Non si nasce né buoni né tabula rasa. Si nasce “predisposti” a rispondere in un certo modo alle pulsioni biologiche ovvero con un corredo di modalità potenziali di risposta ai “richiami della vita” (per l’appunto “attitudini innate”), le quali interagiscono immediatamente con l’ambiente esterno che, a sua volta, esercita un’influenza di sintesi specie sulla prima età, detta evolutiva. Da questa “combinazione” esitano le varianti comportamentali (caratteriali) del singolo individuo rispetto ai suddetti richiami (che sono le costanti della specie) e alla vita reale. Le costanti sono pressappoco il bisogno di mangiare (che serve alla conservazione del corpo e che è quindi “strumentale”); il bisogno di essere rassicurato (dall’altro da sé ovvero dal mondo e quindi dalla paura dell’ignoto); il bisogno di trascendersi in valori e di sopravvivere nella memoria dei posteri); il bisogno di identificarsi “trasversalmente” (nel corpo, negli affetti e nei valori-ricordi), condizione assoluta per distinguersi ed avere un’identità unica. Un “bisogno a termine” è quello della sessualità procreativa (che serve alla conservazione della specie). Questi bisogni si combinano e si fondono: sono facce delle stesso unico bisogno di vivere. L’esperienza esistenziale lascia tracce (si sedimenta) nel DNA, donde le potenzialità ereditate dai genitori, le quali si combinano con le nuove acquisizioni e così via. La risposta primordiale alla fame è l’assunzione diretta del cibo (per es., dal regno vegetale) e la predazione (assunzione diretta dal regno animale). Se gli antenati di una nuova creatura non hanno fatto diversamente, anche questa “tenderà” a comportarsi allo stesso modo ma il mondo esterno (l’ambiente reale immediato) può modificare quella modalità acquisita (variante) di risposta al bisogno (costante) della fame, ricacciarla nell’inconscio e soppiantarla con una del tutto diversa, immutato restando il punto biologico di arrivo (la soddisfazione della fame). La stessa influenza ambientale in generazioni future potrà richiamarla o farla “scomparire” attraverso l’incessante rimescolio delle sedimentazioni ereditarie. Ciò avviene con ogni altra modalità e per gli altri bisogni.

Con questa premessa si vuol dire che qualsiasi scienza umana (dal diritto all’economia) deve fare i conti con la biologia e con l’ambiente, come dire con la “funzionalità della vita” e con l’organicità strutturale-istituzionale dell’ambiente materiale (habitat) – a questo proposito ha molto da dire la filosofia marxista – perché tutto ciò che fa l’uomo è sempre e necessariamente motivato – in maniera diretta o mediata (trasposta) -  dai “bisogni costanti” e dalle modalità (infinitamente varianti) di risposta.

Alla stessa maniera deve comportarsi la cosiddetta giustizia ovvero il potere giudiziario, che è uno dei pilastri dei cosiddetto Stato di diritto. Gli scopi essenziali di tale potere sono almeno quattro: a) punire chi infrange la legge perché desista dal ripetere il delitto; b) ripristinare l’ordine infranto restituendo alle vittime del delitto quanto è restituibile e dando loro, in sostituzione della vendetta, il “conforto della giustizia”; c) ricordare alla collettività cosa può succedere a chiunque infrange la legge; d) rieducare il reo ad un comportamento legale, cioè necessario al bene proprio e sociale (alias sociocompatibile). Il primo palese inconveniente in siffatta “macchina della giustizia” è che la legge, cui si fa riferimento, non è necessariamente quella che discende dal rispetto dei diritti naturali (che poi sono le necessità costanti sopra elencate) ma assai spesso delle “norme convenzionali” stabilite dal potere pubblico ovvero da coloro che lo occupano (non importa con quali mezzi) ovviamente nell’esclusivo interesse della parte che rappresentano. Ne consegue che la locuzione “Stato di diritto” non necessariamente risponde – e comunque non in pieno – alla realtà ma è piuttosto un “eufemismo demagogico” per contrabbandare uno “Stato di forza” cioè l’esercizio di un potere di parte  in nome della legge.

Questa ambiguità è inizialmente inevitabile perché niente – nel pantarei biologico – nasce “compiuto”, meno che mai il “diritto reale” cioè la formulazione e l’applicazione di norme attuatrici dei diritti naturali. Ne consegue il rischio di essere processati e puniti per comportamenti naturalmente leciti (se non moralmente dovuti) e insieme la possibilità di essere autorizzati e perfino costretti a realizzare comportamenti naturalmente criminosi (come quello di andare ad ammazzare degli innocenti).  Questa discordanza – tra legge positiva e legge naturale – rende discutibili la presunta sacralità della legge quale che sia (“dura lex sed lex”) che è, in  ultima istanza, una fattura dell’uomo, e il richiamo al rispetto della legalità, (anche attraverso il quale si pretende di debellare quella criminalità economica privata <impropriamente detta “mafia”> che è prodotta dallo stesso sistema) e che, tanto per fare qualche altro esempio, nel Reich di Hitler significava accettare la discriminazione mortale degli ebrei e di altre categorie umane, mentre in alcuni paesi islamici significa ancora, tra l’altro, la lapidazione dell’adultera e il taglio della mano del ladro.

Tale discordanza non può essere eliminata dall’oggi al domani ma meno che mai all’interno di un sistema economico (il capitalismo), imperniato sulla sola prima costante (quella della fame) – filo conduttore dell’animalità – ovviamente in versione umana, cioè sempre più agguerrita dalla “ragione tecnologica” (amorale per definizione) e insieme non più “a distruzione compensata”. Questo significa che, se la distruttività per la ricerca del cibo (o la ricerca della femmina o la difesa del territorio o del proprio rango all’interno del branco) viene compensata in àmbito-giungla da un istinto (conservativo della specie) che impedisce di uccidere l’avversario se non nel caso di predazione, in àmbito-umanità non ancora adulta, la fame propriamente detta si traduce anche in “fame di potenza” e, in assenza di autocontenimento, si risolve in interdistruzione generale (il che sta avvenendo in questi giorni). Per questo, soprattutto l’economia – scienza della soddisfazione dei bisogni – deve rispondere, non solo alla fame (che accomuna l’uomo alla bestia) ma anche alle altre pulsioni (di pertinenza esclusiva dell’uomo) e in ispecie a quella della rassicuranza affettiva e cioè della solidarietà bioaffettiva – o senso etico-sociale – che non solo impedisce la distruzione reciproca nella ricerca del cibo e nell’affermazione della potenza – livello infantile o para-animale dell’umanità – ma contribuisce altresì alla crescita della civiltà (verso il proprio autocompimento) e alla conservazione della specie.

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L

a colpa di “uomini di legge”, studiosi e specialisti è proprio quella di ostinarsi a volere trovare delle soluzioni ottimali di giustizia solo nei meccanismi giudiziari di un sistema economico che, per quanto detto (e per altro ) non solo crea i presupposti biopsicodinamici del crimine ma rende difficili, per ciò stesso, le valutazioni e le operazioni di recupero. E ciò lo fanno anche per casi eclatanti come quello di Erika ed Omar, la cui tipologia è totalmente incompatibile con le procedure consuete. Accertato il compimento del crimine (l’uccisione, per ripetuto accanito parossistico accoltellamento, della propria madre e del proprio fratellino con la complicità attiva di un amico), è scientificamente risibile la ricerca della responsabilità (punibile) o dell’innocenza (non perseguibile) ai fini dei provvedimenti di recupero da prendere in ogni caso, o lo  scegliere fra punizione e proscioglimento, perché la soluzione richiesta prescinde dall’una e dall’altra cosa. Il caso in questione, infatti, è uno di quelli in cui la dialettica accusa-difesa è appunto scientificamente assurda perché la vittoria dell’una o dell’altra è ugualmente sbagliata e non solo perché si tratta di criminalità minorile. Far valere la tesi della seminfermità mentale può servire solo alla carriera dei difensori mentre la tesi dell’incapacità d’intendere e di volere –  riferita al momento del crimine – non occorre essere psichiatri per trovarla totalmente gratuita almeno nella misura in cui è materialmente impossibile “radiografare” retroattivamente lo stato di coscienza di un soggetto in una situazione già trascorsa. Solo la prova provata di un’azione criminosa per induzione irresistibile (non dipesa dalla volontà del soggetto) può costituire motivo sufficiente di doveroso scagionamento. Ma se l’induzione esterna non c’è stata e la si fa credere per motivi di mercato e di carriera, la difesa fa male contemporaneamente e all’autore del crimine e alla società: è questo uno dei maggiori rischi di incalcolabile gravità dipendenti da un gioco che non ha ragion d’essere laddove non si tratta di “vincere una causa” e di “farla pagare a un reo” ma di difendere la collettività da episodi che hanno tutto il sapore di sintomi di una malattia autoimmunitaria della collettività stessa.

Il caso giudiziario Erika-Omar si è testé concluso: lascia molto a desiderare, sul piano scientifico, anche il calcolo della pena. Si è costretti a pensare al bilancino del farmacista. Siamo dunque totalmente fuori della realtà, cioè della valutazione scientifica della realtà. Siamo ancora alla preistoria della giustizia. Un’adolescente ha ucciso madre e fratellino: non ha sparato o lanciato un corpo contundente in una crisi di collera ma ha vibrato un centinaio di coltellate vedendo scorrere il sangue delle vittime e sentendo le loro grida di dolore e di lacerante implorazione. L’avere commesso un crimine prova da sé la capacità di commettere – e di ripetere – il crimine stesso con il ripresentarsi di circostanze esistenziali, cliniche e psicodinamiche simili. Ha commesso il terribile e terrificante crimine – si direbbe perfino contro natura – in istato d’inconscienza? Bene, salvo il caso sopra richiamato dell’induzione coattiva – è un motivo sufficiente per tenere l’autrice in istato di custodia a tempo indeterminato come soggetto pericoloso  per la collettività, perché nulla ci vieta di supporre che il raptus (semmai di raptus si tratti) si possa ripetere, appunto, in circostanze analoghe. Custodia a tempo indeterminato non significa ergastolo ma esattamente quello che dicono le parole. La scelta pertanto non andava fatta tra carcere, clinica o assistenza sociale ma tra “libera circolazione” e custodia, che impedisca intanto al soggetto di venire in possesso di armi, proprie o improprie, offensive e di trovarsi da sola in presenza di vittime potenziali. Colpevole o innocente, è l’unico modo di mettere il soggetto davanti alle conseguenze reali del proprio comportamento: “hai ucciso, puoi uccidere ancora, non sei abile alla libera convivenza civile, ti ritrovi sotto custodia nell’interesse della collettività ed anche tuo”. E’ questa la situazione automatica di pena-prevenzione-terapia come autoprivazione di libertà e come autopunizione simmetrica non dipendente della bravura di un avvocato o di un pubblico ministero ma per effetto diretto della propria condotta.

Sta di fatto che la ragazza, consapevole al momento del cruento massacro o informata successivamente del proprio operato, non è morta di rimorso, di pena inconsolabile al ricordo (o alla notizia) del supplizio inflitto a esseri del suo stesso sangue, non ha detto di non meritare alcuna indulgenza, ma si è procurato un nuovo “ragazzo”, ha continuato a vivere e a elaborare progetti per il futuro, a sognare e dilettarsi e, alla lettura della sentenza di condanna, invece di gridare di meritarsela e di chiedere perdono, ha detto che la sua vita finiva in quel momento. Solo in quel momento. Una ragazza che sa – o ha appreso – di avere “macellato” la propria genitrice e una piccola indifesa creatura nata dallo stesso utero, e non  muore di dolore e di straziante rimorso, è un caso-limite di anomalia affettiva – quanto lontana dalla sensibilità di un cane che si lascia morire per la morte del padrone! – certamente non voluta dal soggetto, per quel meccanismo biogenetico accennato in apertura, ma che tuttavia toglie all’autrice il diritto alla libertà. Lo stesso discorso vale sostanzialmente per il ragazzo.

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D

avanti a fenomeni “esistenziali” così gravi non processi rituali occorrono ma  urge il coraggio di chiedersi perché la nostra civiltà (“superiore”?) produca sempre più mostri del genere e se per caso ciò non dipenda dal fatto che economia e politica invece di omologare radicalmente la vita sociale alle leggi della biologia, si rifanno sempre più all'unica legge della giungla attraverso la privatizzazione (ovvero distruzione) del sociale e la lotta obbligata per il lavoro sempre più assimilata alla lotta per l’esistenza delle bestie. Davanti a casi di conclamata “sindrome suicida” del corpo sociale (organismo vivente sui generis) il potere, che rappresenta il sistema vigente, dovrebbe processare sé stesso. Quanto ci vuole per prendere atto della “legge della correlazione” che domina tutto il mondo biologico e biosociale? L’ultimo dei giochi forensi messi in scena sarà probabilmente la non lontana “rimessa in circolo sociale” dei soggetti in causa a sèguito di soddisfatte formalità burocratico-giudiziarie (dalla semilibertà, alla libertà condizionata via via fino alla libertà tout court) alla fine del cui iter gli interessati, tramutati teoricamente in “persone sociocompatibili”, si diranno alfine di avercela fatta (anche se l’ambiente carcerario li avrà soltanto caricati di maggiore misantropia, apatia affettiva e indifferenza morale e quindi peggiorati) mentre rientreranno in un contesto ammalato che continua a produrre altri mostri.

                                                                                                                    Carmelo R. Viola