere risolto. La versione che attualmente va per la maggiore è probabilmente un racconto barocco, che combina le tensioni dinastiche all’interno di una famiglia reale forte di 30.000 membri, le relazioni saudite con i talebani, le relazioni saudite con gli USA, e l’implicazione che i sauditi conoscevano o sospettavano che bin Laden avrebbe potuto eseguire l’oltraggio del dirottamento aereo in qualche parte nel mondo a settembre.” “La data (timing, vuol dire anche scelta del momento opportuno, tempestività, tempismo) della rimozione di Turki – 31 agosto – e i suoi legami con i talebani sollevano la questione: sapevano i sauditi che bin Laden stava progettando il suo attacco contro gli Stati Uniti? L’opinione corrente tra i gli osservatori del regime saudita è probabilmente no, ma la casa saudita potrebbe aver sentito delle voci che qualcosa si stava progettando, sebbene senza conoscere dove e quando”

L’esperto suggerisce (fra le righe) che Turki alla fine si sarebbe ravveduto, avrebbe inteso quali sono i reali interessi sauditi, avrebbe abbandonato i suoi precedenti legami con talebani e bin Laden e avrebbe scelto alla fine decisamente i vecchi alleati. Ma la questione resta aperta: il ruolo di Turki potrebbe essere stato sino alla fine più ambiguo. Mi sento autorizzato a fare questa osservazione, pur non essendo un esperto, dal fatto che Henderson indica come motivo di conflitto soltanto i debiti contratti dal regno saudita nei confronti degli USA, ma ignora il conflitto più ampio e che coinvolge più profondamente la struttura del regno saudita (sicuramente ha coinvolto in prima persona Turki al-Faisal) che può suscitare la scelta del governo statunitense di puntare sulle risorse del Mar Caspio. Finora ho citato di proposito giornali e settimanali autorevoli (o presunti tali) come il Washington Post o l’U.S news & world report, ma c’è anche chi come Peter Dale Scott (pacifista americano di vecchia data, il cui sito consiglio vivamente di visitare http://ist-socrates.berkeley.edu/~pdscott/q.html ) osserva che “ci sono molte congetture in Europa se le improvvise dimissioni di Turki da parte di Abdullah nel tardo agosto sia stato un fattore che ha fatto precipitare l’attacco del 9/11 pochi giorni più tardi”

La causa centrale di questo conflitto potrebbe essere l’opposizione che incontra in alcuni settori dell’Arabia Saudita la decisione americana di “dedicare attenzione” alle risorse petrolifere del Mar Caspio. È certo che l’Arabia Saudita non vede di buon occhio la piena introduzione sul mercato di questo grosso concorrente. Ciò che rende il conflitto ancora più acuto è la profonda crisi economica e politica che da qualche anno attraversa il paese degli sceicchi.

L’Arabia è uno degli orrori, sul piano politico, creati dalla politica estera statunitense, la cui protezione militare e politica è essenziale alla sua conservazione: è un paese che basa le sue entrate per tre quarti sul petrolio, ed è un’economia praticamente a scadenza basata sulle riserve di petrolio (per altri 20 o 30 anni?), un paese in cui non esiste parlamento, in cui un’interminabile coorte di principi (e relative famiglie) corrotta e crapulona batte continuamente cassa, la stessa che ha sperperato gran parte di queste immense ricchezze senza creare una reale struttura produttiva, in cui gran parte dei capitali ricavati dal petrolio risiedono all’estero, e che si regge sul consenso dovuto alla pura e semplice distribuzione del denaro proveniente dal petrolio.

Il progetto politico di bin Laden  è davvero così “rivoluzionario”? Intende davvero sconvolgere gli equilibri mondiali rovesciando il regime saudita e mettendolo contro gli USA? O gli attacchi terroristici sono il modo in cui una parte consistente della classe dominante saudita, da cui provenivano diversi attentatori, si fa, diciamo così, sentire? Sicuramente molti degli attentati dei gruppi islamici in Cecenia erano diretti a rendere insicure le zone di transito delle pipelines russe, attualmente principale concorrente sul mercato del petrolio dell’Arabia Saudita. Sicuramente attorno alle risorse petrolifere sono sorti dei conflitti insanabili, il che rende la lotta estremamente aspra.

Quando bin Laden fa appello alla difesa del petrolio, “questa risorsa del mondo arabo”, potenzialmente, in un società impoverita come quella araba, questa forma di demagogia può fare presa su ampie masse, ma gli interessi reali che difende sono quelli di élites piuttosto ristrette. Inoltre, la strategia terroristica messa in atto da al Qaeda sembra essere l’unica capace di ottenere dei “risultati”, quali che siano, contro gli Usa che hanno dimostrato di aver raggiunto una superiorità militare schiacciante, mentre tanti arabi hanno ottime ragioni per considerare gli USA nemici. Tuttavia se gli USA riusciranno a sconfiggere la rete di bin Laden questo sarà un fatto positivo, ma non sarà una vittoria come non lo è stata la sconfitta dei talebani. Infatti gli USA prima hanno dato un contributo decisivo ad insediarli e in seguito hanno dovuto toglierli, raddoppiando le sofferenze della sventurata popolazione afghana, una delle tante vittime della fallimentare e caotica politica estera americana.

Negli ultimi anni sono comparsi tutta una serie di Frankestein creati dagli USA che poi gli si sono rivoltati contro a partire da Saddam Hussein, poi bin Laden, poi i Talebani, in parte anche l’Arabia Saudita. La storia del dopoguerra ha visto gli USA impegnati dovunque, ma soprattutto negli stati arabi, a favorire i governi più reazionari, così alla fine dopo la sconfitta di Nasser, la cui lotta è stata il principale progetto di emancipazione e modernizzazione del mondo arabo, abbiamo bin Laden sorto dalla reazione estrema proveniente dall’Arabia Saudita. Magdi Allam, un cronista di Repubblica di origine araba, scrive: “Parla da consumato statista il Bin Laden che prefigura il possesso del più ricco forziere naturale della Terra. E' lui l'erede dell'egiziano Nasser che per primo osò sfidare la superpotenza americana e incitò le masse saudite a rivoltarsi contro la famiglia reale, legando il riscatto della nazione araba al controllo delle risorse petrolifere. Nasser la sua battaglia la perse e sulla scia della cocente sconfitta del 1967 esplose il movimento islamico di cui Bin Laden è il nuovo profeta. Ora tocca a Bin Laden, anche per lui è giunta l'ora della resa dei conti” (Repubblica 24/10/01). Per quanto grossolano e sostanzialmente falso sia definire bin Laden l’erede di Nasser, ritengo il concetto generale abbastanza giusto.

Siamo già entrati nell’era della fine dell’egemonia americana nel mondo. Secondo la concezione gramsciana il governo duraturo è sempre una combinazione di dominio e consenso. L’incapacità del modello americano, e in generale occidentale, di risolvere invece di peggiorare i problemi vitali di ampie zone del mondo segna la fine del consenso e dell’attrazione che questo modello poteva suscitare. Viene ora l’era del solo dominio, magari attraverso l’utopia di una assoluta superiorità tecnologica, ma un governo mondiale fondato soltanto sul dominio non è destinato a durare.

Come abbiamo visto le cause del conflitto sono reali, molto probabilmente è stato realmente bin Laden uno dei principali organizzatori dell’attentato, tuttavia bisogna tenere conto anche degli aspetti oscuri di questa vicenda, dietro cui si intravede un intrigo di servizi segreti a dir poco inquietante, da far impallidire quello emerso in relazione all’assassinio di Kennedy. Sono troppe le voci che indicano che servizi segreti americani hanno trescato con bin Laden fino a poco tempo fa e forse anche dopo gli attentati. Si tenga conto che le diramazioni degli interessi contrastanti delle compagnie petrolifere arrivano fino ai vertici del governo e del potere statunitense (Bush jr. stesso viene indicato come un rappresentante delle compagnie petrolifere). Bisognerebbe avere una mappa dettagliata delle varie compagnie petrolifere statunitensi e della loro politica petrolifera, ma può essere benissimo che alcune di queste possano essere allineate al vecchio alleato saudita e che questi interessi possono essere implicati in qualche modo nell’attentato. Siamo nel regno dell’ipotetico e del possibile, ma come non porsi queste domande? Ognuno giudichi da sé le notizie dettagliate e documentate riportate nel sito americano http://emperors-clothes.com/indict/indict-1.htm che indica direttamente come “colpevoli per il 9/11 Bush, Rumsfel, Myers”. La questione è sempre la stessa: come è stato possibile? Com’è stato possibile che due aerei a distanza di quasi mezz’ora uno dall’altro si siano schiantati contro i grattacieli della principale città statunitense? Altri sostengono che l’attentato sia stato se non creato almeno non ostacolato per creare il casus belli per farla finita con bin Laden e talebani e per risolvere definitivamente la questione dell’Afghanistan. È molto probabile che c’è stato un fortissimo conflitto occulto fra i vertici del potere americano. La vicenda resta sicuramente in gran parte oscura: in questo groviglio l’analisi del conflitto per le risorse energetiche può fornire uno strumento per sbrogliare o’ gliuommero (matassa ingarbugliata inestricabilmente, ma anche peso sullo stomaco, metafora gaddiana del fascismo).

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